Nebbie d’agosto, quando la storia cancella le professioni

Giordano Cotichelli
Corso di Laurea in Infermieristica
Facoltà di Medicina e Chirurgia, Università Politecnica delle Marche

Il 29 maggio del 1945, presso il complesso ospedaliero di Kaufbeuren – Irsee, nel Sud della Baviera, muore Richard Jenne, di 4 anni, per una dose eccessiva di sonnifero. Non si è trattato di un errore, ma di una scelta della caposala del reparto di Pediatria, Mina Wörle, in ottemperanza al programma Aktion T4, il piano per l’eliminazione sistematica dei bambini e degli adulti portatori di disabilità fisiche e psichiche. La Seconda Guerra Mondiale è finita in Europa da tre settimane, il programma stesso è stato sospeso dal 24 agosto del 1941, sotto la pressione delle famiglie dei disabili uccisi e di alcune autorità ecclesiastiche. Un programma di sterminio “sospeso”, ma non vietato, e di conseguenza, per altri quattro anni circa, ha continuato a mietere vittime. Si parla di più di 5.000 bambini, e oltre 70.000 adulti [1]. Nell’ospedale della caposala Wörle sembra ne siano stati eliminati 210. Lei, per questo verrà condannata a 18 mesi di prigione, pene inferiori ad altre infermiere del reparto, mentre il direttore sanitario, il dottor Valentin Faltlhauser, subirà una condanna a tre anni. Mina morirà nel 1973, all’età di 78 anni.

Durante l’esistenza dello stato nazista molti furono gli infermieri, i medici o semplici ausiliari che parteciparono a programmi di eliminazione di coloro che erano considerati ausmerzen, sotto-uomini, e molti studiosi si sono posti la domanda di come ciò possa essere accaduto. In particolare, anni dopo, due infermiere ricercatrici, Benedict e Kuhla [2], si chiesero quali fossero state le ragioni alla base della partecipazione da parte del personale sanitario all’eutanasia di stato. I due studiosi, attraverso l’analisi dei verbali degli interrogatori, che a suo tempo furono stilati nei confronti delle infermiere dell’Ospedale di Meseritz-Obrawalde, processate per la loro partecipazione al programma Aktion T4, hanno potuto evidenziare alcuni elementi di rilievo. In primo luogo il coinvolgimento ideologico attivo, dove l’eutanasia di stato veniva vista come una forma dovuta per porre fine alle sofferenze di chi era portatore di una grave disabilità, ed il professionista sanitario ne condivideva la dimensione valoriale, specie se iscritto alle organizzazioni professionali di partito.

L’accettazione valoriale però riguardava anche chi apparteneva ad organizzazioni professionali religiose (luterane o cattoliche), esprimendo in molti casi quasi una scissione fra l’essere cristiano e l’azione eutanasica, o peggio, vivendo un senso irrisolto di colpa per l’uccisione perpetrata. A tutto ciò si unisce il dato che comunque i professionisti operavano in un paese in cui il senso dello stato, la dimensione gerarchica, l’obbedienza e non ultime la costrizione sociale e la paura di essere denunciati alla Gestapo, scandivano le giornate della maggioranza della popolazione. Un quadro motivazionale composito che non assolve di certo nessuno, specie poi se si considera che oltre quelli citati vi erano anche fattori economici quali quello salariale che, comportava una maggiorazione mensile sullo stipendio di diverse decine di marchi.

Irena Sendlerowa 24 grudnia 1944

Fig. 1, Irena Sendler (1910 – 2008)

