La matrice archetipica ed etica della cura

Maurizio Mercuri
Corso di Laurea in Infermieristica
Facoltà di Medicina e Chirurgia, Università Politecnica delle Marche

Veniamo al dibattito culturale più antropologico. Il prof. Reich definisce la cura: “un archetipo (…) che fornisce un significato fondativo al nostro orientamento e alle nostre percezioni morali (…) ognuno di noi è figlio di Cura: questa è la nostra identità fondamentale”.[1] Discorso antico, per questo archetipico, se Iohann Gottfried Herder ha identificato la Cura come madre e attribuisce all’uomo l’essere figlio di Cura.[2]

Guarigioni miracolose: l’arte sacra di Beato Angelico

Fig. 1 – Beato Angelico, Predella: nono scomparto – La guarigione del diacono Giustiniano, cm. 37 x 45, 1443 Museo di San Marco, Firenze.

Quale è la matrice semantica della cura? “Il termine “cura” possiede tre ambiti semantici diversi che è possibile ritrovare, diversamente articolati, nella storia della medicina. Il primo viene direttamente dal latino cura, che significa “amministrare, farsi carico, gestire (la cura degli affari)”. Il secondo campo semantico si lega al termine più direttamente medico di “terapia, trattamento” o “guarigione” e come tale si trova già in Galeno e in Celso, nella forma sanatio o curatio. La terza accezione riflette invece il sentimento di preoccupazione, di ansia, ma anche di sollecitudine, protezione, salvaguardia, attenzione nei confronti della sofferenza dell’altro, di protezione dei più deboli (la cura dei neonati, ad esempio). Nel linguaggio italiano contemporaneo queste differenze potrebbero essere rese dalla distinzione fra “curare”, e “prendersi cura”, corrispondente alla distinzione inglese fra to cure e to care. Sino all’inizio dell’Ottocento, il termine “cura” non è direttamente associato al concetto di guarigione. Curare non significa guarire, ma solo prendersi cura, “amministrare” una situazione patologica, una sofferenza”.[3] Per Gensabella Furnari alla cura vengono attribuiti due significati: uno negativo di preoccupazione, di ansia; l’altro positivo di sollecitudine, di attenzione al benessere dell’altro. Per l’autrice il concetto di cura emerge nella tradizione occidentale come concetto fondamentale solo in tempi recenti.[4] Se questo è vero però da sempre l’uomo, come vivente consapevole, ha bisogno di cure: “tutti hanno necessità vitale di ricevere cura e di aver cura, perché l’esistenza nella sua essenza è cura di esistere (…) Si parla di primarietà ontologica della cura perché è l’aver cura che crea la possibilità dell’esserci; per questo è definibile come la categoria formativa dell’esperienza. Si può parlare di primarietà ontologica della cura poiché l’essere umano ha bisogno di essere oggetto di cura (piano della passività), ma nello stesso tempo di aver cura (piano dell’attività). Ha bisogno di essere oggetto di pratiche di cura perché, a partire dalla nascita, il ricevere cure è la condizione necessaria affinché si dischiudano le possibilità dell’essere; e ha bisogno di aver cura di sé, degli altri e del mondo per costruire direzioni di senso della sua esistenza (…) Si può dire che la cura sia il luogo dove comincia il senso dell’esserci”.[5] Parole dense di significato, che andrebbero rilette e meditate. Davanti ad esse, da sempre, il richiamo della memoria va all’atto V della parte II del Faust di Goethe (1749-1832). Cura compare per la prima volta, come figura femminile grigia, “compagna eternamente ansiosa” di ogni uomo. Cura, come metafora del disorientamento e della perdita di senso, compie l’azione di accecare Faust, per dargli il contrappasso per non aver mai conosciuto lui il peso della cura. Nel patto stipulato con Mefistofele segna col sangue di sfuggire alla condizione umana di preoccupazione ed ansia. Cieco per Cura, Faust scoprirà il volto positivo della cura, la sollecitudine, come l’altro cieco famoso, Tiresia, scoprirà la veggenza, la sollecitudine del sapere. E’ Mezzanotte. Compaiono a Faust quattro donne vestite di grigio: penuria, insolvenza, necessità e cura. Riporto il bellissimo testo per intero nella traduzione di Franco Fortini[6]. “Migrano le nuvole, spariscono le stelle. Là dietro, là dietro! Da molto, da molto lontano, arriva la nostra sorella, arriva la morte.

