Ascoltare, osservare, intuire, ragionare ….

Rileggendo Augusto Murri

Giovanni Danieli

Giovanni Danieli, clinico medico nella nostra Università in un recente passato e da sempre convinto promotore delle Scienze umane in Medicina, ha tenuto il 16 novembre scorso una lezione su Augusto Murri ed il metodo clinico a conclusione del corso di Storia della Medicina per gli Studenti del secondo anno a cui ha fatto seguito un vivace dibattito con la partecipazione di Colleghi e di Studenti.

Augusto Murri, marchigiano d’origine e bolognese d’adozione, è stato un clinico di grande fama tra fine Ottocento ed inizio Novecento, che univa rigore metodologico ed umanità fino all’impegno politico dalla parte delle persone socialmente più deboli. (Stefania Fortuna)

Quarantacinque anni fa pubblicavo con i miei Collaboratori d’allora un libro di Semeiotica Medica. Sulla copertina (Fig. 1) era raffigurato un medico nell’atto di auscultare il torace di una paziente.

In quegli anni la medicina era prevalentemente clinica. Kliné è parola greca che significa letto, era quindi una medicina fatta al letto del malato.Medici e Studenti ascoltavano nel torace il rumore prodotto dall’aria nell’entrare e nell’uscire dai polmoni e, nei casi di malattia, i rumori patologici, ad esempio i rumori cosiddetti umidi perché prodotti dall’aria nell’attraversare superfici bronchiali ricoperte da essudato e che, distinti in rantoli a grosse, medie, piccole bolle, subcrepitanti prevalentemente inspiratori, permettevano di precisare la sezione di albero bronchiale interessata dall’infiammazione. Oppure crepitii che simulavano il rumore del cuoio fresco o della neve calpestata e che, se percepiti in entrambe le fasi dell’atto respiratorio, prevalentemente alle basi polmonari, indicavano infiammazione dei foglietti pleurici e permettevano di riconoscere una pleurite, che si definiva secca;

se invece nel cavo pleurico vi era versamento, si ascoltava il soffio bronchiale generato da massivi versamenti che collassavano il parenchima contro i grossi bronchi e la cui auscultazione portava alla diagnosi di pleurite essudativa.

Del polso (Fig. 2) si esaminavano le diverse caratteristiche, il ritmo, la frequenza, la consistenza, la tensione, la durata, l’ampiezza, l’uguaglianza e la simmetria, riuscendo con la sola palpazione a riconoscere la condizione del vaso e far diagnosi di tachicardia, bradicardia, aritmia, extrasistolia, fibrillazione e tanto altro.

Da quel tempo molte cose sono cambiate; la crescita delle conoscenze è stata esponenziale, la medicina interna si è frammentata in specialità e sub-specialità; lo sviluppo delle tecnologie è stato incessante, basti pensare che ecografia, TAC multistrato, RMN funzionale, PET, tutti strumenti senza i quali oggi non si fa diagnosi, quaranta anni fa non esistevano.

Si è assistito contemporaneamente al susseguirsi di nuove proposte in campo medico, la medicina della complessità e quella di genere, la medicina basata sulle evidenze e quella basata sulla narrazione, la medicina molecolare e quella personalizzata, la medicina difensiva ed altre ancora, tutte correnti di pensiero che hanno lasciato il segno nel nostro modo di essere medici.

Sono stati questi alcuni dei grandi trionfi della medicina, che hanno portato e continuano a portare all’umanità grandi benefici in termini di quantità e qualità di vita; trionfi che vanno riconosciuti e vissuti razionalmente, senza tuttavia ignorare il prezzo che si è pagato. Si è infatti ridotto al minimo il tempo della relazione medico-paziente, reso opzionale l’esame fisico, si è espansa una medicina tecnologica nella quale la diagnosi è sempre più strumentale e sempre meno clinica; la medicina si è disumanizzata e si avverte da parte dei pazienti insoddisfazione verso i medici e verso l’organizzazione sanitaria. Ne fanno fede le denunce ai sanitari fatte spesso non per loro negligenza, imperizia, imprudenza ma per avidità di denaro, e la “malasanità” sbandierata nella stampa di tutti i giorni.

