Violenza società 5

La violenza, i nuovi media e i “nativi digitali”

Alberto Pellegrino
Sociologo

I nuovi media digitali stanno assumendo sempre più importanza per la loro rapida diffusione soprattutto tra le giovani generazioni che stanno facendo nascere una nuova comunità mediatica che ha degli aspetti positivi, ma accade che i nativi digitali usino questi nuovi mezzi per usare nuove forme di violenza, per ricatti morali e sessuali, per rimanere a loro volta vittime di messaggi difficili da controllare.

I media digitali sono dei mezzi di comunicazione basati su tecnologie che hanno caratteristiche comuni (convergenti, ipertestuali, interattive e mobili), per cui si differenziano dai mezzi di comunicazione tradizionali. La diffusione di questi media ha consentito la nascita di un io postmoderno più flessibile, mutevole e vario; ha permesso di ampliare le sue capacità di conoscenza e di auto-invenzione, ma ha anche ampliato le possibilità di manipolazione attraverso delle informazioni che riguardano l’individuo e il mondo circostante.

Nella comunicazione digitale gli utenti vedono la possibilità di rivelare la propria personalità in modo maggiore rispetto alla vita reale. Questo consente un elevato livello d’intimità spesso più elevato rispetto a quello raggiunto nelle relazioni faccia a faccia, nelle quali l’imbarazzo è superiore alla voglia di farsi conoscere. Essere dietro un computer permette ai soggetti di presentarsi attenuando situazioni e contesti nei quali si trovano a vivere, riducendo in questo modo gli effetti di un eventuale giudizio negativo derivante dall’impatto fisico, dallo status sociale e socioeconomico. Con questo tipo di comunicazione si possono superare le barriere spaziali e intrattenere relazioni con persone anche molto distanti da noi, colmando i vuoti informativi determinati dal mezzo con un accresciuto interesse e maggiori aspettative nei confronti dell’altro soggetto, anche se queste attese potrebbero andare deluse o addirittura tradite da una conoscenza reale e fisica dell’altro.

I Social Network permettono di formare una comunità online tra persone con interessi, formazione e amicizie comuni che possono caricare i loro profili e interagire con gli altri utenti in numerosi modi (profili di presentazione, bacheche condivise, posta privata, foto e video). Gli utenti hanno la possibilità attraverso le reti sociali di riportare informazioni personali (nome, foto), notizie su gruppi cui si è aderito, l’elencazione dei vari contatti personali realizzati (lista degli amici). Questi comportamenti permettono e di stabilire delle relazioni sociali, di trovare degli utenti con interessi simili, d’individuare conoscenze prodotte o promosse da altri utenti, di condividere messaggi promossi e commentati da altri, che possono diffondersi in maniera “virale”, praticamente in tempo reale.

La principale motivazione, che spinge a utilizzare i social network, riguarda soprattutto la costruzione e l’aggiornamento del profilo per presentare se stessi agli altri. Questa identità così costruita dovrebbe corrispondere al “sé ideale” come ognuno vorrebbe fosse percepito dagli altri, soddisfacendo in questo modo i bisogni di appartenenza e di stima. Le ricerche hanno messo in evidenza che esistono anche altre motivazioni di carattere sociale: la ricerca e la gestione di contatti personali; uno specifico interesse che spinge a privilegiare un tipo di contatto rispetto a un altro; la conoscenza d’informazioni, idee e interessi delle persone conosciute off line o la ricerca di nuovi contatti online.

I giovani e la comunicazione

Si vive in un’epoca dominata da un bisogno di comunicazione che riguarda tutti ma in particolare gli adolescenti, i quali si trovano nella necessità di costruire nuovi piani relazionali e sono quindi impegnati in una rincorsa verso una comunicazione costante, finendo per cadere in una sovraesposizione sul piano comunicativo, facendo attraverso i media quelle esperienze che un tempo erano compiute nel gruppo dei pari. Si salta in questo modo la “dimensione del non comunicare”, quel bisogno di silenzio interiore che è un passaggio essenziale per formare e consolidare la propria Personalità e si sottovaluta che il non comunicare rappresenta una specie di “riposo” alternativo alle fasi di apertura verso la comunicazione.

