Sociologia e Psicologia sociale

Violenza e Società 5. La rappresentazione della violenza nei mass media

Alberto Pellegrino
Sociologo

La violenza è spesso rappresentata nel cinema, nella televisione, nei fumetti, nei videogiochi e, anche se non induce ad avere comportamenti aggressivi, può avere nei lunghi periodi un effetto di sedimentazione (effetto sottosoglia) che può comportare un aumento dell’insensibilità nei confronti della violenza presente nella vita reale, accrescere la paura di rimanere vittime di atti di violenza, considerare il mondo un luogo pericoloso e dominato dal crimine, inducendo a provare una profonda diffidenza verso gli altri.

Nella società contemporanea il cinema, la televisione, la stampa e gli altri media presentano un tasso di contenuti violenti molto alto, per cui altissima è la nostra esposizione di fruitori. In ogni persona esistono dei meccanismi mentali di difesa che servono a inibire i nostri impulsi aggressivi nelle loro manifestazioni più dirette e più primitive. Alcune persone, a causa di particolari vicissitudini relazionali (traumi, lutti precoci, abbandoni, trascuratezze gravi, violenze, ecc.) presentano tuttavia delle difficoltà psichiche di varia entità e natura, tali da compromettere il funzionamento dei meccanismi di controllo dei comportamenti, per cui tali meccanismi potrebbero subire un indebolimento attraverso l’ossessiva ripetizione mediatica di notizie violente, facendo generare un desiderio di emulazione.

E’ innegabile che si assista nei media a uno stillicidio quasi quotidiano di notizie di natura violenta (casi di cronaca nera, omicidi-suicidi in famiglia, stragi di guerra ecc.), per cui non è tanto l’effetto emulativo a essere potenziato, quanto la diffusione capillare di paura e di un senso d’impotenza collettivo di fronte a determinate situazioni. Questa saturazione mediatica ha la responsabilità di diffondere una deleteria e distorta percezione di pericolosità della nostra vita sociale, proprio perché i media si occupano più dei carnefici che delle vittime secondo una rappresentazione della quotidianità dove s’imbastiscono processi mediatici in contrapposizione a quelli veri.

Una ricerca svolta negli USA nel 1998 (ma le cose non sono molto cambiate anche in Italia) ha rilevato che oltre il 60 per cento dei programmi TV contiene almeno una scena di violenza, mentre nei film e telefilm la percentuale sale addirittura al 90 per cento; inoltre i programmi a contenuto violento propongono almeno sei incidenti o eventi di violenza per ogni ora di trasmissione. Poiché la nostra vita reale non ci propone un tasso di violenza così alto, è facile rilevare che il mondo descritto dai media non risponde alle caratteristiche del mondo reale, ma ne altera la rappresentazione in negativo, per cui certi tipi di eventi, d’idee, di personaggi ci sono proposti in dosi molto più alte di quanto meriterebbero la loro effettiva presenza e importanza con particolari effetti negativi com’è stato messo in evidenza nel 2002 da una ricerca statunitense.

Il primo effetto è l’imitazione, per cui gli spettatori tendono a valorizzare e imitare gli atteggiamenti e comportamenti aggressivi, specie se ad agire violentemente sono gli eroi in cui essi s’identificano; questo contribuisce ad aumentare i livelli di aggressività nelle relazioni interpersonali e di gruppo. Il secondo è la paura cronica che fa crescere negli spettatori la paura di essere vittime di atti criminosi e li porta ad assumere atteggiamenti di diffidenza e comportamenti iperprotettivi che li rendono meno socievoli. Il terzo, infine, è la desensibilizzazione emozionale che deriva da una continua esposizione dei soggetti, i quali sono impressionati da certe informazioni, immagini, scene con il risultato di produrre due conseguenze negative: la tendenza a considerare come scontati e inevitabili determinati gli incidenti ed eventi criminosi; un’insensibilità di fronte al dolore e alla sofferenza altrui e quindi a non fare nulla per evitarli o per prestare aiuto alle vittime.

Un’argomentazione usata frequentemente per giustificare la violenza presente nei media è che essa fa parte della vita e della nostra società, per cui essa avrebbe un ruolo educativo, cioè preparerebbe le persone alla vita reale. Questa tesi non ha però un fondamento, perché la violenza riportata dai media è tutt’altro che educativa, in quanto è rappresentata in modi più elogiativi che critici, mostrando azioni violente compiute da personaggi “buoni” o da personaggi “cattivi” che restano impuniti.

