Le malattie dei zolfatari del Montefeltro nell’800

Giancarlo Cerasoli
Pediatra, Cesena    

La storia della salute e della sanità può essere scritta in molti modi. C’è una storia “interna” alla salute, scritta da chi ha una formazione medico-biologica, che si interessa soprattutto alla storia delle scoperte scientifiche, dell’avanzamento delle tecniche diagnostiche e terapeutiche, della vita dei personaggi celebri. Ma si può scrivere anche una storia “esterna” o “sociale”, fatta soprattutto da chi ha una competenza storica, che si interessa al contesto storico e sociale del manifestarsi delle forme morbose, alle risposte socio-sanitarie, in termini di pluralità di risposte terapeutiche, di organizzazione dei servizi socio-sanitari, di conseguenze sulla vita sociale. Le malattie dei zolfatari del Montefeltro nell’800 Comunque sia, ogni ricerca storica nasce da un interrogativo preciso che individua degli attori, dei luoghi, dei tempi e delle modalità di svolgimento di specifiche azioni. Ogni risposta si deve fondare su documenti (scritti e non) attinti da fonti. Le fonti possono essere molteplici: dirette e indirette; volontarie e non volontarie; scritte e non scritte, dotte e popolari; qualitative e quantitative. Le fonti dirette su una persona sono le parole che escono dalla sua bocca (come le deposizioni in tribunale), oppure la sua autobiografia. Le fonti dirette di un avvenimento sono quelle dove l’avvenimento è descritto direttamente da chi lo ha visto o vissuto. Le fonti indirette su una persona sono quelle dove il soggetto viene presentato attraverso intermediari che parlano di lui. Le fonti indirette di un avvenimento sono quelle dove quel fatto viene descritto da chi non era presente al suo compiersi e perciò ne parla in maniera indiretta, mediata da altre testimonianze. Le fonti volontarie sono quelle lasciate con l’intenzione di rappresentare una precisa testimonianza, quelle involontarie sono le tracce che si lasciano senza volerlo, informazioni che si leggono tra le righe.

In questo breve contributo cercherò di rispondere a questo interrogativo: quali erano le malattie più frequenti e gravi dei minatori dello zolfo nel Montefeltro e in Romagna nella seconda metà dell’Ottocento? Utilizzerò parte delle informazioni pubblicate nel libro Mal di zolfo. Minatori, medici e malattie nella valle del Savio e nel Montefeltro nella seconda metà dell’Ottocento, scritto con Pierpaolo Magalotti ed edito nel dicembre 2017, a Cesena, presso l’editrice Stilgraf. Le informazioni che darò sono state ricavate da numerose fonti: relazioni e inchieste sanitarie, testi e riviste di medicina, fascicoli giudiziari (di tribunali, Corti d’Assise, etc.), leggi, decreti e regolamenti, informative di Prefetti, Sindaci e Autorità di P.S., relazioni economico- amministrative delle miniere, fonti letterarie come autobiografie, romanzi, racconti, poesie, etc., periodici locali e nazionali, riviste storiche e tesi di laurea, memorie orali, ma anche filmati, foto, cartoline, manifesti, disegni, stampe, quadri, etc. I documenti sono stati reperiti soprattutto negli archivi (Archivi di Stato di Forlì e Cesena, Archivio arcivescovile di Cesena, Archivio Comunale di Mercato Saraceno, Archivio Genio Minerario di Bologna e Ancona, Archivio Società Miniere Zolfuree di Romagna, Archivio Museo Sulphur di Perticara, Archivio Diplomatico Min. Aff. Esteri a Roma) e nelle biblioteche (Biblioteca Camera dei Deputati, Biblioteca College of Physician di Philadelfia, Biblioteche Comunali della Romagna, Biblioteche Nazionali di Firenze e di Roma) e in siti internet. La fonte primaria per conoscere le patologie che affliggevano i lavoratori delle miniere di zolfo del Montefeltro e della Romagna