Quarta parte – Cronicità, Integrazione e Sostenibilità
Francesco Di Stanislao e Claudio Maria Maffei
Dipartimento di Scienze Biomediche e Sanità Pubblica
Questa è la quarta ed ultima parte di un racconto sulla storia ormai quarantennale del Servizio Sanitario Nazionale, storia che si intreccia con le vicende professionali ed umane degli autori. In questa ultima parte arriviamo ai giorni nostri e si parla di sostenibilità, cronicità, reti cliniche e percorsi assistenziali. Parole sempre più al centro delle attività di formazione e ricerca tipiche dell’Università.
Breve riassunto delle tre parti precedenti
Gli Autori (FDS e CMM) con un comune passato di lavoro e ricerca presso l’Istituto di Igiene dell’allora Università degli Studi di Ancona hanno nella prima parte del loro racconto descritto la nascita nel 1978 del Servizio Sanitario Nazionale (SSN) e i principi cui lo stesso si ispirava: globalità, equità e solidarismo. Nella seconda parte il racconto ha riguardato prevalentemente la nascita delle Aziende Sanitarie a metà circa degli anni ’90 come risposta ad una esigenza di managerialità del SSN. Questa fase è stata anche l’occasione per trattare due movimenti la cui vitalità si è mantenuta nel tempo, pur se tra tante difficoltà: la rivoluzione pedagogica nella formazione del personale sanitario e il miglioramento della qualità dell’assistenza. La terza parte ha ricostruito “a modo nostro” la fase che arriva all’inizio della seconda decade del nuovo millennio e ha trattato tre questioni particolarmente significative che ci hanno coinvolto particolarmente: la regionalizzazione della sanità, la definizione dei Livelli Essenziali di Assistenza e lo sviluppo di forme di governo clinico.
Il racconto delle vicende del SSN lo abbiamo intrecciato con le vicende umane e professionali dei due autori che in questa ultima fase del racconto (che riguarda gli ultimi anni dal 2000 in poi) si trovano di nuovo tutti e due nelle Marche con uno (FDS) che continua a fare il professore ordinario di Igiene (questa volta presso l’Università Politecnica delle Marche) e con alcune intense “immersioni” nei sistemi sanitari regionali (Direzione delle Agenzie Sanitarie Regionali di Marche e Abruzzo per 12 anni) e con l’altro (CDM) che continua a fare nelle Marche il Direttore Sanitario di un IRCCS (l’INRCA). Tanto altro – bello e meno bello, come succede nella vita – è successo ai nostri eroi nel frattempo, ma questa non è una autobiografia e quindi ce e ve lo risparmiamo.
Inquadramento generale della “puntata”
Nella conclusione della terza parte ci eravamo impegnati a trattare nella parte successiva (e conclusiva) i seguenti argomenti: le reti cliniche, le evidenze delle innovazioni organizzative, la gestione della cronicità, le prospettive future del SSN e, dentro di queste, il ruolo della ricerca e della formazione. Ci eravamo presi un bell’impegno e vediamo allora di rispettarlo. Come sempre, “a modo nostro”.
Integrazione
Il concetto di Integrazione rappresenta uno degli obiettivi fondamentali delle innovazioni organizzative portate avanti in questi ultimi decenni da tutte le aziende produttrici di beni e servizi.
versante dei servizi per la salute l’obiettivo è quello di orientarsi verso la logica dell’ Integrated care [1], per ridurre la frammentazione dell’erogazione dell’assistenza e favorire la continuità dell’assistenza creando connettività, allineamento e collaborazione entro e tra le diverse istituzioni sanitarie e socio-sanitarie al fine di migliorare la qualità dell’assistenza e della vita dei pazienti, l’efficienza del sistema, e la soddisfazione dei pazienti con problemi complessi che utilizzano/attraversano servizi, provider, e setting operativi differenti.