Si sostiene anche che la rappresentazione della violenza a basso dosaggio possa avere valore catartico, ma la violenza è spesso legittimata e banalizzata, perché è mostrata come una realtà di tutti i giorni e come l’unico modo per sopravvivere. In questo caso il fenomeno non avviene, perché per catarsi si deve intendere la possibilità di esprimere e sfogare certe emozioni per poterne depotenziare la carica tossica o distruttiva e per trasformarle in un’opportunità di crescita e autoconsapevolezza. Una vera catarsi era quella che si proponeva di ottenere il teatro dell’antica Grecia, in particolare con la tragedia, che aveva un’importante funzione di stimolo, perché gli spettatori non si limitavano a guardare ma partecipavano attivamente al dramma e incitavano i personaggi ad agire in un certo modo, poiché lo spettacolo presentava situazioni ed emozioni in cui molti si riconoscevano, creando un’interazione tra gli attori e il pubblico, il quale reagiva alle sollecitazioni con grande partecipazione emotiva ed espressiva, liberandosi delle proprie tensioni interiori.

La rappresentazione del male

Nel saggio Quando il crimine è sublime. La fascinazione per la violenza nella società contemporanea (Mimesis, 2018), la sociologa Oriana Binik analizza le ragioni per cui siamo affascinati dal crimine e quindi attratti da quelle trasmissioni che mettono in scena la violenza, la morte, il non sense, mescolando realtà e fiction, creando eventi emotivi di natura estrema. Dice la Binik: ”La fascinazione per il crimine è molto presente nella società contemporanea perché i media sono molto presenti ed esercitano un ruolo centrale nel coniugare la realtà con l’immaginario, riflettendo e moltiplicando all’infinito quello che più ci turba, nel tentativo di tenerlo sotto controllo”.

Nel cinema, nelle serie tv, nei fumetti, nei videogiochi d’azione sono diversi i personaggi che rappresentano il Male e che spingono lo spettatore a simpatizzare per chi lo compie. Si tratta di eroi negativi che corrompono, imbrogliano, torturano e ammazzano per affermare il loro potere o per vendicare torti subiti e quindi farsi portatori di una rudimentale giustizia, senza che ci sia una punizione finale, mentre tutto accade nella completa assenza dello Stato, oppure con la presenza di uomini di legge incapaci o cinicamente corrotti. Esiste una notevole differenza tra i grandi eroi negativi del passato e gli attuali personaggi “neri”: Macbeth, Riccardo III, Jago di Shakespeare, Mefistofele di Marlowe o di Goethe, i personaggi di Dostoevskij, Mister Hyde di Stevenson, le antiche dark lady come Erodiade, Messalina, Lady Macbeth sono tutti mossi da precise motivazioni e sono destinati a pagare un prezzo molto alto per i loro delitti. I personaggi negativi di oggi godono, al contrario, di un’immunità che lascia in sospeso il giudizio morale dello spettatore e raramente induce a un’aperta condanna.

Alcuni esempi di eroi negativi

Dello sterminato panorama di film e serie televisive, dove è presente la violenza e dove agiscono personaggi che incarnano il male, è possibile portare in questa sede solo qualche esempio esemplificativo.

 

Nella serie televisiva American Psycho (2008-20013) il protagonista Patrick Bateman è un tipico yuppie che rappresenta la classe sociale dominante, un soggetto meticoloso e perfezionista che dedica molto tempo alla cura della propria persona per conquistare il successo in una società arrivista e capitalista, mostrando un’ aridità affettiva nei confronti delle donne e un assoluto disprezzo verso gli emarginati e i colleghi.. Per sfogare i suoi risentimenti e le sue frustrazioni, si trasforma di notte in un serial killer, uccidendo chiunque lo disturbi, conservando parti o interi corpi nel suo appartamento. Rintracciato dalla polizia, Bateman confessa i suoi crimini al suo avvocato difensore e, quando questi non gli crede, capisce che non avrà nessuna possibilità di redenzione e che proverà sempre il desiderio di fare del male ai propri simili.

Breaking Bad è un’altra serie televisiva (2008 – 2013) dove il protagonista è Walter White, un professore di chimica che vive con la moglie incinta e un figlio affetto da una grave malattia. Costretto a svolgere un secondo lavoro come dipendente di un autolavaggio per far fronte alle difficoltà economiche della famiglia, deve anche sopportare le angherie del suo titolare e dei suoi familiari, che lo considerano un uomo debole e remissivo. Quando gli viene diagnosticato un cancro, Walter decide di usare le sue conoscenze chimiche per produrre una droga di qualità superiore rispetto alle altre, con la quale riesce a prendere il controllo del mercato degli stupefacenti per vendicarsi della società con un totale capovolgimento della morale comune.