Oggi si avverte l’esigenza di un ritorno al letto del malato, ad una relazione medico-paziente vera, occorre ritrovare il metodo clinico, che era stato proposto con grande vigore dai Clinici della seconda metà del diciannovesimo secolo e che vide in Italia il suo più convinto assertore in Augusto Murri.

Augusto Murri fu uno dei più grandi Clinici medici d’Europa a cavallo tra i secoli XIX e XX. Era medico e filosofo insieme, quindi portato al ragionamento, alla costruzione logica del pensiero, alla critica dei risultati. Dobbiamo a lui la definizione e l’affermazione del metodo clinico che noi oggi utilizziamo, di quel modo cioè di procedere nell’incontro medico-paziente che ha il fine di risolvere il problema clinico e decidere la cura in una persona in malattia.

Il metodo seguito da Augusto Murri era di tipo induttivo; il Medico incontrava il paziente senza alcun preconcetto sulla natura della sua malattia, come si diceva con la mente tabula rasa, e raccoglieva tutte le informazioni possibili sia attraverso un’anamnesi personale e familiare a tutto campo, sia attraverso l’ispezione minuziosa di ogni organo ed apparato. L’insieme delle informazioni così raccolte lo portava a definire la diagnosi. Ben presto però si rese conto della complessità e del tempo che questo metodo comportava e lo sostituì con il metodo ipotetico-deduttivo, la cui peculiarità consisteva nella formulazione precoce di ipotesi e nella successiva verifica delle stesse al termine di una osservazione accurata del paziente.

L’unica conseguenza logica sarebbe di ricercare per ogni malato tutti i fatti della vita, dal primo vagito all’ultimo gemito della malattia. A questo ideale noi cerchiamo di avvicinarci nella compilazione delle storie della clinica, benché qui, come dappertutto, la realtà non possa raggiungere la perfezione dell’idea…

Ed allora, in luogo della via diritta, ci è forza prendere le scorciatoie. Ma come fare perché il precetto fondamentale non sia offeso? Noi facciamo quello che tutti gli uomini, consapevoli o inconsapevoli, fanno: concepiamo una ipotesi e la mettiamo alla prova ricercando i fatti che le spetterebbero; quindi ricerchiamo quelli in ispecie, non tutti in genere. Se non troviamo quelli, ci accorgiamo che l’ipotesi non è giusta e la abbandoniamo; e allora ne facciamo una seconda, una terza, un’altra, finché non troviamo quella con la quale i fatti stanno pienamente d’accordo. Il cammino è senza confronto più breve

Nel pensiero di Augusto Murri vi sono tre principi fondamentali, il primo dei quali è osservare.

Un clinico dovrebbe guardare, tastare, ascoltare, percuotere, pesare, misurare, consumare quanti più reagenti chimici che può, applicare congegni meccanici…studiar preparati microscopici, sperimentare sugli animali, fare indagini batteriologiche; osservare bene e descrivere gli eventi senza sformarli con le proprie ipotesi è una delle più benefiche virtù dello spirito umano!

Qui noi cominciamo a vedere i primi segni del metodo, l’ascolto, l’esame fisico, la visione degli accertamenti, la verifica sperimentale, l’attenzione ai fatti. Questi costituiscono, come Maurizio Bufalini clinico medico a Firenze e Roma nella prima metà del diciannovesimo secolo aveva affermato in pieno positivismo, il fondamento di ogni umano sapere. A condizione, precisa Murri, che li si interroghi in modo razionale.

