Alle radici della trasmissione dei saperi professionali. – Parte prima

Giordano Cotichelli
Corso di Laurea in Infermieristiche
Facoltà di Medicina e Chirurgia, Università Politecnica delle Marche
 

La CdF è uno strumento che permette di leggere ed interpretare, da parte di un formatore, lungo un continuum percettivo, la propria esperienza letta all’interno della sua storia formativa passata, profonda, forse dimenticata, sicuramente nascosta, ma presente e funzionale a formare quel bagaglio di risorse da scoprire che prende il nome di hidden curriculum.

John Dewey nel suo saggio[1] del 1897 – Il mio credo pedagogico – affermò: “Ogni educazione deriva dalla partecipazione dell’individuo alla coscienza sociale della specie. Questo processo s’inizia inconsapevolmente quasi dalla nascita e plasma continuamente le facoltà dell’individuo, saturando la sua coscienza, formando i suoi abiti, esercitando le sue idee e destando i suoi sentimenti e le sue emozioni. Mediante questa educazione inconsapevole l’individuo giunge gradualmente a condividere le risorse intellettuali e morali che l’umanità è riuscita a accumulare.” Dewey è uno dei padri della pedagogia moderna, al cui interno riesce ad inserire elementi propri del pragmatismo statunitense (inteso come corrente filosofica) in una prospettiva intellettuale che fa da ponte tra il XIX ed il XX secolo. Nel passaggio citato si ritrova il termine di “abiti” che risulta quasi anticipatorio al ben più ampio ed articolato concetto di habitus che verrà elaborato dal sociologo francese Pierre Bordieu, nella seconda metà del ’900, all’interno della teoria dell’azione sociale. Per Bordieu l’habitus è lo strumento interpretativo dei meccanismi della riproduzione sociale in stretta correlazione con la struttura sociale di riferimento (professione, religione, etnia, classe sociale, etc.). In particolare in un lavoro fatto assieme a J.C. Passeron[2]La reproduction – il sociologo francese prende in esame in maniera estremamente critica il sistema scolastico del suo paese, più incentrato a riprodurre le strutture dominanti, che a trasmettere il sapere in quanto tale. Il sistema educativo, ed in questo la formazione, diventa quindi strumento di diffusione dei codici interpretativi ad esso correlati.

            I due autori hanno la funzione di costituire un cono di luce sul le questioni relative all’educazione in generale, in cui la trasmissione del sapere, ed ancor più la formazione del professionista, risultano i prodotti di una molteplicità di fattori inerenti l’individuo ed il suo ambiente, sia in posizione di discente o ancor più di docente. In merito si ritiene utile portare la sintesi di due diversi contributi relativi alla formazione infermieristica, in cui sono riportate le testimonianze di formatori. Nel primo caso queste si presentano come il prodotto di una ricerca articolata che ha preso in esame un campione di ben 25 formatori infermieri all’interno di corsi di laurea. Mentre la seconda testimonianza deriva dall’esperienza di “formazione vissuta”, sorta di nursing narrative specifico, relativo ad un Corso di laurea in terra ligure.