 

Il più inquietante personaggio di dark lady è Amy Dunne, la spietata protagonista del film Gone Girl (2014), presentato in Italia con il titolo L’amore bugiardo. Amy vorrebbe essere la più adorabile e desiderabile delle mogli ma, quando scopre che il marito Nick la trascura perché ha una giovane amante, si trasforma in una domma sanguinaria e senza pietà che mette a punto un piano per incastrare il marito, farlo apparire colpevole di omicidio e farlo condannare a morte. Fugge da casa dopo avere lasciato delle tracce per far credere di essere stata assassinata, facendo ricadere i sospetti sul marito che è arrestato nonostante proclami la sua innocenza. Quando viene derubata dei soldi che ha con sé, Amy ritrova un suo antico spasimante e gli fa credere di essere fuggita dal marito per paura di essere uccisa. L’uomo, ancora invaghito di lei, l’accoglie nella sua casa ma, per giustificare la sua scomparsa e poter ritornare dal marito, Amy inscena un rapimento da parte del suo ospite, crea i segni di abusi e ferite su se stessa, usa le telecamere di sorveglianza per far credere di essere tenuta prigioniera. Durante un rapporto sessuale, taglia la gola all’uomo, quindi ritorna a casa, per cui Nick è automaticamente rimesso in libertà. Amy dichiara di perdonarlo e di voler tornare a vivere con lui, quindi gli rivela tutta la verità. Il marito, resosi conto di avere accanto una pericolosa psicopatica, vorrebbe lasciare la donna ma Amy gli dice di essere rimasta incinta grazie al suo seme depositato nella clinica della fertilità. Nell’uomo prevale il senso di responsabilità verso il bambino, per cui la coppia resterà unita nonostante il male e le menzogne reciproche, facendo intuire che il loro futuro rapporto sarà di “vittima-carnefice”.

Sempre più popolari e frequenti sono i film, i fumetti e le serie televisive, dove abbondano vampiri, zombi, mummie e mostri di varia natura, quasi a voler soddisfare l’attrazione per un genere horror capace di garantire forti emozioni. Questi prodotti formano una specie di supermercato del terrore dominato dal mostruoso, dal luttuoso, dal demoniaco, di figure  simboliche capaci di coagulare le paure verso una modernità che sembra sfuggirci di mano, di catalizzare le ansie e le insicurezze causate dalla globalizzazione.

Abbondano i film che come protagonista un giustiziare votato a raddrizzare i torti altrui, ma che in realtà può essere percepito come un portatore di violenza. Un notevole successo ha avuto il film The Equalizer – Il Vendicatore (2014), nel quale è rappresentata una società violenta dove l’unica risposta valida è la violenza stessa. Robert McCall è un ex-agente della DIA che ha trascorre a Boston una vita tranquilla, lavorando in un grande magazzino di ferramenta. Alina è una giovanissima prostituta, che viene violentemente picchiata dalla mafia russa e Robert decide di ritornare in azione, uccidendo il protettore della ragazza e tutti i suoi uomini. Scopre che il potente capo della mafia cittadina è Vladimir Pushkin, così fa ritrovare alla polizia ingenti somme di denaro e fa saltare in aria le sue petroliere, distruggendo gran parte del suo potere. Quando un killer professionista, al servizio del boss, prende in ostaggio i dipendenti del magazzino dove Robert lavora per poterlo catturare, questi uccide il killer e tutti i suoi uomini, quindi va a Mosca e uccide Pushkin, dopo aver eliminato tutti i suoi uomini. Alina lo incontra per dirgli che ha trovato un lavoro onesto e che potrà costruirsi una nuova vita e Robert decide allora di presentarsi su Internet come una persona pronta ad aiutare coloro che si trovano in difficoltà.

John Wick è un film del 2014 che racconta la vicenda di un ex-sicario professionista che si è ritirato per vivere in solitudine dopo la morte della moglie, la quale gli ha lasciato una cagnolina come ultimo regalo. Alcuni giovani criminali entrano nella sua casa per rubargli una Ford Mustang Boss 429, lo picchiano brutalmente e uccidono la cagnolina. Vick scopre che l’autore dell’aggressione è stato il figlio di Viggo Tarasov, il capo di una banda d’immigrati russi per i quale Vick ha lavorato con il nome di “Baba Yaga”, l’Uomo Nero. II boss russo mette una taglia da due milioni di dollari sulla testa di John che inizia la sua vendetta. Si assiste allora ad alcune sequenze di estrema violenza che portano alla eliminazione dell’intera banda, alla morte di Yosef e di suo padre Viggo, mentre Vick trova un nuovo cagnolino da portare a casa come amico. Il film è un “action movie”, nel quale l’uccisione di un cane, simbolo-ricordo della moglie scomparsa, diventa il catalizzatore del furore incontrollabile del protagonista. L’opera ha un ritmo molto sostenuto con scene caratterizzate da violenza, sangue e numerose uccisioni. Il conteggio dei cadaveri è spropositato e John Vick appare indistruttibile, tanto che la sua vendetta assume connotati quasi divini. Dopo il successo del primo film, è uscito il sequel John Vick 2 (2016).