L’European Social Network Conference [2] indica che l’assistenza integrata cerca di colmare la tradizionale divisione tra assistenza sanitaria e sociale, in modo tale che si possa:
- affrontare il cambiamento della domanda di assistenza derivanti dall’invecchiamento della popolazione;
- offrire un’assistenza che è centrata sulla persona, riconoscendo che gli esiti dell’assistenza sanitaria e sociale sono interdipendenti;
- facilitare l’integrazione sociale dei gruppi più vulnerabili della società attraverso un migliore accesso ai servizi della comunità flessibili;
- portare ad una migliore efficienza del sistema attraverso un migliore coordinamento dell’assistenza.
L’integrazione è a nostro avviso uno degli obiettivi prioritari del SSN che trova nelle reti cliniche e nei percorsi assistenziali logiche e strumenti ormai ineludibili nel governo e gestione di un sistema complesso quale quello della sanità. Reti e percorsi sono la traduzione organizzativa ed operativa del concetto di sistema e rappresentano le modalità per passare da un sistema di progetti intra/inter-aziendali spesso virtuosi, ma sovente non coordinati tra loro, a un progetto di sistema in cui le parti in causa agiscono, dialogano, si confrontano intorno ai bisogni del paziente. E su questi due temi spendiamo alcune righe per descriverne i quadri concettuali di riferimento.
Reti cliniche
Le reti cliniche sono realtà organizzative abbastanza recenti: hanno mosso i loro primi passi solo 20 anni fa nel Regno Unito, e con grande lentezza si sono diffuse negli altri sistemi sanitari come possibili soluzioni al problema della frammentazione dei servizi sanitari in tanti silos ultraspecialistici che caratterizza la medicina moderna.
Attualmente non esiste una definizione univoca ed universalmente accettata di Rete Clinica, ma il mondo scientifico sta cominciando a proporre alcune descrizioni di ciò che è una rete.
La prima di queste descrizioni è quella proposta dall’NHS inglese, secondo cui le reti cliniche sono “sistemi organizzativi complessi che consentono ai professionisti di più discipline di lavorare in modo coordinato nel contesto di più setting assistenziali, superando le consuete restrizioni dovute ai confini professionali ed organizzativi esistenti”[3]. Si pone in questo caso l’accento su due concetti fondamentali:
- le reti sono sistemi complessi, cioè sistemi costituiti da tante componenti attive, difficilmente caratterizzabili, tra loro interconnesse in vario modo, ed i cui effetti non sono lineari ma spesso sinergici. Lo studio dei sistemi complessi al fine di individuarne le componenti chiave per far sì che l’intervento sia riproducibile con gli stessi risultati pone particolari problemi metodologici;
- la multidisciplinarietà che caratterizza la rete, il fatto cioè che la rete sia un sistema che facilita gli scambi tra professionisti di diverse discipline e di diversi setting assistenziali, in modo che questi possano fare lavoro di squadra ed erogare al paziente le migliori cure lungo tutto il suo percorso di salute e malattia, senza soluzioni di continuità.
Questa caratteristica delle reti di creare continuità nel percorso di cura del paziente tramite l’integrazione dei professionisti appartenenti a tutti i servizi sanitari, cioè attraverso un vero e proprio lavoro di squadra capace di abbattere i muri esistenti tra i vari setting assistenziali, è ripresa anche da Brown[4], che definisce le reti cliniche come “un gruppo di professionisti che forniscono servizi di prevenzione, diagnosi, cura e di assistenza attraverso sottili confini di collaborazione e integrazione nell’ambito del sistema sanitario in cui svolgono il loro operato”
Un ulteriore tassello sulle reti cliniche viene aggiunto da Cunningham[5], che specifica come le reti debbano essere specifiche per gruppi di patologia (ad esempio tumori, ictus, disturbi respiratori, ecc.), e debbano quindi essere delle organizzazioni in cui la centralità del paziente sia davvero il perno di tutto il sistema: infatti, il servizio non dovrebbe più essere erogato sulla base della branca specialistica, ma sulla base della patologia, che spesso richiede l’intervento di professionisti di tante discipline diverse per la sua gestione.