I fatti sono muti, essi si lasciano attribuire ciò che piace agli uomini che si dica, ma la verità – che è l’unico loro linguaggio – la rivelano solo quando chi li interroga è l’umana ragione.

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Augusto Murri nacque a Fermo il 7 febbraio 1841. Nel 1863 conseguì presso l’Università di Camerino la laurea in medicina. Perfezionò la sua preparazione frequentando a Parigi le lezioni di Bazin Fournier Trousseau e a Berlino, grazie ad una borsa di studio, le cliniche dirette da Traube e da Frerichs. Al ritorno in patria – carmina non dant panem – fu medico condotto prima interino a S. Severino Marche e Cupramarittima, poi titolare a Fabriano e Civitavecchia.
Non abbandonò lo studio né la ricerca clinica, tanto da attirare l’attenzione di Guido Baccelli, clinico medico nonché uomo politico e ministro in diversi governi, che lo volle assistente in clinica medica a Roma; qui si fermò per cinque anni fino al 1876 quando, per i grandi meriti acquisiti, l’Alma Mater Studiorum lo chiamò a ricoprire la cattedra di Clinica medica dell’Università di Bologna.
Aveva così inizio un periodo di oltre quarant’anni nel quale la scuola bolognese si poneva nel panorama culturale italiano come un polo clinico di alta medicina.
Fu Murri grande medico e grande educatore, prima medico e poi insegnante; la sua esperienza in condotta l’aveva reso consapevole e partecipe degli orrori e delle miserie umane. Aveva scritto:
Medico vero non può essere chi non sente imperioso nel cuore l’amore degli uomini.
Quando uno di noi con questo sentimento nell’animo è condannato per tutta la vita a contemplare, impotente, di quante calamità gli ordinamenti sociali e politici sono fecondi per tanti sventurati, egli diventa nemico di questo che pomposamente si suole chiamare ordine.
Ed ancora : Il Medico, fidando nelle evoluzioni benigne, chiede rimedi morali, invoca giustizia sociale, anela ad un ordine meno mendace.
Non disdegnò l’impegno politico ed entrò nel 1895 nell’amministrazione del comune di Bologna; laico e socialista si schierò nelle file dell’opposizione, battendosi tra l’altro, con l’appoggio di due colleghi di facoltà, Pietro Albertoni fisiologo ed Augusto Righi fisico, contro l’insegnamento nelle scuole della religione; affermava
….Bisogna distinguere il sentimento dall’insegnamento religioso….che si debba fare nelle scuole l’insegnamento della morale….questa morale umana si deve solo insegnare nelle scuole, perché è comune a tutti e perché è debito di uno stato di fare dei buoni cittadini. Ma insegnare religione lo Stato non deve, perché è ufficio delle famiglie che lo vogliono : lo Stato non deve essere né ateo né teista, ma avere il massimo rispetto per tutte le coscienze.
La mozione Murri/Albertoni venne respinta avendo ottenuto solo sedici voti su quarantadue.
Era il 28 agosto 1902 quando il figlio Tullio, ventiduenne avvocato, uccise con tredici coltellate il cognato Conte Bonmartini; sullo sfondo, si diceva all’epoca, un torbida storia di amori e tradimenti, che aveva avuto per protagonisti i due figli del Maestro, Tullio che verrà condannato a ventisette anni, e Teodolinda, l’adorata Linda, condannata a cinque, ma restituita dopo due alla libertà per grazia regale.
Questa tragica vicenda distrusse Murri, che lasciò Bologna e si rifugiò a Rapallo, ove visse in piena solitudine per trenta mesi, fino al momento in cui (1905), sollecitato da amici e dai suoi studenti, ritornò a Bologna e riprese, con rinnovato entusiasmo, il suo magistrale insegnamento. Restò in cattedra, sempre fedele a quell’empirismo razionale che aveva sempre professato, sino al 1916 anno della sua naturale quiescenza.
Si spense novantunenne a Bologna il 10 novembre 1932 nella sua villa all’inizio di via Toscana, appena fuori Porta S.Stefano.

