L’iconografia passata della cura e dell’assistenza
di Giordano Cotichelli
Corso di Laurea in Infermieristiche
Facoltà di Medicina e Chirurgia, Università Politecnica delle Marche
Storici ed antropologi chiamano “feste serpentine” le periodiche ricorrenze presenti nell’Appenino Centro-Meridionale, tra Marche ed Abruzzo, terre di Piceni e Marsi, dove il culto dei piccoli rettili rimanda a conoscenze mediche e a simbolismi sanitari dell’Età classica, fra dei minori e antidoti di ogni sorta, lungo una prospettiva teurgica, già matura per farsi scienza.
Nella prima parte di questo lavoro si è iniziato a parlare della presenza dei serpenti nella mitologia e nell’iconografia classica, specie in relazione al caduceo e al bastone di Asclepio, prendendo in considerazione in particolare il mondo greco e mediorientale. E’ giusto gettare uno sguardo anche alla cultura italica, sia di derivazione romana sia legata ai popoli della penisola e alle molte credenze di cui erano portatori. In Sardegna ad esempio attorno al comune di Baunei, è ancora presente la leggenda di un drago locale, sorta di lucertolone dell’isola, chiamato scultone in grado di pietrificare con lo sguardo le persone [1]; al pari del basilisco orientale e della Medusa. C’è poi la presenza di figure legate strettamente al culto dei serpenti, come quella dei Serpari, diffusa un po’ in tutta la penisola. In particolare nell’Italia Centro-meridionale, è ancora presente nei due piccoli comuni abruzzesi di Cocullo [2] e di Pretoro dove si festeggiano proprio i rettili all’inizio del mese di maggio. Resti di tradizioni appartenenti al popolo dei Marsi [3] legate alla raccolta di erbe medicinali, alla preparazione di medicamenti o alle conoscenze sul veleno dei serpenti, di cui hanno scritto: Teofrasto (IV a.C.), Dioscoride (I d.C.), Scribonio Largo (1 – 50 d.C.), Plinio il Vecchio (23 – 79 d.C.) e Galeno. Saperi e pratiche appartenenti anche ad altri popoli, molto distanti, di cui parla ad esempio Plinio nella sua Naturalis Historia (VII, 2, 3 – 15) in merito ai Psilli, abitanti di Cirene o agli Ofiogeni (presenti sia in Propontide – nell’area dell’attuale Mar di Marmara – sia in Frigia) [4]. Giuseppe Penso, storico della Medicina, riguardo al popolo dei Marsi [5], ricorda una loro divinità dal nome di Angitia (o Angizia), che consigliava quali erbe utilizzare per guarire dal morso dei serpenti. Lo stesso nome della divinità viene trovato sotto la grafia Anguitia (anguis: serpente d’acqua nella grafia latina), o con il nome di Ancaria o Ancheria, venerata dai Piceni, in particolare nelle aree di Ascoli, Osimo e Pesaro [6]. Altre feste serpentine si possono ritrovare ancora in Abruzzo, in altre località proprie della Marsica, come il bacino del Fucino, o nei paesi si Atessa e Pacentro, aree di sismicità che legano in questo caso la figura del serpente a divinità ctoniche (dei terremoti) come quella di Zeus Mailichios, simboleggiato anch’egli con la figura di un ofide.
Si ricorda poi la divinità romana di Schadapra [5], protettrice dai morsi di serpenti, di probabile derivazione dai culti orientali (forse dal fenicio Shadrafa, dio della guarigione). Ad essa si associano le divinità di origine etrusca [7] quali: Tagete (dio della saggezza e della divinazione; aveva due serpenti al posto delle gambe. Figura che ricorda un po’ quella di Erittonio, divinità minore dal corpo di serpente posto ai piedi di Atena), Tuchulca (creatura dell’oltretomba con dei serpenti al posto dei capelli), Turms (araldo munito di bastone simile a quello di Hermes), e Vanth (demone femminile dell’oltretomba, che assiste la persona malata sul letto di morte) i cui strumenti sono una torcia, una chiave ed un serpente. Va ricordato che oltre al bastone, il serpente poteva essere rappresentato anche assieme ad una coppa, come nel caso della figura di Igea, figlia di Asclepio e Epione, dea della salute e dell’Igiene che, nella mitologia romana viene indicata anche come Salus o Valetudo. La prima, ereditata dalla tradizione religiosa dei popoli sanniti dell’Italia Centrale, in particolare i Sabelli [5]. Proteggeva dall’epidemie e dalla guerra, la si invocava in situazioni di pericolo e come augurio verso propri interlocutori, e la sua stessa denominazione pone in rilievo la distinzione in tema di salute che già i Romani facevano riferendosi a due precisi vocaboli: salus, rispetto alla dimensione individuale della salute e sanitas in relazione a quella pubblica. Salus era rappresentata, in medaglie e monete [Fig. 1], come una donna accanto al simbolo sacro del serpente di Esculapio. In alcune occasioni poteva essere denominata anche con un altro appellativo, quello di Valetudo, divinità che acquisterà maggior rilievo nel connotare le strutture civili e militari di assistenza presenti nell’Impero Romano: i valetudinaria.