Da tutte queste descrizioni si può quindi dire che le reti cliniche sono sistemi organizzativi complessi, focalizzati su specifici gruppi di patologia, capaci di permettere, a professionisti appartenenti a diversi setting assistenziali, di lavorare insieme lungo tutto il percorso di salute e malattia del paziente (dalla prevenzione, alla diagnosi, al trattamento, all’assistenza di fine vita), garantendo ai pazienti un passaggio fluido tra i vari setting di cura ed evitando il rischio, soprattutto per i più fragili, di perdersi lungo il percorso, generando disuguaglianze nell’erogazione delle cure.
Percorsi assistenziali
I percorsi assistenziali [Care Pathway; PDTA (Percorsi Diagnostici-Terapeutici-Assistenziali)] sono definiti dall’ E-P-A org (European Pathway Association org)[6] come interventi complessi per prendere decisioni ed organizzare in modo condiviso l’assistenza di un ben definito gruppo di pazienti in un intervallo di tempo precisato[7]
Le caratteristiche che definiscono i percorsi assistenziali sono:
- La chiara esplicitazione degli obiettivi e degli elementi chiave dell’assistenza, basati su evidenze scientifiche, best practice, caratteristiche ed aspettative dei pazienti;
- La facilitazione delle comunicazioni tra i membri del team multidisciplinare e multi-professionale, i pazienti e le loro famiglie;
- L’organizzazione del processo assistenziale tramite il coordinamento dei ruoli, e l’attuazione sequenziale delle attività dei team multidisciplinari di assistenza, dei pazienti e delle loro famiglie;
- La documentazione, il monitoraggio e la valutazione degli esiti clinici e degli eventuali scostamenti dagli standard di appropriatezza fissati;
- L’identificazione delle risorse appropriate alla loro implementazione.
L’obiettivo di un percorso assistenziale è quello di:
- migliorare la qualità delle cure attraverso un continuum assistenziale, finalizzato al miglioramento degli esiti aggiustati sul rischio specifico dei pazienti;
- promuovere la sicurezza dei pazienti;
- aumentare la soddisfazione dei pazienti;
- ottimizzare l’utilizzo delle risorse.
Sono tre i livelli concettuali di aggregazione e sviluppo dei percorsi assistenziali, che si caratterizzano per la progressiva specificazione e adattamento alle condizioni di ogni singolo paziente (Vanhaecht, 2010)[8]:
- Model Pathway: il Percorso Modello è il livello più aggregato e generale di PDTA. È basato sulle evidenze scientifiche internazionali che vengono selezionate da team di esperti ed organizzate in forma di percorso assistenziale non specifico per le organizzazioni locali. È un percorso ideale, disponibile ad essere adattato a livello locale.
- Operational Pathway: il Percorso Operativo viene sviluppato da un’organizzazione tenendo presenti sia le evidenze riportate nel Percorso Modello, sia le peculiarità organizzative locali (risorse, competenze disponibili, ecc.). È ancora un PDTA ideale (è costruito per un gruppo di pazienti ideali), ma è specifico per l’organizzazione che si occupa della sua implementazione;
- Assigned Pathway: il Percorso Assegnato è la contestualizzazione ai bisogni specifici di ogni singolo paziente del Percorso Operativo dell’organizzazione in cui al paziente si viene a trovare. È un percorso organizzazione specifico e personalizzato ed, in parte, è ancora un PDTA ideale in quanto di guida prospettica al percorso reale del paziente che deve essere ancora effettuato. Nella sua versione COMPLETED PATHWAY (Percorso Completato) descriverà l’effettiva esperienza del paziente.