Per vincere il senso di frustrazione e di abbandono, i nativi digitali si rifugiano nella Rete come in una specie di esilio sociale, nel quale finiscono per subire un processo di delocalizzazione: essi spostano i propri interessi e le proprie energie comunicative verso un “altrove”, un piano comunicativo collocato al di là dalla realtà materiale in cui vivono. A questa condizione è collegata l’esigenza di essere “sempre connessi”, cioè il bisogno di condividere ogni fatto, ogni esperienza, ogni emozione attraverso la comunicazione on line, per cui gli “altri” sono continuamente coinvolti a esprimere la loro opinione e a partecipare agli accadimenti che riguardano una persona.

I minori si rifugiano nella comunicazione digitale che velocizza le forme comunicative ma che fa prevalere la sintesi sull’analisi, la quale richiede modi di comunicare più riflessivi, mentre essere in connessione favorisce una sintesi che consente di cogliere il dato essenziale di un problema, ma può anche portare a una superficialità analitica e critica. Una dipendenza latente dalla Rete può anche generare uno stato permanente di ansia fino a creare una dipendenza informatica causata da una “iperconnessione”. Questa esigenza di essere “sempre connessi” fa nascere il bisogno di condividere ogni fatto, ogni esperienza, ogni emozione attraverso la comunicazione on line, per cui gli “altri” sono continuamente chiamati a partecipare agli avvenimenti personali del comunicatore.

Il sociologo Howard Rheingold è ottimista nei confronti dei nativi digitali, perché ritiene che i social media stiano migliorando la loro esistenza: “Le possibilità di cui possiamo usufruire oggi non hanno precedenti. Miliardi di persone hanno in tasca case editrici, mercati, emittenti tv. Chi sa usare i social media può imparare di più, influenzare le decisioni politiche, fare soldi, aiutare gli altri in caso di catastrofi naturali…L’attenzione è fondamentale e i professori devono affrontare aule piene di studenti persi tra pc e tablet. Ma ho imparato che possiamo allenare la nostra attenzione”.

Lo psicanalista Manfred Spitzer esprime invece una valutazione quasi catastrofica: “L’amicizia virtuale è fatta solo di solitudine…Le piccole connessioni tra i neuroni del nostro cervello vengono indebolite, se esternalizziamo qualsiasi tipo di attività mentale…Se ci limitiamo a chattare, twittare, postare e navigare finiremo per parcheggiare il nostro cervello, ormai incapace di riflettere e concentrarsi…Presto ci ritroveremo con una società di analfabeti sociali, zombi incapaci di provare empatia per nessuno, nemmeno per se stessi. Dove s’imparano sui social network l’autoregolamentazione, il controllo delle situazioni, la gestione del contatto umano?”.

Secondo il filosofo Umberto Galimberti si possono verificare forme di “desocializzazione”, perché con internet si possono avere amici in ogni angolo del mondo, ma si sottrae tempo ai rapporti faccia a faccia, alla vita comunitaria: “La dipendenza da Internet soddisfa sul piano virtuale il bisogno di controllo che non si riesce a realizzare sul piano della realtà; alimenta il piano ossessivo-compulsivo, soddisfacendo il vissuto infantile di onnipotenza e di libertà illimitata che compensano le frustrazioni che s’incontrano nel mondo reale. Chattando si ha la possibilità di realizzare virtualmente ciò che si vorrebbe essere e non si riesce a essere. Di qui il nostro bisogno di stare ore e ore davanti al computer che, a nostro piacimento, realizza il sogno della nostra identità agognata…Il computer diventa l’oggetto erotico per eccellenza, dove si esaltano le perversioni e le allucinazioni del desideri, a scapito dei rapporti reali che, al confronto, appaiono insignificanti”.