In aggiunta a quanto detto però, su di un piano analitico speculare, devono essere prese in considerazione anche quelle testimonianze di professionisti che, in controtendenza, a rischio della propria vita, si comportarono diversamente, e soprattutto non obbedirono agli ordini. Su tutti spicca l’esempio di Irena Sandler (Fig.1) [3] [4], infermiera e assistente sociale polacca, cattolica e figlia di un medico (Stanisław Krzyżanowsky) che aveva perso la vita mentre curava malati di tifo ebrei (nel 1917), che altri si erano rifiutati di assistere. Irena, in piena occupazione tedesca, riuscirà a mettere in salvo più di 2500 bambini ebrei, portandoli fuori dal ghetto di Varsavia. A volte nascondendoli nella propria borsa. Scoperta dalla Gestapo, subì torture che la resero invalida per tutta la vita. Condannata a morte, fu salvata dall’organizzazione della resistenza polacca. Si è spenta nel 2008, all’età di 98 anni. In una lettera al Parlamento polacco, in occasione della sua candidatura al Nobel per la pace, scrisse: “Ogni bambino salvato con il mio aiuto è la giustificazione della mia esistenza su questa terra, e non un titolo di gloria” [4]. Irena e i tanti altri rifiutarono quella che Hannah Arendt chiamò la banalità del male. Di molti non resta neanche la memoria di un nome, di un gesto, o di un atto di disperato coraggio. Lungo questo percorso si rischia però di cadere in interpretazioni elegiache e dicotomiche che non riescono a restituire la concretezza del contesto, la chiave di lettura della dimensione valoriale di cui erano portatori, in quella frazione di storia, i professionisti sanitari. Di conseguenza è necessario cercare la quotidianità, la dimensione umana che sopravvive alla burocrazia della morte, l’eccezione che diventa regola. Ed in questo un aiuto interpretativo può giungere dalla stessa Berlino, quando nel 1945, nei giorni della resa, le truppe sovietiche dilagarono nella capitale ridotta ad un cumulo di macerie. Un reparto entrò all’interno di un ospedale, sito in Iranische Strasse, dove furono accolti da medici, infermieri e malati che avevano una particolarità: erano ebrei! Più di 800 ebrei sfuggiti alla deportazione, e sopravvissuti in una struttura che i più chiamavano l’Inferno; dove periodicamente il personale veniva dimezzato da strani “trasferimenti”, o il suo direttore, il dottor Lustig, ebreo anche lui, veniva chiamato a stilare elenchi di nominativi da deportare. Un ospedale, per la precisione il Krankenhaus der Judischen Gemeinde (Ospedale della Comunità ebraica Fig.2, fondato nel 1913) dove però ancora giungevano rifornimenti, bende, medicinali, disinfettanti, viveri [5] [6].

Ospedale ebraico

Fig. 2, Ospedale ebraico, anni 30, Iranische Strasse

In pratica l’eccezione folle dell’Ospedale ebraico, lungo il piano della ricostruzione storiografica può porsi fra i due estremi simbolicamente rappresentati da Irena da un lato e da Mina dall’altro, con al centro una vasta area grigia dove il nosocomio con le sue storie umane, tremende ed assurde, restituisce una complessità contestuale e professionale che non assolve o giustifica gli orrori e gli omicidi perpetrati dall’eutanasia di stato, ma riesce a porre in rilievo la dimensione etica e deontologica sia del singolo professionista sia dell’istituzione in quanto tale, in cui come uomini si è troppo piccoli per non diventare ingranaggi di una macchina di morte, e come professionisti si deve rimanere grandi per non farsi stritolare.

Fig. 3, Il parco di Tiergarten. L’omonima via, al n. 4 è sul lato destro, coperta dagli alberi (foto Cotichelli)

Il programma Aktion T4, fu concepito durante gli anni ’30, e il suo nome deriva dall’indirizzo dell’edificio in cui vide la luce: Tiergarten Strasse (Fig.3) al numero 4; nel quartiere esclusivo di Charlottenburg, zona occidentale di Berlino dove si possono ritrovare circa 1.400 stolpersteine (Fig.4), pietre per inciampare (presenti anche nel resto della città), di forma quadrangolare e fatte di metallo, in cui sono riportati i nomi di ebrei o di altre vittime del nazismo che abitavano, prima di scomparire, nei pressi di dove è posta la pietra. Per Richard Jenne, per le tante piccole vittime, ed anche per gli adulti disabili, non ci sono pietre di inciampo, ma forse l’importante letteratura che si sta producendo sull’argomento possono assolvere la stessa funzione. In merito, è giusto sottolineare che il titolo di questo articolo fa il verso al libro, e successivo film: “Nebbia in agosto. La vera storia di Ernest Lossa”, di Robert Domes, che parla di un quindicenne ucciso nell’Ospedale di Mina Wörle. Un libro come monito per ogni professionista della salute per il quale comportarsi come una Irena Sandler può essere un’aspirazione, ma trasformarsi in Mina Worle è un rischio da cui non può mai dirsi del tutto esente.

Fig. 4, Stolpersteine in Berlino (foto Cotichelli)

 

Riferimenti bibliografici

  1. Conroy, M. (2017). Nazi Eugenics: Precursors, Policy, Aftermath. Columbia University Press.
  2. Benedict, S., & Kuhla, J. (1999). Nurses’ participation in the euthanasia programs of Nazi Germany. Western Journal of Nursing Research, 21(2), 246-263.
  3. Mieszkowska, A. (2011). Irena Sendler: Mother of the Children of the Holocaust. Greenwood.
  4. Wright, P., & Webster, P. (2012). Workshop Report. The Journal of Practice Teaching and Learning, 8(3), 97-114.
  5. Elkin R. (1993). Das Jüdische Krankenhaus in Berlin zwischen 1938 und 1945. Hrsg. vom Förderverein “Freunde des Jüdischen Krankenhauses Berlin e.V.” Aus dem Hebräischen von Andrea Schatz Edition Hentrich, Berlin.
  6. Silver, D. B. (2004). Refuge in hell: how Berlin’s Jewish hospital outlasted the Nazis. Houghton Mifflin Harcourt.

 

 

 

 

 

 

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