Rispetto all’implementazione dei percorsi assistenziali nell’ambito di una rete clinica non bisogna sottostimare l’efficacia dei percorsi assistenziali come strumenti di supporto al team-working multidisciplinare e al conseguente impatto positivo sugli outcome dei pazienti.
Reti cliniche, percorsi e strutturazione organizzativa
Facendo riferimento alla teoria dei sistemi di Nelson[9] e Batalden[10] potremmo riconoscere l’esistenza di tre diversi livelli di strutturazione organizzativa in campo sanitario: macrosistema, mesosistema e microsistema.
Un MICROSISTEMA CLINICO è un piccolo GRUPPO INDIPENDENTE DI OPERATORI che lavora insieme su basi regolari per fornire assistenza a specifici gruppi di pazienti, ad esempio in un reparto od in un ambulatorio, piuttosto che nell’assistenza domiciliare integrata, ecc. Il microsistema è, quindi, il luogo fisico dove viene effettivamente erogata l’assistenza al paziente da parte di un team multidisciplinare, comprendente spesso anche personale di altri settori (ad esempio del sociale), anche non strettamente assistenziale (ad esempio gli amministrativi di un distretto). È evidente come, nell’ambito delle diverse organizzazioni dello stesso sistema sanitario, sia la composizione (numero e tipologia di operatori) che la dotazione (strutturale e tecnologica) e anche l’organizzazione (dal modello fino alle procedure adottate) dei microsistemi deputati alla stessa funzione sia sostanzialmente quasi sempre diversa, con evidenti ricadute sui livelli di performance che tenderanno invariabilmente ad essere differenti con sistemi più o meno performanti a fronte dello stesso bisogno del paziente, da cui la variabilità clinica e assistenziale descritta in introduzione.
Le RETI CLINICHE, intese come un sistema integrato di setting ospedalieri e territoriali volti a dare una risposta ad una data patologia, sono invece, in quest’ottica, da considerarsi un MACROSISTEMA CLINICO, ossia un’impalcatura che dovrebbe permettere di far muovere il paziente attraverso le varie prestazioni sanitarie erogate nei diversi micro-sistemi clinici (che costituiscono, quindi i nodi della rete), garantendo equità, appropriatezza ed efficacia senza lasciare soluzioni di continuità.
Appare evidente, in assenza di interconnessioni tra i due livelli, la distanza tra la rete (intesa come strutturazione organizzata di risorse, tecnologie e regole di comunicazione tra professionisti) e i diversi microsistemi (attività cliniche e assistenziali) che la compongono.
Queste interconnessioni vengono fornite dai PERCORSI ASSISTENZIALI (PDTA) che, guidando il contenuto tecnico ed organizzativo delle prestazioni, forniscono ai microsistemi quegli elementi di guida all’appropriatezza del loro contenuto e alla rete lo strumento operativo in grado di coordinare tra di loro i singoli microsistemi. Questa azione dei percorsi assistenziali, viene definita di MESOSISTEMA CLINICO, che in una rete costituisce l’impalcatura operativa dei percorsi che consentono di far muovere il connubio team assistenziali-pazienti all’interno di quella struttura che è il macrosistema. I percorsi assistenziali nella rete vengono, quindi, a configurarsi come un vero e proprio sistema connettivo in grado di veicolare l’Evidence Based Medicine (EBM), insieme alla migliore organizzazione, all’interno della pratica clinica.
Cronicità e un nuovo rapporto ospedale/territorio
Nell’ultima decade è cresciuta sempre più l’attenzione che il peso della cronicità esercita sulla salute pubblica e, di conseguenza, è aumentata la riflessione su quali siano gli equivalenti culturali ed organizzativi di questo fenomeno. Per avere una idea indiretta di quanto influisca la cronicità sullo stato di salute della popolazione si può fare riferimento a questi due dati: l’attesa di vita alla nascita e l’attesa di vita in buona salute alla nascita. Dall’ultimo rapporto BES (Benessere Equo e Sostenibile) in Italia[11] abbiamo che l’attesa di vita alla nascita è di 82,8 anni, mentre scende a 58,8 l’attesa di vita in buona salute. Che vuol dire? La risposta è semplice: la medicina per acuti (per semplificare, quella tipica degli ospedali) ha garantito una più lunga sopravvivenza, ma il carico di malattie croniche in modo corrispondente cresce e la qualità della vita ne risente.