Ecco che si è entrati a forza nella tradizione romana dove [8] [9] nel 293 a.C., durante la Terza guerra sannitica, al fine di porre fine ad una tremenda pestilenza che imperversava nell’Urbe, viene importato il culto di Asclepio (che diventerà Esculapio) attraverso un’ambasceria che si era recata al tempio di Epidauro da cui, la tradizione vuole, era arrivato un serpente sacro al dio che, sbarcato poi dalla nave, andò a nascondersi negli anfratti dell’Isola Tiberina. Qui fuori dal pomerio, venne eretto un tempio dove poi, in seguito sorgerà – secondo la tradizione – uno dei primi ospedali della storia. A questo punto è necessario soffermarsi sulla funzione che i templi di Asclepio (Asclepiei) esplicavano riguardo la cura. Erano caratterizzati da una strutturazione ben definita con la presenza di terme, portici, spazi per spettacoli teatrali o musicali (odèion), sale per i massaggi, per la ginnastica, le frizioni, i bagni. C’erano stanze per dare ospitalità ai pellegrini, e stanze per la piccola chirurgia o per la somministrazione di purghe. La struttura vedeva posto al centro l’abaton, un lungo portico jonico ai cui lati si mettevano gli ospiti, in strutture divise per l’accoglienza (katagòghion)[9] e ripartite per genere. L’abaton era il luogo riservato al sonno guaritore (incubatio), e qui vi era posta la statua di Asclepio, dove vi si poteva ritrovare il tholos [Fig. 2], una edicola a forma circolare (in greco ϑόλος significa appunto volta, cupola, conico) in cui stava il pozzo in cui venivano tenuti i serpenti sacri al dio.
Va ricordato che il pozzo rappresentava per i Greci, in età arcaica, una via per conoscere la verità oracolare che consideravano situata nelle viscere della terra. A Delfi, prima che l’isola fosse dedicata ad Apollo, c’era appunto una grotta-sorgente (pozzo) che ospitava Pitone, serpente che proteggeva l’oracolo ivi presente. Da qui il mito progredisce, cambia e trascina con sé nel tempo l’immagine del pozzo sacro che si incunea nelle viscere, ospita i serpenti, diventando uno degli elementi propri dell’Asclepeion [10] e arrivando a ridosso dell’età contemporanea. A partire dal XVII secolo circa inizia a farsi strada, quale sinonimo di manicomio, l’espressione: “la fossa dei serpenti”, riconoscendo in questo la pratica, priva di qualsivoglia efficacia scientifica, anche banalmente empirica, di una terapia d’urto nei riguardi dei folli che, alla vista o al contatto con gli animali, subivano uno schock “rigenerante” [11]. Nel 1948 ne trasse ispirazione un film, intitolato appunto “La fossa dei serpenti”, a denuncia delle condizioni dei pazienti pschiatrici negli ospedali statunitensi, per la regia di Anatole Litvak e con la mirabile interpretazione di Olivia de Havilland, e ponendo la parola fine alle credenze – non solo in termini di cure psichiatriche – figlie di epoche ancora troppo condizionate dai miti passati e fragili nelle poche certezze scientifiche. In merito vanno riportate ulteriori testimonianze tratte dalla storia passata del Bel paese.