            La ricerca è quella fatta nel 2011[3], a cura di Zannini, Randon e Saiani, in relazione alle questioni formative in campo infermieristico, dove vengono sollevati alcuni concetti interessanti, come quelli riferiti al curriculum nascosto (hidden curriculum) e la clinica della formazione. Il lavoro prende in considerazione la vasta letteratura presente, a partire dal pensiero espresso da Philip Jackson[4] che sottolinea, come all’interno delle conoscenze trasmesse, vi siano sia degli elementi espliciti, propri del portato scientifico del sapere, sia dei costrutti impliciti, fortemente condizionati da norme, atteggiamenti e credenze legittimati e premiati, o meglio veicolati, dal docente stesso. Il pensiero di Jackson viene riassunto dall’autore appunto nel concetto di hidden curriculum (Hc) che verrà poi ripreso da altri negli anni successivi quali Bain[5], Margolis[6], Kentli[7], i quali si interesseranno delle dimensioni latenti ed inespresse dell’insegnamento stesso, rispetto non solo agli insegnanti ed agli studenti, ma oltremodo a tutti gli attori che concorrono a formare l’ambiente organizzativo ed istituzionale in cui il discente espliciterà il suo percorso di formazione. Il quadro schematicamente tracciato, assume una certa rilevanza poi in ambito sanitario, rispetto al quale Bell[8] mette in evidenza la cesura che si manifesta spesso fra l’insegnamento teorico richiesto dai curricula e quello effettivamente trasmesso, ancor più in relazione alla pratica nei ai contesti clinici. Nella sostanza Bell pone l’accento sulla particolarità dell’ambiente sanitario in cui la crescita professionale è costantemente correlata ad una risultante formativa derivante dall’apprendimento dei saperi clinici ed assistenziali verificati direttamente e continuamente “sul campo”. La bibliografia di riferimento della ricerca di cui si è detto, prende in esame un altro autore, quale Tanner [9] che rileva la centralità del Hc nel percorso degli infermieri. Egli evidenzia come questi veicolino, all’interno della costruzione del loro sapere professionale, una socializzazione sottile, figlia non solo dei saperi trasmessi, ma del contesto in cui si viene inseriti, che forma e conforma l’essere e il sentirsi infermieri.

            Il quadro teorico così tracciato ha la capacità suggestiva di restituire l’immagine di una professione stretta lungo il suo piano formativo all’interno di due polarità, in cui la chiave interpretativa più comune, è ben riassunta dall’affermazione tipica, a volte udita in sede di tirocinio, che all’incirca somiglia alla seguente frase: “Bene, nelle aule ti è stata insegnata una cosa, ma qui si è fatto sempre così”. La ricerca in oggetto, ha valutato il portato narrativo dei formandi stessi, rivolgendosi ad un campione di 25 infermieri formatori esperti, dell’Italia del Nord e Centrale, valutati attraverso gli strumenti propri della Clinica della Formazione (CdF), rilevati in appositi focus group. I risultati sono stati presentati nel 2011 e ulteriormente rielaborati in chiave pedagogica cinque anni dopo. Prima di illustrarli è necessario descrivere brevemente però che cosa è la già citata CdF.  

            La CdF è uno strumento che permette di leggere ed interpretare, da parte di un formatore, la propria esperienza lungo un continuum percettivo che scava attraverso un percorso di ricerca-intervento il portato profondo di docente/discente prenderà in considerazione la sua storia. La risultante finale è la rappresentazione delle esperienze passate in qualità di formandi che si riverberano, in misura diversa, nella stessa trasmissione del sapere. In tal senso Lucia Zannini, assieme agli altri autori, nel lavoro del 2016, riprende le tesi di Massa [10] che definisce le diverse letture che strutturano il portato formativo, in quelle che lui chiama deissi, termine modulato dalla linguistica e riferito ad un livello comunicativo che non si concretizza in parole ma in un diretto richiamo spazio-temporale di una situazione esperita. Quello che secondo Massa va tenuto in considerazione all’interno della CdF, sono: la deissi interna (relativa alla narrazione della propria storia personale e professionale), la deissi esterna, modulata dall’altrui esperienza (rappresentata all’interno di una proiezione filmica) e la deissi fantasmatica con valenze simboliche utili a far riemergere vissuti e desideri, speranze ed ansie, proiezioni di sé ed emozioni perdute. Le deissi identificate da Riccardo Massa diventano così strumento di una CdF in cui l’etimologia della parola clinica – klinè (letto) e klinein (chinarsi) – restituisce l’azione primaria di avvicinarsi all’oggetto dello studio ed osservarlo con maggiore attenzione al fine di rilevarne le caratteristiche non immediatamente visibili, anche se oltremodo importanti [11]; [12]. Le dimensioni nascoste – definite appunto come latenze – da rilevare secondo Massa sono in numero di quattro: quella referenziale o narrativa (sul piano riflessivo che il singolo costruisce), quella cognitiva (rappresentativa di modelli teorici e ideali dell’agire quotidiano), quella affettiva (il mondo delle interazioni e relazioni sul piano emozionale), ed infine quella procedurale e pedagogica (risultante dei condizionamenti sociali, culturali, economici, politici, etc.).