Quali siano le malattie croniche che esercitano (singolarmente ed in combinazione, perché spesso sono compresenti) un maggior effetto è presto detto. Sono sempre le stesse: le malattie cardiovascolari, come lo scompenso cardiaco, le broncopneumopatie croniche, il diabete e -fenomeno ormai da tempo emergente- le demenze. Ma questo elenco è molto più lungo.
Il crescente peso della cronicità si traduce in una serie di conseguenze importanti sul piano della sanità pubblica e della organizzazione sanitaria, la prima delle quali è rimettere al centro la assistenza sanitaria di base, quella dei distretti e del territorio. Il che si traduce (o si dovrebbe tradurre) in un forte potenziamento della assistenza domiciliare e residenziale e nello sviluppo di nuove forme di ambulatorialità, una ambulatorialità proattiva che anticipa la comparsa dei segni della evoluzione della(e) malattia(e) e prende in carico il paziente in modo che lo stesso partecipi al processo assistenziale e se ne faccia protagonista con l’aiuto della famiglia.
Il modello più in voga nell’approccio alla cronicità è quello di chronic care model (un modello di cui esistono diverse varianti) non per niente fatto suo dal Piano Nazionale Cronicità del Ministero della Salute[12] che nel 2016 è stato oggetto di un accordo Stato-Regioni. Rimandiamo a questo Piano per l’approfondimento di quale siano i fondamenti teorici e gli elementi caratterizzanti del chronic care model. Noi qui ne vogliamo sottolineare tre:
- la personalizzazione del percorso di cura che richiede di adattare il processo assistenziale alle caratteristiche di ciascun singolo paziente, non solo cliniche, ma anche e soprattutto sociali e culturali;
- un diverso gioco dei ruoli tra le diverse professioni che porta, ad esempio, a valorizzare il ruolo degli educatori e alla creazione, o meglio all’utilizzo, dell’infermiere di famiglia, una figura cui è dedicato (tanto per farsi una idea) un documento di un gruppo di lavoro ministeriale di alcuni anni fa[13];
- il coinvolgimento attiva della comunità il cui ruolo “esplode” ad esempio nel caso delle demenze, cui è dedicato un altro piano ministeriale, anche in questo caso oggetto di un Accordo Stato-Regioni, il Piano Nazionale Demenze[14]. Non per niente un progetto di recente realizzato nelle Marche (Falconara Marittima) parla a proposito delle demenze di comunità che si cura[15]
Per far crescere la risposta territoriale occorre rivedere la rete ospedaliera per razionalizzarla e concentrarla. In questa nostra storia del SSN cerchiamo di trasmettere questo messaggio: fermo nei suoi principi (primi fra tutti l’universalità e l’equità) il SSN per sopravvivere (sul problema della sua sopravvivenza legato alla sua sostenibilità torneremo tra poco) deve continuamente cambiare nei modelli organizzativi e gestionali. E’ proprio di questo che noi vorremmo qui dare ragione. E se le esigenze di una maggiore efficienza hanno portato alla creazione delle Aziende le esigenze di una rete ospedaliera più razionale e (quindi) meno “costosa” hanno portato ad alcuni atti di indirizzo nazionali che stanno condizionando molto le Regioni e di conseguenza le Aziende ed i professionisti, primo fra tutti il cosiddetto Decreto Balduzzi, il Decreto Ministeriale 70/2015[16].Questo, pur non avendo forza di Legge, costituisce di fatto un riferimento fondamentale nello sviluppo dei sistemi sanitari regionali.