La violenza presente nei nuovi media

Assistiamo a forme di violenza e di microcriminalità giovanile che affondano le proprie radici in un fallimento educativo, il quale non rappresenta solo l’incapacità di fornire ai giovani le adeguate competenze cognitive, ma anche l’incapacità di renderli soggetti dotati di valori umani e civici. Quando determinati soggetti sociali si sentono privi di valori fondanti nei contesti dove vivono, quando si sentono ignorati e non hanno la possibilità d’intravedere un futuro in cui dimostrare il proprio valore e le proprie capacità, l’esercizio della violenza diventa un modo per dimostrare la propria superiorità rispetto ai coetanei e agli adulti. Naturalmente non tutti i soggetti reagiscono in questo modo, ma finiscono per accettare a malincuore una vita fatta di marginalità e di esclusione; si sentono “colpevoli” di non essere all’altezza delle sfide lanciate dalla società del rischio.

Esistono precise responsabilità politiche e sociali di fronte alla povertà, ai problemi delle famiglie, alla debolezza degli interventi preventivi, all’abbandono scolastico e formativo, perché gli interventi riparatori sono deboli e manca un coordinamento nazionale, regionale locale. Non si ritiene possibile che le pulsioni violente possano essere controllate attraverso un processo di socializzazione che responsabilizzi gli individui, sviluppi l’empatia all’interno del gruppo sociale, educhi a controllare qualunque comportamento violento.

Ormai la presenza di minori e di giovani adulti nella Rete è dilagante in tutto il mondo e spesso diversi soggetti sono portati a trasferire le loro reazioni violente e aggressive generate da insicurezza, frustrazione, rabbia repressa, impotenza e disperazione proprio nella Rete, che diventa il contenitore di una violenza psicologica che a volte può essere addirittura più devastante della violenza fisica.

Nei nuovi media si finisce per trovare di tutto, a dimostrazione che siamo di fronte a un fenomeno tipico di una società narcisista dove conta molto l’aspetto esteriore: si allarga il mercato del sesso a pagamento con minorenni in vendita sul web; sono sempre più numerosi i self a “luci rosse” fra gli adolescenti che postano foto hard nelle quali si mostrano rapporti sessuali espliciti con una maggiore esposizione dei corpi nudi delle ragazze; compaiono nei video-porno immagini di bambine e bambini; aumentano sui social network i reati di estorsione con ricatti e richieste di denaro sotto la minaccia di pubblicare immagini di minori e di adulti mentre compiono atti sessuali; si riprendono gare che comportano una sfida alla morte; si arriva a filmare in diretta l’agonia di un ragazzo, trasformando in spettacolo o in merce da vendere il dolore altrui; cresce il numero dei minori che fanno scommesse on line, correndo un grave rischio di dipendenza.

Un fenomeno particolarmente preoccupante è il ciberbullismo con forme di persecuzione in rete che possono essere praticate 24 ore su 24. Secondo le statistiche a essere colpite da questa violenza virtuale sono soprattutto le femmine comprese tra gli 11 e i 14 anni (53%). In questi casi le vittime non hanno la possibilità di difendersi da questi messaggi girati e rilanciati da un mezzo di comunicazione all’altro; le molestie, le offese, le prevaricazioni vengono sempre più amplificate con le vittime che finiscono per diventare una “icona”, un’immagine astratta e irrilevante, completamente disumanizzata, tanto che in qualche caso si arriva a spingere al suicidio la persona perseguitata.

È vero che la rete può essere considerata un’opportunità di conoscenza, di partecipazione, di scambio, d’inclusione, di libertà, ma può anche essere un veicolo di fango (si pensi al cumulo di fake news che sono quotidianamente messe in circolo), un fenomeno che non può più essere sottovalutato, perché con questa diffusione di oscenità, insulti, falsità e like oltraggiosi si calpestano i diritti di tante persone e gruppi sociali. Il problema non può essere risolto solo con l’intervento della polizia e della magistratura perché, con l’idea di non escludere nessuno da queste forme di comunicazione, si è finito per dare spazio alle presenze più torbide pur di far crescere il numero dei followers, delle inserzioni pubblicitarie e quindi degli utili.