            Il pensiero di Massa diventa centrale nell’esplicitare la CdF quale strumento con funzioni di supervisione e ricerca in cui il focus primario riguarda la rilevazione degli affetti e delle rappresentazioni che entrano in gioco nell’agire educativo. Lungo questa consapevolezza, che analizza i vissuti della storia formativa di 25 infermieri formatori, il lavoro di Zannini, Randon e Saiani si colloca dunque all’interno del solco della ricerca-intervento in cui l’hidden curriculum diventa l’oggetto di studio attraverso lo strumento della CdF al fine di esplorare le latenze presenti, i punti di vista dei formatori infermieri stessi a partire dal loro vissuto passato di discenti. I risultati della ricerca hanno evidenziato una formazione che si realizza all’interno di un contesto organizzativo rigido, poco facilitante l’apprendimento, con un percorso in cui vengono registrati atteggiamenti svalutanti, quando non umilianti, letti però in un’ottica iniziatica che crea demotivazione e tendenza al drop-out. Lo strumento della CdF ha permesso di rilevare il persistere delle influenze, dei condizionamenti di modelli in cui la metafora militare continua ad essere considerata efficace di fronte ad una visione che vuole la costruzione del professionista a partire dalla destrutturazione dell’individuo stesso, restituendo l’immagine del bravo infermiere come colui che prova su di sé un vero e proprio percorso di resilienza che si riproduce nella trasmissione dei saperi e nell’accompagnamento del noviziato. Un quadro finale abbastanza forte che però deve essere interpretato oltre immediate e spontanee reazioni. Nella formazione infermieristica, ma del professionista sanitario in generale, la “metafora” militare – come si è detto – sembra una costante, tributaria di una funzione pedagogica desueta atta ad esaltare le virtù del singolo in relazione al mandato, teorico e pratico, di cui si deve far carico, in termini che sembrano utili solo a modellare un mero esecutore di ordini e nulla più. Il risultato della ricerca fatta nella sostanza rappresenta la punta di un iceberg, che richiama la necessità di fare qualche passo avanti nell’organizzazione formativa, nella dotazione delle risorse, nelle prospettive e negli obiettivi da raggiungere. La clinica della formazione si è rilevata utile a tracciare un orizzonte di riferimento che si dovrà arricchire di ulteriori contributi futuri, in relazione ai quali, la testimonianza dell’esperienza didattica in Liguria, di cui si è accennato all’inizio, all’interno di un quadro analitico che solleva ancora le questioni legate all’hidden curriculum, di cui si parlerà in maniera più approfondita nella seconda parte di questo lavoro.

 

Bibliografia

[1] Dewey, J. (1954). Il mio credo pedagogico, trad. it. La Nuova Italia, Firenze.

[2] Bourdieu P. et Passeron JC. (1970) La Reproduction, Ed. de Minuit, Paris.

[3] Zannini, Randon, Saiani 2011

[4] Jackson PW. Life in classrooms. New York: Holt, Reinhart & Winston 1968.

[5] Bain LL. The hidden curriculum re-examined. Quest 1985;37:145-53.

[6] Margolis E, Soldatenko M, Acker S, et al. Peekaboo: hiding and outing the curriculum. In: Margolis E, editor. The hidden curriculum in higher education. New York: Routledge 2001, pp. 1-20.

[7] Kentli FD. Comparison of hidden curriculum theories. Eur J Educ, Stud 2009;1:83-8.

[8] Bell J. Education: exposing the hidden curriculum. Nursing Mirror, 1984;158:20-2.

[9] Tanner CA. Caring as a value in nursing education. Nursing Outlook 1990;38:70-2.

[10] Massa R. (1992) La clinica della formazione, Franco angeli, Milano, p. 19

[11] Riva MG. (2000) Studio ‘clinico’ sulla formazione. Milano: Franco Angeli.

[12] Riva, M. (2004). La clinica della formazione per la formazione dei formatori. Rivista Adultità, 90 – 99.

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