La prima riguarda quanto scrive Frà Mansueto Brembilla nel suo manuale per gli infermieri nel 1728, [12] che suggerisce, quale cura per l’idropesia, di procurarsi la pietra presente all’interno del corpo di un serpente (lapis serpentis), la quale si poteva ottenere tenendo un serpente acquatico a testa in giù finchè non l’avesse vomitata. Un’altra testimonianza costringe a fare un salto indietro decisamente lungo, arrivando agli albori dell’Anno 1000, a Milano (città che ha nel suo simbolo araldico un serpente, o meglio … un biscione), durante il mandato dell’Arcivescovo Arnolfo II. L’alto prelato, ricevuto in dono dall’Imperatore di Bisanzio, secondo la leggenda, il serpente di rame (che poi era in realtà di bronzo) del bastone di Mosè, lo pose in cima ad una colonna all’interno della basilica di sant’Ambrogio dove i milanesi ne riconobbero immediatamente le proprietà taumaturgiche: chi lo toccava guariva dai disturbi all’intestino [13], in particolar modo quelle date dai … vermi. A questo punto, non si può che lasciarsi suggestionare dal richiamo della seconda Roma, e prendere in consdierazione un’ultima testimonianza: quella della Colonna serpentina, detta anche tripode di Delfi o di Platea. Un’antica colonna alta circa otto metri, costruita in bronzo e formata dal corpo di tre serpenti avvinghiati. Presente in origine a Delfi, come offerta per commemorare la vittoria nella battaglia di Platea (479 a.C.), venne trasferita da Costantino nella “sua” Costantinopoli (la seconda Roma), per arredare l’Ippodromo della città. Subì nel corso dei secoli le ingiurie del tempo e degli uomini, ed oggi resta ancora visibile nella sua sede di origine ad Istanbul, ma priva delle teste dei serpenti, di cui una sola non è andata perduta ed è collocata all’interno del Museo archeologico della città. La tradizione vuole che la colonna abbia la funzione di protezione da guerre, pestilenze, terremoti, fino a quando almeno una delle teste fosse presente in città. Quella conservata nel museo fu ritrovata nel 1848.
Si lascia in sospeso al lettore ogni considerazione sulla contiguità e sulle varie correlazioni dei simboli descritti. Alla fine, dopo la rappresentazione dei saperi e delle pratiche, descritti nella prima parte, il mito ha accompagnato un’incursione anche all’interno dei luoghi: templi, chiese, ospedali, in cui la simbologia del serpente diventa causa ed effetto di un panorama della storiografia della Medicina destinato ad ampliarsi per poter abbracciare anche le figure della cura e dell’assistenza di cui si parlerà nella terza ed ultima parte.
Bibliografia
[1] Maccioni, A. (2018). I luoghi e i racconti più strani della Sardegna. Newton Compton editori.
[2] Tratto dalla Rivista Medioevo – n. 5, maggio 2006, di Claudio Corvino, in cui l’autore cita anche le figure dei Saludadores spagnoli o dei Sanpaolari. I Sanpaolari, figure a mezzo fra i girovaghi e i venditori di rimedi – la terra di Malta – contro i morsi dei serpenti vengono citati anche dal noto antropologo italiano Ernesto de Martino nel 2009 in: La terra del rimorso. Contributo a una storia religiosa del Sud. Il Saggiatore, Milano.
[3] Gazzaniga V. (2014). La medicina antica. Carocci editore, p. 32
[4] Charbonneau-Lassay, L. (1994). Il bestiario del Cristo. Edizioni Mediterranee, p. 406.
[5] Penso, G. (1985). La medicina romana. L’arte di Esculapio nell’antica Roma, pag. 40, edizioni Ciba Geigy
[6] Stoppa, F. (2010). Sismicità e feste serpentine in Abruzzo (Fucino, Cocullo, Pacentro, Atessa e Pretoro). Stoppa et al. (eds), 225-257;
[7] Cristofani, M. (Ed.). (1985). Dizionario della civiltà etrusca. Giunti Editore.
[8] Angeletti, L. R., & Gazzaniga, V. (2008). Storia, filosofia ed etica generale della medicina. Elsevier & Masson, Torino
[9] Cosmacini, G. (2014). L’arte lunga: storia della medicina dall’antichità a oggi. Laterza & Figli Spa.
[10] Rossetti, R. (2012). Nel nome di Asclepio il tarantismo oltre la lettura di Ernesto De Martino. Segni e comprensione, 76, 88-118.
[11] Raucci, V., & Spaccapeli, G. (2013). Fondamenti di infermieristica in salute mentale. Maggioli Editore; p. 19.
[12] Brembilla M. (1728) L’infermiere in pratica sopra la cura di tutti li morbi del corpo umano, ovvero compendio di arte medica diviso in cinque parti, presso Domenico Lovifa, Venezia, p. 345
[13] Valli, A. M. (2013). Milano nell’anima: Viaggio nella Chiesa ambrosiana. Laterza, Bari.