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Momento fondamentale della visita medica è l’anamnesi, parola greca che significa ricordo. Ricordando, il paziente racconta la storia della sua malattia, racconto che il medico ascolta con grande attenzione perché da questo deriva la diagnosi; conosce il suo paziente, ne condivide i problemi, stabilisce con lui quell’empatia che è componente essenziale della relazione medico-paziente; è l’arte dell’ascolto, come l’aveva definita agli albori del primo millennio Plutarco; il medico a sua volta interviene, pone domande, richiede chiarimenti, informa, il racconto diventa dialogo, il dialogo diviene motivazione (motivational interviewing), perché permette al paziente di compiere una scelta razionale delle indagini cui sottoporsi e delle cure da intraprendere.

Nello stesso tempo il medico rispetta i diritti del paziente, il diritto all’ascolto, perché chi soffre, raccontando i propri mali estingue l’ angoscia e trova sfogo in questo, perché l’ascolto è fondamentale al medico per inquadrare la diagnosi; diritto all’informazione, che deve essere chiara, completa sino al punto che il paziente desidera o può accettare; non si venderà mai una guarigione ma solo la possibilità concreta della stessa; il diritto alla condivisione della scelta degli accertamenti necessari alla diagnosi e dei provvedimenti da adottare che dal medico sono stati chiaramente illustrati. Ed anche il diritto di stabilire la propria fine, diritto tuttavia che non significa sollecitare eutanasia, ma solo rifiutare accanimenti terapeutici.

Io non vi consiglio a trascurare l’anamnesi; tutt’altro!… La regola è sempre quella generale: bisogna ricercare l’anamnesi, perché dal modo come i fenomeni si succedono, può venir tanta luce, quanto forse non viene dal modo in cui si trovano associati, allorché i danni sono molto gravi ed estesi. Bisogna avere la più grande pazienza… Ad ogni sintoma, che la storia vi fa conoscere, procurate di dare un valore fisiologico, con critica severissima… Questo s’impara facendo e rifacendo, errando e correggendo, guardando e pensando.

Secondo principio, ragionare. Raccogliere, interpretare, intuire, ragionare, avanzare ipotesi.

Ma come ricostruire il processo morboso? Lo ripeto: ciò è possibile solo con la ragione. L’immaginazione, rigorosamente contenuta dalla critica, permette di ricongiungere con un’ipotesi ragionevole le parti empiricamente note. Se il clinico non deve far questo, rinunzi allora a comprendere: ma se vuole comprendere non può fare che così.

Più ipotesi razionali si esprimono, maggiore è la probabilità di imbattersi in quella corretta. Non si farà mai la diagnosi di una malattia se prima non la si è immaginata.

Cerchiamo di immaginare ancora. Chi non sa fare ipotesi non sa cercare la verità; più se ne immaginano e meno si corre il rischio di lasciare inconsiderata l’ipotesi giusta. Non si può in altri termini concepire la dimostrazione di una cosa che non sia stata prima immaginata ed il bravo medico è quello che ha più fantasia, più creatività nell’individuare il maggior numero di ipotesi plausibili

Terzo principio è criticare, criticare tutto e tutti prima di credere, ricercare le prove scientifiche di ogni affermazione.

Nella clinica, come nella vita, bisogna avere un solo preconcetto, uno solo, ma inalienabile, il preconcetto che tutto ciò che si afferma e che par vero può essere falso. Bisogna farsi una regola costante di criticare tutto e tutti, prima di credere, bisogna domandarsi sempre come primo dovere: perché devo io credere a questo?

In queste parole vi è il germe di quella che cento anni dopo sarebbe stata la Evidence Based Medicine (EBM).