L’importanza di un’educazione alla fruizione dei media

C’è bisogno di un lavoro culturale per eliminare o ridurre la diffusa incapacità di analizzare criticamente i messaggi, di distinguere le informazioni serie dalle “bufale”.

È necessario ritornare a “saper leggere” le conoscenze e le informazioni, ma nessuno dopo i trent’anni è diventato un assiduo lettore di libri, riviste e quotidiani, per cui si deve agire nell’età e nel luogo dove si forma lo spirito critico: la scuola superiore. Il digitale può attrarre i giovani studenti che per mezzo di uno smartphone o di un tablet possono mettere a confronto articoli di giornale, saggi critici, telegiornali e siti.

Dalla scuola e da altre agenzie sociali (governo, editori, giornalisti, associazioni) dovrebbe essere elaborato un modello di formazione del cittadino che sia capace di comprendere e gestire al meglio i nuovi media. Si sta infatti prospettando la possibilità che possa entrare in crisi la nostra intelligenza sequenziale più evoluta, quella che richiede una successione rigorosa e razionale di pensieri per comprendere e analizzare i vari codici, decodificare i segni, elaborare concetti astratti. A questo tipo d’intelligenza si va sostituendo un’intelligenza simultanea capace di trattare nello stesso tempo più informazioni, senza però essere in grado di stabilire una successione, una gerarchia e quindi un ordine. “Guardare” è più facile che “leggere”, per cui l’homo sapiens potrebbe essere soppiantato dall’homo videns, grande fruitore d’immagini ma povero di pensiero critico ed è noto come una moltitudine incapace di gestire in modo critico i media diventi un bene “prezioso” per chi vuole manipolare le folle. Si sta perdendo di vista l’importanza della lettura e del pensiero critico, perché si ritiene di conoscere le cose per averle viste o sentite, mentre solo attraverso la lettura riusciamo a sviluppare le nostre idee, a comprendere a fondo i nostri sentimenti, a governare i nostri istinti, altrimenti s’impoverisce la nostra capacità di scegliere e di decidere quando la vita ci pone davanti dei problemi da risolvere.

Una recente ricerca dell’Ocse ha stilato una classifica nella quale noi italiani siamo all’ultimo posto per la comprensione di un testo scritto. Si tratta di un problema molto grave, perché la lettura diventa l’elemento formativo fondamentale per i più giovani. Se tanti di loro sono più maturi e responsabili di altri, questo accade perché “i libri hanno offerto alla loro mente e al loro cuore tanti percorsi che, senza i libri, non avrebbero conosciuto, e così hanno evitato l’afasia del linguaggio, l’atrofia dei sentimenti, la povertà dell’ideazione e della fantasia che contiene quasi sempre un progetto di vita” (Umberto Galimberti).

Da parte sua, lo psicanalista Massimo Recalcati rivendica l’importanza fondamentale della scuola e del libro, il cui valore può essere paragonato a un’avventura capace d’interrompere il nostro rapporto conformistico con il mondo; può rappresentare l’incontro con un “Maestro” di vita: “I libri che s’incontrano a Scuola spalancano la vita al di là della Scuola…La Scuola non è solo il luogo dove si leggono e si studiano dei libri, ma dove il libro assume il valore di un incontro, di un oggetto che sa causare desiderio. È buona Scuola solo quando è anti-scolastica. Il sapere che diventa scolastico è infatti sapere morto, privo di desiderio, chiuso all’incontro…La Scuola dovrebbe essere un antidoto laico nei confronti di ogni scolastica, il che significa non fare mai del libro la foglia morta di un erbario impolverato, ma insistere sulla somiglianza profonda che lega il libro al mondo”.

 

 

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