Fig. 2 – Edvard Munch, Fanciulla malata, olio su tela 119,5 x 118,5 cm, 1885-86, Galleria Nazionale Oslo.

Cura: La Cura, l’hai mai conosciuta?

Faust: Non ho fatto che correre io attraverso il mondo. Ogni piacere l’ho afferrato al volo. Non mi bastava? E se ne andasse! Non l’ottenevo? E si perdesse! Ho avuto solo desideri e solo desideri saziati e nuove voglie; e di forza, così ho attraversato d’impeto la vita. Alta e potente dapprima; ora va savia, ora va attenta …

Cura: Quando ho qualcuno in mio potere il mondo gli diventa inutile…

Faust: Basta! Tu così non mi prendi (…)

Faust: Una palude sotto il monte si distende e ammorba quanto già s’è conquistato. Che anche quell’acque putride scompaiano, questa sarebbe l’ultima e più grande conquista. Aprirei spazi a milioni e milioni d’uomini che vi abitino sicuri no e invece attivi e liberi. Verdi campi, fecondi! Uomini e armenti subito accolti dalla terra appena emersa avranno sede subito sotto il colle potente che avrà eretto una gente audace e laboriosa. Qui all’interno, un paese di paradiso; là, fuori, l’onda fino al limite; e quando eroda a irrompere violenta, corra unanime un impeto a colmare la breccia. Sì, mi sono dato tutto a questa idea, qui la sapienza suprema conclude; la libertà come vita si merita soltanto chi ogni giorno la dovrà conquistare. E così, circondati dal pericolo, vivano qui il bimbo, l’uomo, il vecchio, la loro età operosa. Tolto tanto fervore, lo potessi vedere! In terra libera fra un popolo libero esistere! Potrei dire in quell’attimo: “Verweilw do, du bist so schön!” – “Fermati sei così bello! Non potrà mai, l’orma dei giorni miei terreni, per volgersi in eoni scomparire”. Presentendo in me quella felicità tanto alta, ora godo l’attimo più alto”. Da cieco ed ingannato dai rumori dei Lemuri che gli scavano la fossa, Faust immagina la costruzione della città ideale, pensando con premura ancora al futuro e alle nuove generazioni.

Ed ecco la giustizia arriva, sembrerebbe che Faust abbia da morto a pagare il suo pegno, ma le preghiere di Gretchen, degli angeli, dei mistici, del dottore Mariano portano l’anima di Faust verso l’alto. A chiudere: “Ogni cosa che passa è solo figura. Quello che è inattingibile qui diviene evidenza. Quello che è indicibile qui si è adempiuto. L’Eterno Femminino qui ci attrae verso l’alto”.[7] Solo la cura declinata al femminile salva.

Proprio sull’etica della cura si è aperto al femminile un dibattito. In contrapposizione all’etica della giustizia. Tong ha illustrato con chiarezza i tratti più caratteristici del rapporto tra l’etica della giustizia e l’etica della cura, in particolare la “distinzione antropologica”: se nella prospettiva della giustizia l’individuo è quasi un assoluto, separato dagli altri, nell’etica della cura contano soprattutto le relazioni tra le persone, il loro interessarsi reciproco. Nell’un caso è enfatizzata la dimensione pubblica dell’agire su cui è fondata la regola che vale per tutti, nell’altro è data importanza alle relazioni interpersonali all’appartenenza alla comunità di riferimento. Diverso è il ruolo della razionalità nella definizione delle norme che regolano l’agire e quello dei sentimenti e delle emozioni. Nell’etica della giustizia buona è l’azione, nell’etica della cura buono è l’agente.[8] La cura dell’altro non implica il trattarlo in modo imparziale ed eguale, bensì trattarlo sotto il profilo delle sue differenze, da eguale sotto il profilo umano e morale. Esiste una diversità dell’altro sotto la sua eguaglianza: non deve avere necessariamente i nostri stessi principi e le nostre stesse credenze, la nostra stessa morale. Più cogente Hunt: si scaglia contro la “metafisica delle procedure”. E’ una puntuale critica al proceduralismo, anche relazionale. A favore di un comportamento autonomo, maturo e perciò responsabile del professionista.[9]