nella seconda metà dell’Ottocento è costituita dalle statistiche compilate dai medici. Dato che non esistevano villaggi di minatori e non ci sono pervenuti i registri delle infermerie e degli ospedali dei siti minerari in esame, le sorgenti d’informazioni più importanti sono le relazioni che scrissero i condotti che operarono nei comuni dove le miniere erano dislocate. Si possono trovare informazioni utili anche nelle inchieste sanitarie statali, che però quasi sempre si limitano a dare notizie generali, senza approfondire la descrizione della situazione nei siti minerari e dei lavoratori ivi impiegati. Nei Risultati dell’inchiesta sulle condizioni igieniche e sanitarie nei comuni del Regno, che si svolse nel 1855, ad esempio, sono ricordate in modo molto sommario anche le malattie professionali e fra queste quelle che affliggevano i minatori: «morti accidentali», «infiammazioni dell’apparato respiratorio » e «febbri da malaria». Negli Atti dell’inchiesta agraria Jacini, del 1877, le «malattie dell’uomo» rilevate nel Cesenate erano Le febbri infettive e reumatiche e la pellagra, però non sembra in proporzioni gravi. La pellagra era molto diffusa anche nel territorio della provincia di Pesaro-Urbino, e nella relazione statistica del prefetto Giacinto Scelsi del 1881 era imputata all’alimentazione prevalentemente a base di mais praticata nelle campagne. Per il comune di Cesena possiamo contare sulle precise informazioni fornite da Robusto Mori, Primario Medico di quella città e direttore della sezione medica dell’ospedale dal 1860 al 1899. Nelle sue dettagliate relazioni sanitarie è ricordata più volte la patocenosi di quel comune: «da noi sono endemiche le febbri da malaria (nelle zone adiacenti alle risaie del Cervese), la pellagra (nelle zone collinari), il tifo addominale e i processi tubercolari (soprattutto polmonari e linfoghiandolari)». Va ricordato che la malaria era presente anche in alcune località della vallata del fiume Marecchia, favorita dalla presenza delle risaie, dove si moltiplicavano facilmente le zanzare anofeli vettrici del plasmodio. Oltre alle patologie sopra ricordate, le altre malattie infettive epidemiche più diffuse erano: la difterite, il morbillo, la scarlattina, la pertosse, la parotite, il tifo petecchiale, l’influenza e la varicella. Il vaiolo non ebbe vasta diffusione anche per merito delle efficaci campagne di vaccinazione. Il colera colpì soprattutto durante l’epidemia del 1855, quando a Cesena causò una mortalità del 15,4 per mille abitanti e a Mercato Saraceno del 28,9 per mille, più elevata della media della Legazione di Forlì che era del 21,37 per mille. Dall’Inchiesta sulle condizioni igieniche e sanitarie eseguita nel 1885 si evidenzia un quadro nosografico della provincia di Forlì sovrapponibile a quello descritto da Mori e vi compare, per la prima volta, la segnalazione tra gli «scavatori dello zolfo nelle miniere di Formignano » di «una grave anemia con anchilostomiasi», che Mori aveva descritto nel 1881. In alcune relazioni compilate dai medici o dai proprietari delle miniere, sono presenti notizie precise su alcune delle patologie «professionali», ossia che colpivano specificamente o in maggiore misura i lavoratori delle miniere di zolfo. In primo luogo vanno ricordate le patologie di origine traumatica, dovute agli incidenti avvenuti sia sottoterra che sopraterra, poi la prima vera e propria patologia professionale, ossia l’anchilostomiasi, e inoltre i danni dei polmoni, del cuore, dell’apparato muscolo-scheletrico, della cute, degli occhi e dell’apparato neuro-psichico. In questo breve saggio verranno prese in esame soltanto le patologie traumatiche poiché sono quelle che mietevano il maggior numero di vittime.