Verso la fine degli anni ‘90, David Sacket ed altri colleghi della Mac Master University esperti di formazione, presentarono un manifesto nel quale veniva affermato che per porre la diagnosi e definire la terapia di un’affezione non erano sufficienti l’intuizione, le conoscenze acquisite nel tempo, il ricordo di esperienze isolate (diffidare di chi dice io ho visto un caso . . . . secondo me . . . ), ma era necessario cercare, e trovare, le prove di ogni affermazione, cioè le evidenze che derivano da studi clinici rigorosamente condotti e controllati, oggi reperibili numerosissimi in rete.
L’obiettivo era, ed è, quello di trasferire al letto del malato gli straordinari risultati della ricerca, come si diceva from bench to bed, che è poi il principio della medicina traslazionale.
La EBM ha alcuni grandi meriti, aver portato il paziente al centro dell’attenzione, aver posto la scienza quale fondamento dell’essere medico, aver costituito la base delle linee guida che sono raccomandazioni comprovate dai fatti che permettono di conferire appropriatezza alle decisioni diagnostiche e terapeutiche. Ma ha anche dei limiti, tutto ciò che è vero per un gruppo di pazienti può non esserlo nel singolo individuo, che è unico ed irripetibile, diverso nel suo contesto ed avviato ad una terapia personalizzata volta ad eliminare il danno determinato da un’anomalia genetica.

Nasce poi, non in opposizione ma ad integrazione, la Narrative Based Medicine (NBM) che esalta la comunicazione tra medico e paziente, il racconto che il paziente fa delle proprie sofferenze, il racconto che il medico fa della malattia, di cui descrive i mezzi diagnostici e terapeutici necessari rispettivamente a riconoscerla e curarla.

Il metodo clinico che noi seguiamo (Tabella 1) concilia il pensiero induttivo con quello ipotetico-deduttivo; si basa infatti sulla raccolta accurata di tutti i sintomi e segni che il paziente presenta e sul ragionamento critico che porta all’identificazione del suo problema di salute (procedimento induttivo); seguono la formulazione di ipotesi attendibili e la loro verifica (procedimento ipotetico-deduttivo) sino a raggiungere la soluzione del problema diagnostico e l’assunzione di decisioni concernenti la terapia ed il controllo periodico della malattia.

 

Il metodo deriva direttamente da quello sperimentale (Figg. 5, 6), scandito anch’esso dalle tappe di osservazione di un fenomeno, formulazione di ipotesi, sottomissione delle stesse ad un esperimento, presentazione dei dati e, se confermano l’ipotesi, formulazione di una teoria scientifica.

 

Questa derivazione fa definire la medicina una prassi basata sul metodo scientifico e sui principi etici.

A Londra, nella Tate Gallery (Fig. 7) vi è una tela di Luke Fildes, The Doctor, nella quale si osserva un medico che di notte ed in una povera casa osserva a lungo una sua giovane paziente. Troviamo qui riprodotte le virtù efficaci che il medico deve possedere – oltre alla competenza che è un requisito – l’osservazione, il ragionamento, l’umiltà, l’empatia.

Concludo con l’auspicio che, senza nulla togliere ai progressi della tecnologia divenuti indispensabili per una diagnosi sempre più corretta e mirata alla miglior decisione terapeutica, vi sia, nella formazione medica come nella pratica clinica, il ritorno alla relazione medico-paziente. In questo rapporto il paziente è considerato una persona che dal medico si aspetta non solo conoscenza e perizia, ma anche comprensione e quell’afflato, indescrivibile con le sole parole, che Augusto Murri ha chiamato “amore per gli uomini”. La competenza fa il dottore, competenza ed umanità fanno il medico.

NdA. Nella figura 1 è ritratto il mio prozio Giovanni Pomarico, laureatosi a Bologna nel 1886. Allievo prediletto di Murri, fu poi Medico primario e Direttore dell’Ospedale civile di Lecce. Nella figura 2, mio Padre giovane medico nello stesso ospedale

 

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