Con lo specifico infermieristico, per Van Hooft la cura è una virtù che comprende le componenti dell’azione, dell’emozione, della motivazione e della conoscenza. “Intendere la cura come una virtù permette di descrivere l’infermiere come colui che si prende cura, sia per riferimento alle cose che fa, sia per riferimento al modo in cui le fa, ed infine per le motivazioni che lo spingono ad agire in quel certo modo”.[10] La cura conferisce qualità morale alla pratica infermieristica, senza con ciò escludere il ricorso ai principi, o agli ideali di imparzialità e giustizia che ispirano l’azione infermieristica. La cura infermieristica diviene molto più di una “performance competente”, è un’attitudine morale che rende possibile all’infermiere di agire responsabilmente in una situazione e in circostanze particolari, quelle in cui si trova un essere umano che chiede.[11]

Da tempo gli studiosi dell’idea di cura sottolineano il valore etico della cura: “L’etica della cura svolge con ciò una funzione critica nei confronti della deontologia quando interpretata come enunciazione di norme e di precetti “esteriori” imposti all’agire personale. L’etica della cura si rivela invece efficace quando purifica l’intenzione più profonda della deontologia professionale, cioè ricorda alla norma la sua radice morale, per cui la norma è espressione codificata di un valore che vi soggiace. L’invito è quello di riuscire a scovare nelle articolazioni di un codice deontologico l’intento morale che ha guidato i suoi estensori”.[12]

Quali sono le caratteristiche della cura? Secondo Luigina Mortari e Luisa Saiani la buona pratica di cura viene strutturata in tre parti:[13]

A. La cura per l’altro ovvero le azioni dirette sul paziente;
B. La cura del contesto ovvero le azioni che gli operatori compiono sul contesto sia relazionale che fisico;
C. La cura invisibile ovvero quel pensare e quel riflettere che strutturano lo sfondo immateriale della pratica del caring.

A. La cura per l’altro viene identificata in almeno sette categorie:

1. Prestare attenzione: tenere lo sguardo sul paziente e ascoltare;
2. Dedicare tempo: prendersi il tempo di stare con l’altro, prendersi il tempo per una parola che cura, esserci in silenzio, impegnare il tempo in azioni non previste;
3. Comprendere l’altro: essere capaci di empatia, interpretare il vissuto del paziente;
4. Cercare di stabilire una relazione con il paziente: coltivare la relazione con l’altro attraverso la gestualità fisica e quella linguistica;
5. Soddisfare i bisogni del paziente: accogliere le richieste personali, aiutare il paziente nella cura del corpo, aiutare il paziente a mantenere il suo modo di vivere, lenirne il dolore;
6. Preoccuparsi della dimensione emozionale: tranquillizzare, rassicurare, incoraggiare, fagli coltivare la fiducia;
7. Avere rispetto per l’altro: preservare la dignità del paziente, agire con delicatezza.

B. La cura del contesto si declina in tre categorie:

1. Agire sull’ ambito relazionale dei familiari;
2. Agire sul contesto organizzativo, adattando le regole ai bisogni del paziente;
3. Costruire buone relazioni con i colleghi e con il team medico.

C. L’invisibile della cura si sviluppa in altre tre categorie:

1. Pensare, a quello che si fa e riprendere in esame le azioni già decise;
2. Riflettere sull’esperienza, interrogandosi sul proprio agire;
3. Occuparsi del proprio vissuto emozionale, valutando il proprio agire, ascoltando le proprie emozioni, cercando di gestirle.

La relazione intersoggettiva che attraversa il corpo passa per l’empatia che “è l’atto attraverso cui ci rendiamo conto che un altro, un’altra, è soggetto di esperienza come lo siamo noi: vive sentimenti ed emozioni, compie atti volitivi e cognitivi. Capire quel che sente, vuole e pensa l’altro è elemento essenziale della convivenza umana nei suoi aspetti sociali, politici e morali. E’ la prova che la condizione umana è una condizione di pluralità: non l’Uomo, ma uomini e donne abitano la terra”.[14] L’empatia non è simpatia o compassione, gioire o soffrire insieme, partecipare emotivamente alle sorti dell’altro. Ha a che fare anche con questo, ma è essenzialmente la capacità specifica di sentire l’altro, di per sé una sfera complessa di esperienza, che è possibile riattivare.