Gli incidenti in miniera
Gli incidenti erano la causa più importante nel determinare malattie e morti tra i minatori. I siti minerari del Montefeltro e della Romagna erano considerati, subito dopo quelli della Sicilia, quelli che presentavano «condizioni intrinseche maggiormente pericolose». Gli infortuni più frequenti in miniera erano i seguenti: 1. Distacco di roccia: costituiva l’incidente più frequente e temuto. Masse rocciose distaccatesi dalla volta delle gallerie e dei cantieri di lavorazione, rovinavano pesantemente sui minatori, schiacciandoli e ostruendo le vie di uscita. 2. Scoppio e inalazione di grisou. Questo gas (idrogeno proto carburato), tipico delle miniere di carbone, è composto in prevalenza da metano. È molto più leggero rispetto all’aria, quindi si trova nelle volte delle gallerie ed ha un odore fetido. I danni causati dal suo scoppio erano rilevanti, dato che i minatori lavoravano quasi nudi per l’alta temperatura e gli elevati tassi di umidità e la fiammata, rapida ad accendersi ed esaurirsi, bruciava la superficie cutanea esposta e la sua inalazione causava ustioni nelle mucose dell’apparato respiratorio. Allo scoppio del gas poteva conseguire la frana della galleria, e allora la causa del danno era duplice. 3. Inalazione di idrogeno solforato o acido solfidrico: si tratta di un gas velenosissimo, che determina stato confusionale e stordimento prima ancora che se ne avverta l’odore caratteristico. La vittima, cadendo a terra, muore rapidamente respirando quantità elevate del gas e anche i soccorritori spesso fanno la stessa tragica fine. Se investe gli occhi può determinare una cecità temporanea che dura due o tre settimane. 4. Intossicazione da anidride solforosa: è dovuta a un gas sviluppatosi per combustione dello zolfo, dannoso per tutti gli esseri viventi, comprese la flora e la fauna. Solubile in acqua, si può resistere a esso per un tempo limitato respirando attraverso un panno inumidito o inzuppato con particolari composti chimici. Era chiamata «fumo di zolfo» e si sprigionava durante il brillamento delle mine, gli incendi nei cantieri e con la combustione delle rocce sulfuree nei calcaroni, i cumuli di rocce solfifere che venivano incendiati per ricavare lo zolfo. 5. Asfissia da anidride carbonica e altri gas nocivi chiamati «tufo mortale», un «liquido volatile», non infiammabile, costituito da carbonio, idrogeno e zolfo. 6. Inalazione del fumo di mine e di pulviscolo. 7. Caduta nei pozzi: 8. Caduta di materiale dai pozzi. 9. Traumi da schiacciamento: per incauto utilizzo dei carrelli, vagoni e degli altri mezzi per il trasporto delle rocce e del metalloide fuso. 10. Scoppio intempestivo delle mine 11. Caduta in un calcarone in caricamento o in scarico. 12. Caduta in una vasca di raccolta delle acque o inondazione delle gallerie. 13. Scoppio di una caldaia a vapore. La fonte ufficiale più autorevole per ricavare i dati di mortalità e morbilità riferiti agli incidenti verificatisi nei siti minerari è la serie di pubblicazioni periodiche edite a cura del Reale Corpo delle Miniere. In essa sono riportate statistiche molto dettagliate dalle quali emerge che nelle miniere di zolfo presenti in Italia, la mortalità nel periodo tra 1874 e 1893 ebbe una media di 2,2 operai su 1000 e oscillò tra lo 0,55 e il 6,06 per mille, con incremento soprattutto tra il 1880 e il 1886. Le denunce d’infortunio, invece, riguardarono in media 3,5 operai su mille con valori oscillanti tra lo 0,2 e il 13,6 per mille e punte massime tra il 1881 e il 1889. Questa mortalità risulta superiore a quella delle più pericolose miniere carbonifere inglesi (media 1,82 per mille), francesi (2,07 per mille) e belghe (1,77 per mille) e pari solo a quelle prussiane (2,63 per mille. Nelle miniere di zolfo del Montefeltro e della Romagna, nel ventennio 1874-1893, la mortalità media risulta del 2,09 per mille, con un picco nel 1881 del 5,3 per mille. La quota media dei feriti è del 2,53 per mille, con una punta del 6,70 per mille nel 1887 e con il 16 per cento degli incidenti che risultano «prevedibili», ossia frutto d’imperizia o negligenza. Per gli anni dal 1884 al 1898, i dati di mortalità per mille lavoratori delle miniere di zolfo delle provincie