In base a questo decreto la rete ospedaliera va profondamente rivista prevedendo di fatto:
- la definitiva chiusura dei piccoli ospedali e loro trasformazione in ospedali di comunità/case della salute;
- la classificazione degli ospedali in tre livelli (di base, di primo livello e di secondo livello);
- bacini di utenza definiti per le varie discipline, in modo da concentrare tanto più una disciplina quanto più la stessa ha bisogno di volumi elevati di attività per garantire buoni risultati;
- la revisione di tutto il sistema dell’emergenza-urgenza a partire dalle reti tempo-dipendenti (malattie cardiache acute, ictus e trauma maggiore).
A cosa si vuole arrivare oggi nel SSN e nei vari sistemi regionali? Ad avere una robusta e attiva risposta alla cronicità a livello territoriale e una rete ospedaliera per acuti concentrata e fortemente intrecciata con il Sistema dell’Emergenza Territoriale 118. Quanto alla prevenzione, essa mantiene intatto il suo ruolo, ma cambia anch’essa nei suoi modelli organizzativi dovendo coinvolgere molto le comunità come previsto dal Piano Nazionale della Prevenzione[17].
In un sistema così territorio ed ospedale non sono (o meglio: non debbono essere) due mondi, ma fare parte di un modello unico ed integrato di risposta ai bisogni dei cittadini.
Sostenibilità
Il termine sostenibilità è diventato negli ultimi anni di gran voga, come si diceva una volta. Esso ha a che vedere con la possibilità di continuare a dare tutto a tutti in tema di tutela della salute. Così come vorrebbe lo spirito della Legge 833/1978, quella che ha dato inizio al nostro racconto. I temi che si intrecciano dietro o meglio con il termine di sostenibilità sono tanti. Uno è certamente quello del livello di finanziamento del sistema. Notoriamente l’Italia dedica alla sanità una parte del proprio Prodotto Interno Lordo (PIL) una percentuale decisamente inferiore a quella di molti altri paesi europei. Per questo dato così come per l’andamento storico della spesa pubblica e privata in Italia rimandiamo al III Rapporto GIMBE sulla sostenibilità del SSN[18] Certo questo dell’entità del finanziamento pubblico del SSN è un dato tutto politico, influenzato certamente dallo stato dell’economia italiana e dall’entità del debito pubblico. Altrettanto certamente la sanità negli ultimi anni è stata interessata da fenomeni del tipo spending review che hanno portato a tagli o a mancati incrementi piuttosto consistenti. Ma vorremmo parlare di sostenibilità con un punto di vista diverso: quello del professionista sanitario che ragiona sul modo migliore di usare le risorse finite di cui il SSN dispone. E qui rientra il tema dell’appropriatezza, ovvero al modo migliore di scegliere anche in funzione del controllo dei costi la cosa giusta per le indicazioni cliniche di quello specifico caso. Questo approccio è quello alla base del movimento Slow Medicine (per una medicina sobria, rispettosa e giusta)[19] movimento nato negli Stati Uniti: quello di Choosing wisely[20] Questo movimento produce ed aggiorna, a cura delle Società scientifiche aderenti, elenchi di procedure/interventi ad alto rischio di inappropriatezza: a marzo 2018, più di 40 società professionali di medici, infermieri, farmacisti e fisioterapisti hanno definito 44 liste di pratiche a rischio di inappropriatezza in Italia: in totale 220 raccomandazioni su esami, trattamenti e procedure. E’ una idea semplice, ma potenzialmente efficace di introdurre buone pratiche (o meglio di calmierare pratiche potenzialmente cattive) attraverso il coinvolgimento dei professionisti e l’utilizzo di strumenti tipici della Evidence Based Medicine (revisioni sistematiche della letteratura in primis).