In un mondo complesso, trascinato da mille derive culturalmente involutive vale discutere un attimo sul valore della cura come lenimento dell’uomo ferito. Essa fornisce una prospettiva allo spirito disorientato alla deriva. Ad essa non si chieda di entrare nelle correnti ascensionali che conducono a forme di paradiso, ma l’attenzione a superare ostacoli e pesi dell’esistenza. Certo lenisce le molte paure dell’uomo e orienta a sanare le molte ferite, del corpo e dell’anima, nel tempo della vita. Alimenta una buona visione del futuro accogliendo quelle istanze superiori che già in Gioele erano descritte: “Dopo questo avverrà che io spargerò il mio spirito su ogni persona: i vostri figli e le vostre figlie profetizzeranno, i vostri vecchi faranno sogni, i vostri giovani avranno visioni”. Non basterà forse ad evitare di provare vertigine o a proteggerci dall’arrivo dei momenti più bui, ma orienterà il timone del carattere e del governo verso migliori prospettive.[15]

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Fig. 3 – Giuseppe Pellizza detto Pellizza da Volpedo – Ricordo di un dolore, olio su tela, 81 x 107 cm, Pinacoteca dell’Accademia Carrara, Bergamo

La cura è contro ogni riconoscimento della vanità del mondo. Il ritornello del Qoelet: “Vanità delle vanità, ogni cosa è vanità” si trasforma in saggezza. “Chi è il saggio? Chi conosce la spiegazione delle cose? La sapienza dell’uomo rischiara il suo volto, ne cambia la durezza del viso”,[16] riconoscendo la supremazia del tempo del curare su quello del demolire e del morire. Sul filone di questo pensiero non tutto è vanità, ma tutto è cura.

Per terminare questo paragrafo, desidero citare l’amato Italo Calvino de “Le citta invisibili”, per l’insegnamento che offre a noi mortali: L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”;[17] questo è ciò che intendo per Cura.

  1. Reich WT, Alle origini dell’etica medica: mito del contratto o mito della cura? , in Cattorini P,

    Mordacci M, Reichlin M (a cura di), Introduzione allo studio della bioetica, Editrice San Raffaele, Milano 1996, pp.231-254: 241.

  2. Herder JG, Das Kind der Sorge, in Werke, Bollacher M. et al., Deutscher Klassiker Verlag 1990, pp.743-4
  3. Fantini B, La medicina scientifica e le trasformazioni nelle teorie e nelle pratiche della medicina occidentale, in P. Donghi P, Preta L (a cura di), In principio era la cura, Laterza, Roma-Bari 1995, pp.47-73.
  4. Furnari G, Cura. Paradigma, in Russo G, Enciclopedia di bioetica e sessuologia, ElleDiCi, Leumann (To) 2004, pp. 58-69.
  5. Mortari L, La pratica dell’aver cura, Bruno Mondadori, Milano 2006, p. VII.
  6. Goethe JW, Faust, tr. it. di F. Fortini, Mondadori, Milano 19877, pp. 1000-11.
  7. Ivi, p. 1057.
  8. Tong R, The ethics of care: a feminist virtue ethics of care for healthcare pratictioners, Journal of Medicine and Philosophy 1988, 23: 131-152.
  9. Hunt G, Ethics, nursing and metaphysics of procedure, in Hunt G (ed.), Ethical Issues in Nursing, Routledge, London 1995, pp. 1-18.
  10. Van Hooft S, Acting from the virtue of caring in nursing, Nursing Ethics 1999, 6, 3: 186-201.
  11. Gastmans C, Care as a moral attitude in nursing, Nursing Ethics 1999, 6: 214-223.
  12. Sala R, Riflessioni sulla cura, Nursing Oggi 1999, 2: 10-13: 13.
  13. Ambrosi E, Canzan F, Cavada L, Fedrozzi L, Maini P, Polloni K, Saiani L, Il caring nella pratica: una teoria descrittiva in Mortari L, Saiani L, Gesti e pensieri di cura, Mc Graw-Hill, Milano 2013, pp. 93-6.
  14. Boella L, Sentire l’altro. Conoscere e praticare l’empatia, Raffaello Cortina Editore, Milano 2006, p. XII.
  15. Gioele 2, 28, Bibbia, CEI 2008
  16. Qoelet 8,1, Bibbia, CEI 2008
  17. Calvino I, Le città invisibili, Mondadori, Milano 1993, p.164
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