di Forlì e di Pesaro mostrano un calo rispetto a quelli degli anni precedenti, oscillando dallo 0,28 (del 1886), al 3,39 (del 1896), con un massimo del 4,59 nel 1890. Il numero dei feriti oscilla dall’ 1,1 per mille occupati (nel 1884- 85) fino al 2,5 (nel 1892), con una punta isolata del 4,59 nel 1890. In alcuni casi è possibile attingere a documenti non ufficiali che indicano i morti, i feriti e i relativi giorni di cura. In questo caso i dati di mortalità sono simili a quelli riportati nelle statistiche ufficiali, ma i dati di morbilità sono di gran lunga più elevati. Nel 1864, ad esempio, nelle miniere del Cesenate, su 286 lavoratori ben 166 (il 58 per cento) mancarono in servizio per «malattia» e 74 (il 26 per cento) per «ferita». Anche dagli «specchi dimostrativi» compilati dal direttore Pietro Pirazzoli per le miniere di Marazzana, Perticara, Formignano e Busca dal 1865 al 1876, si ricava una percentuale di minatori infortunati, molto superiore a quella denunciata dagli ingegneri del Reale Corpo delle miniere. I dati sull’aspettativa di vita e sulla vita media dei minatori, laddove disponibili, evidenziano chiaramente che la durata dell’esistenza del lavoratore delle miniere era in quei decenni più breve rispetto a quella di altri lavoratori. Nel 1864, per fare un esempio, gli operai con un’età superiore ai 55 anni ancora impiegati nelle miniere di Marazzana e Perticara erano 34 su 839, pari soltanto al 4 per cento del totale. Una delle cause della differente stima della prevalenza e gravità degli incidenti in miniera, è senza dubbio il fatto che le statistiche ufficiali riguardavano soltanto gli incidenti con le conseguenze più gravi, mentre le rilevazioni non ufficiali, soprattutto quelle di alcuni amministratori minerari e gestori delle Casse di soccorso tra i minatori, consideravano anche gli infortuni più lievi. Bisogna ricordare che, fino al 1899, quando entrò in vigore la legge nazionale che prevedeva l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro, nessuna utilità veniva all’operaio nel denunciare la patologia della quale era affetto. Questo, anzi, sarebbe stato per lui controproducente poiché i gestori della miniera avrebbero di certo scelto un altro al suo posto. Inoltre verso di lui, in caso d’incidenti dovuti a imperizia o negligenza nella messa in opera delle misure di sicurezza prescritte, si sarebbero aperti dei procedimenti di tipo giudiziario volti a evidenziare le mancanze e quindi comminare punizioni piuttosto che risarcimenti. Si deve tenere presente, inoltre, che in alcuni casi, i morti in miniera erano subito portati lontano dall’ambiente di lavoro, per non far risultare che il decesso era dovuto a incidenti causati dalla imperizia o negligenza dei sorveglianti e dei dirigenti. Nel caso di contusioni e infortuni lievi, le subdole resistenze delle amministrazioni minerarie alla denuncia delle lesioni diventavano talora fortissime per timore che gli ispettori del Corpo delle miniere nel corso della visita, rilevassero altri spiacevoli inconvenienti e facessero chiudere la miniera. Gli stessi lavoratori, inoltre, richiedevano raramente l’intervento dei medici per la difficoltà di sostenere le spese per l’acquisto dei medicinali, molti dei quali, va ricordato, avevano scarsa efficacia terapeutica. Quando poi l’infortunato si decideva a denunciare il danno subito, i medici stipendiati dalle società assicuratrici e minerarie, talvolta, cercavano di ridurre al minimo i periodi di assenza o di convalescenza. Il fatto che nel 1886 fosse entrata in vigore la Cassa nazionale di assicurazione, che prevedeva risarcimenti anche per infortuni leggeri, non provocò, come invece si temeva, un reale aumento delle denunce d’incidenti. Oltre alle statistiche del Ministero dell’Agricoltura, Industria e Commercio, e a quelle pubblicate nella «Rivista del Servizio Minerario», altre fonti importanti d’informazioni a loro volta “ufficiali” sugli incidenti in miniera sono: le denunce fatte dagli esercenti delle miniere, i referti dei medici e dei chirurghi che esaminavano le vittime, i verbali redatti dagli ingegneri del Corpo Reale delle Miniere, le ispezioni dei carabinieri e gli atti giudiziari che si riferiscono ai processi