Ma c’è un’altra forma di appropriatezza cui il professionista sanitario può dare il suo contributo come contributo alla causa della sostenibilità del SSN: la corretta allocazione programmatoria delle risorse (umane, strutturali, tecnologiche, ecc.). Al riguardo può valere come esempio l’introduzione della chirurgia robotica. AGENAS[21] , per conto del Ministero della Salute, ha pubblicato un rapporto nel marzo 2017 sulla chirurgia robotica da cui viene estratto il passaggio che segue.
Le prove scientifiche in nostro possesso confermano solo parzialmente i vantaggi ipotizzati, con l’unico beneficio confermato rappresentato dalla riduzione dei tempi operatori. Nonostante la sua popolarità e i potenziali benefici, a fronte degli elevati costi di acquisizione e gestione il robot, rimane una tecnologia parzialmente valutata. Due degli aspetti più importanti, quali la formazione degli operatori e i benefici per il chirurgo ed i suoi assistenti (con presunti benefici indiretti per l’operato) non sono stati mai valutati direttamente nei molti studi identificati. Inoltre i possibili eventi avversi sono mal riportati o addirittura ignorati in letteratura.
Quindi va benissimo l’investimento tecnologico in un contesto di stimolo alla crescita professionale e alla produzione scientifica, ma anche in un contesto di consapevolezza sui limiti della tecnologia e sull’opportunità di bilanciare gli investimenti tenendo conto delle priorità di sistema.
Formazione e ricerca nel supporto al Servizio Sanitario Nazionale
Abbiamo la fortuna e la responsabilità di scrivere su Lettere dalla Facoltà. E quindi chiudiamo questo nostro racconto ricordando le nostre comuni origini all’Istituto di Igiene diretto dal nostro indimenticabile maestro prof Renga.
Lì giovani e talvolta presuntuosi abbiamo partecipato all’entusiasmante avvio della storia del SSN impegnandoci nelle due dimensioni della formazione e della ricerca per diffondere le parole chiave dell’equità e della universalità. Lo stesso ci sentiamo di fare oggi certo meno giovani, ma sicuramente più riflessivi e meno presuntuosi.
E con umiltà[22] vogliamo sottolineare il ruolo fondamentale dell’Università nel sostegno al nostro SSN. Università che deve formare professionisti sanitari con un sempre più solido approccio scientifico e un rinnovato apporto delle scienze umanistiche, nonchè ricercatori che oltre a cercare/sperimentare cause e rimedi efficaci/efficienti/sicuri contro le malattie, sperimenti e validi modelli organizzativi nuovi: percorsi di presa in carico della cronicità, percorsi assistenziali e reti cliniche. Speriamo di aver portato un contributo a quanto queste debbano essere nuove forme di pratica e di organizzazione professionale e non solo nuove parole da usare quando si parla di sanità.
E (come dice di solito l’ultima slide con una struggente alba sullo sfondo): grazie dell’attenzione!
- Kodner DL, Spreeuwenberg C. – Integrated care: meaning, logic, applications, and
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- L’European Pathway Association (E-P-A.org) è “nata” il 16/17 settembre 2004 a Jesi, vicino ad Ancona (Italia). Il primo Workshop sul Focus europeo sui percorsi clinici è stato organizzato dall’Agenzia Regionale Sanitaria di Regione Marche sotto la supervisione del Prof. Francesco Di Stanislao, (a quel tempo) direttore dell’Agenzia Regionale Sanitaria delle Marche e del Prof. Massimiliano Panella. Nel 2008 l’E-P-A è diventata un’associazione ufficiale senza scopo di lucro. http://e-p-a.org/about-epa/history/ ↑
- Vanhaecht, K., De Witte, K. Sermeus, W. (2007). The impact of clinical pathways on the organisation of care processes. PhD dissertation KULeuven, 154pp, Katholieke Universiteit Leuven http://e-p-a.org/care-pathways/ ↑
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