Nel film Il giustiziere della notte (2018) il protagonista Paul Kersey è un chirurgo che vive una vita tranquilla fino a quando la sua famiglia è brutalmente aggredita da una gang di criminali. Da quel momento esplode la sua rabbia e, dopo essersi procurata una pistola, inizia a farsi giustizia per le strade di Chicago. Pur conservando l’anonimato, le sue imprese circolano nella Rete, facendolo diventare una celebrità. Il personaggio non prova il minimo travaglio interiore né alcun rimorso e, dopo la sua trasformazione in un killer notturno, continuerà a compiere azioni sempre più letali.

In tutti questi personaggi maschili e femminili vi è una totale assenza di empatia, per cui lo spettatore, di fronte alla rappresentazione del Male, non dovrebbe chiudere gli occhi ma dovrebbe giudicare negativamente la mancanza di pietas e di rispetto della dignità umana in queste storie basate sulla crudeltà e sull’orrore. Gli artisti di maggiore levatura sanno mettere in scena, al contrario, determinate emozioni senza tralasciare le motivazioni e senza rinunciare che lo spettatore faccia un’analisi riflessiva. Di fronte a crisi economiche, attacchi terroristici, immigrazione, guerre caotiche e incontrollate, queste opere possono offrire, come in uno specchio, una visione distorta ma pur efficace della società, permettendo di dare sfogo alle proprie emozioni o frustrazioni. Questi autori riescono a penetrare nell’essenza del male, a smascherarlo e a metterlo a nudo, perché sanno pensare e aiutano gli altri a pensare, spingendo a valutare le proprie emozioni.

Illuminante, in questo senso, è il film Arancia meccanica (1971) di Stanley Kubrick, che profetizza la pericolosità sociale di una violenza gratuita e irrazionale anche se proiettata in una società futura. Si tratta di una fiaba filosofica che affronta con geniale lucidità un discorso sulla violenza e sul rapporto tra istinti e società, sui rischi che si corrono nel mostrare la violenza in tutta la sua crudeltà. A sua volta il regista Quentin Tarantino, dopo essersi liberato della violenza gratuita delle prime opere, nei suoi capolavori Pulp Fiction (1994), Kill Bill (2002), Bastardi senza gloria (2009), Django Unchained (2012), The Hataful Eight (2016) mette in scena una violenza ironica e stilizzata che assume una dimensione simbolica, per cui fantasie di vendetta e scene di atrocità diventano liberatorie o addirittura catartiche.

 

Rimane aperto il problema se la violenza presente nei mass media accresca e induca ad avere comportamenti violenti nella realtà vissuta. È appurato che alcuni soggetti, sottoposti a messaggi violenti, reagiscono con violenza a differenza di altri che subiscono meno frustrazioni, sono meno narcisisti, sono meno preoccupati del loro successo nel mondo, per cui le reazioni immediate a messaggi violenti rimangono. un fenomeno legato alle singole persone.

È semplicistico considerare i vari mass media violenti come un capro espiatorio in una società dove la violenza è sempre più presente, perché si sono allentati i freni morali di fronte al valore della vita umana, dove le frustrazioni sono aumentate e dove, per la ricerca di un successo immediato, ogni delusione si trasforma in violenza e si manifesta attraverso gli strumenti offerti dalle nuove tecnologie digitali.

Bisogna considerare che, accanto ai casi di violenza estrema, esista una violenza più nascosta all’interno della famiglia, una violenza generata dall’ingiustizia, dall’esclusione, dal favoreggiamento, dall’umiliazione del merito. A queste forme di violenza presenti nella società, si aggiunge una preoccupante e prolungata esposizioni a messaggi violenti che potrebbe provocare non tanto l’aumento dell’aggressività, quanto l’aumento dell’insensibilità nei confronti della violenza e delle sue vittime, un aumento della paura derivante dalla convinzione di vivere in un mondo divenuto un luogo pericoloso e dominato dal crimine. È opportuno ricordare – dice lo psichiatra Vittorino Andreoli – che “l’azione delle immagini (non solo della violenza) seguite sullo schermo si manifesta attraverso due modalità principali: l’azione diretta e l’effetto sottosoglia che permette di assorbire stimoli di cui non c’è conoscenza e memoria, ma che si accumulano nel tempo. L’azione per sommazione e per rinforzo di piccoli episodi – che producono però una massa violenta critica – è superiore a quella legata a un singolo episodio. Ed è probabilmente questo effetto, legato alle fonti più disparate, ad avere maggiore importanza”.

Nel prossimo articolo sarà affrontato il tema I giovani della generazione “digitale”  e i nuovi mezzi di comunicazione tra violenza ed esibizionismo

 

 

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