intentati ai minatori infortunatisi o deceduti. Questi procedimenti avevano per lo più lo scopo di dimostrare come gli incidenti fossero dovuti all’imperizia e alla negligenza dei lavoratori, escludendo in tal modo la responsabilità degli esercenti delle miniere. Le relazioni più dettagliate sono quelle compilate dagli ingegneri del corpo delle miniere, dove risultano analizzate in maniera meticolosa le dinamiche degli incidenti, la messa in opera delle idonee misure di prevenzione e di soccorso e sono indicate le responsabilità e i provvedimenti da adottare al fine di ridurre il rischio della ricorrenza di quegli incidenti. Informazioni meno dettagliate si possono trarre anche dai verbali giornalieri e dai riepiloghi inviati periodicamente ai prefetti dai carabinieri nei quali, erano sottolineati: il non uso delle necessarie cautele, la «lavorazione troppo abbondante», la poca diligenza dei sorveglianti e la ventilazione inefficace delle gallerie sotterranee. Alcune testimonianze di minatori vittime di infortuni che subirono processi, dimostrano come anch’essi subirono quel sistema di «vessazione delle vittime» che, oltre a non riconoscere il danno patito, li condannava a sanzioni anche gravi per non aver messo in opera le misure di sicurezza prescritte (a volte di difficile attuazione) e la necessaria vigilanza. Accanto alle fonti ufficiali vanno citate altre sorgenti d’informazioni capaci di darci anche altri punti di vista. Si tratta delle notizie contenute nelle cronache delle città, nei giornali, nei Libri dei morti custoditi nelle parrocchie e nelle suppliche, invocazioni e preghiere scritte dai sacerdoti. A volte essi contengono la descrizione meticolosa e partecipata di avvenimenti luttuosi non riportati nelle statistiche ufficiali, più vicina alla «mentalità popolare».

Le norme di prevenzione degli incidenti e le cure prestate agli infortunati
Per ridurre il numero e la gravità degli incidenti in miniera, nel tempo vennero messe in opera precise misure di prevenzione. Un primo nucleo di queste disposizioni riguardava l’impiego di strumenti meno pericolosi: come le mine conservate in casse di ferro e dotate di micce più sicure, le lampade e le cinture di sicurezza e i carrelli trasportatori dotati di dispositivi capaci di fermarli in caso di sganciamento non previsto. Altre norme riguardavano il comportamento dei lavoratori proibendo che raggiungessero le gallerie calandosi nei pozzi lungo le funi, percorressero gallerie pericolose e facessero brillare mine in posti non sicuri. Vennero date precise regole da seguire in caso di incendi o sviluppo di gas o di altri infortuni per dare l’allarme e allontanarsi in gruppo, in modo da ridurre i rischi di soffocamento o di smarrimento. Un’altra serie di misure riguardava il miglioramento delle maschere di protezione dai gas venefici delle quali erano dotate le squadre di soccorso: dal «Sacco Galibert» alla «fiasca di salvamento» alla «scatola del solfataio». Contemporaneamente venne migliorata l’organizzazione del soccorso prestato agli infortunati. A partire dal 1840, alcuni proprietari delle miniere stipendiarono, attraverso trattenute sul salario dei lavoratori, i medici o i chirurghi che dovevano prestare loro le cure. Dal 1872 vennero costruite nei siti minerari più grandi apposite infermerie, o piccoli ospedali, dotati di letti, scorte di farmaci e strumentazione chirurgica. Venne, inoltre, predisposto un miglior servizio di trasporto dei feriti più gravi verso gli ospedali civili più vicini.

Riflessioni conclusive
Dalle informazioni presentate in questo breve contributo è possibile constatare come, anche in Montefeltro e in Romagna, nella seconda metà dell’Ottocento sia stato messo in atto nei confronti dei lavoratori delle miniere una sorta di silenzioso genocidio, che né le deboli proteste dei filantropi, né le autorevoli prese di posizione di alcuni corpi scientifici e della parte più sensibile dell’opinione pubblica riuscirono ad impedire. Solo nel Novecento, il «secolo dell’Assicurazione sul lavoro» furono messe in opera misure di profilassi, cura ed assistenza più efficaci che alleviarono le sofferenze di molti minatori.

     

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