Mutuano il nome da una città dell’antica Grecia, ἡ Μεγάλη Πόλις, fondata da Epaminonda e popolata con elementi di 40 borgate e 4 città. Oggi sono agglomerati urbani di dimensioni enormi, con un numero di abitanti che supera i 10 milioni (in alcuni casi sono oltre 20 milioni).
Megalopoli, gigantografie disconnesse dell’umano, luoghi quasi sovrapposti a superluoghi*, spazi reali dove si incrociano coesistenze di universi lontanissimi, materializzati nei panni stesi in vista sui marciapiedi delle vie principali, tra le auto, le moto e i carretti trainati dalle biciclette, e sullo sfondo, a poche decine di metri, teorie di grattacieli monumentali affacciati sui vicoli stretti del degrado urbano così come sulle road commerciali che ostentano i simboli più marcati dell’occidente consumistico.
Per le strade di Shanghai l’odore forte di CO2 mescolato agli aromi intensi, di coriandolo e di spring onions, delle botteghe alimentari.
Omologhi sembrano i visi orientali, che possono apparire “tutti uguali” solo alla visione gestaltica sommaria di un occidentale, diversissimi invece nei tratti somatici e nella specificità biografica di ciascuno. Evidente la coesistenza simultanea dei segni del degrado accanto a quelli di uno sviluppo esageratamente rapido, sconosciuto alle modalità costruttive e organizzative tradizionali. In questo senso le megalopoli contengono e riassumono il meglio e il peggio dell’umanità, così disconnesse al loro interno e altrettanto connesse con il resto del mondo (Castells).
Immediata è la percezione di una stretta analogia con gli esiti dell’avvento dei nuovi media comunicativi, “social” solo di nome, di fatto potenziali fattori di isolamento e di frammentazione a livello di gruppi e di formazioni sociali e in generale in tutti gli ambiti di condivisione materiale delle pratiche comuni. Così come per le autostrade virtuali della “Rete delle reti”, anch’essa gigantografia comunicativa dell’umano, dove si esprime con potenza inaudita la molteplicità sincronica delle biografie e delle narrazioni, insieme alla percezione di una pluralizzazione dei mondi vitali che è frutto della modernità. La modernità solida della prima ora, quella della civiltà capitalistica industriale e del disincantamento del mondo, dell’affermazione del pensiero libero e della nuova scienza positiva. E poi la modernità liquida, o post modernità, che è in effetti modernità nella sua estrema versione evolutiva, presenza e assenza dell’umano, dissoluzione del sociale, solitudine. Sulla metro passeggeri frenetici, di ogni estrazione sociale, con gli iPhone e gli Huawei in mano, ciascuno connesso con altri mondi, ma ciascuno disconnesso dagli occhi del vicino. Così come nelle strade iperaffollate e negli immensi centri commerciali che occupano interi grattacieli.
Forse l’unico sguardo umano sembrano gli occhi incuriositi alla vista di un viso occidentale.
BIBLIOGRAFIA
M.Augé, Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità, elèuthera, Milano 1996 M.Castells, La nascita della società in rete, Università Bocconi Editore, Milano 2002 Z.Bauman, Modernità liquida, Laterza, Roma-Bari 2002
*il termine è di Marc Augé, che così rettifica la nozione classica di “nonluoghi”, per definirne l’evoluzione nel senso di una nuova rappresentazione di questi territori di passaggio come punti di riferimento e di incontro sociale (si pensi ai centri commerciali)