Alberto Pellegrino
Sociologo
Secondo illustri psicanalisti ed etologi l’aggressività è parte integrante del nostro DNA, affonda le sue radici nelle origini della nostra specie e pertanto non si può eliminare ma solo controllare.
L’aggressività è una caratteristica umana che può incidere positivamente o negativamente sui rapporti individuali e di gruppo. È aperto il dibattito tra la sociobiologia che ritiene l’aggressività una dotazione biologica immutabile, tra sociologia e psicologia sociale che considerano l’aggressività un prodotto della società, per cui essa può essere controllata attraverso il processo di socializzazione e l’adozione di determinate norme sociali.
L’aggressività, nel linguaggio comune, indica una disposizione ad avere dei comportamenti finalizzati all’affermazione di sé e alla vittoria su un avversario, mediante la competizione. Sotto un profilo tecnico, l’aggressività è considerata uno dei caratteri più importanti degli esseri umani, tanto da essere vista come una forza dinamica che incide in senso positivo sui rapporti tra gli individui (competizione costruttiva), quando serve ad affermare le proprie capacità, a migliorare la qualità della vita, a conquistare il successo. L’aggressività è, al contrario, considerata un impulso negativo (competizione negativa), quando determina conflitti tra gli individui, i gruppi, le classi sociali e i popoli. In questo caso la carica aggressiva può sfociare in gravi fenomeni di violenza (aggressioni, sequestri, omicidi, esplosioni di furore individuale e collettivo) e a avere un notevole peso sociale, assumendo significati morali e sociali diversi: arriva alla forma più estrema con l’annientamento fisico dell’avversario, oppure si esprime in forme distruttive come la sottomissione o lo sfruttamento di un altro essere umano che manca di fiducia in se stesso, è vittima della paura o non ha una sufficiente forza morale. Forme abbastanza diffuse di aggressività si manifestano in parte visibile nella vita privata o nelle relazioni sociali. Si tratta di una violenza silenziosa e spesso impunita, fatta di maltrattamenti fisici, privazioni, brutalità anche sessuali, umiliazioni, forme di autoritarismo; un’aggressività che nasce e si sviluppa tra le mura domestiche, nella scuola, nella politica, nello sport, nei luoghi di lavoro, nelle comunità, nelle carceri, provocando gravi danni alla personalità con ripercussioni negative sull’intera società.
Aggressività e natura umana
La convivenza all’interno di una società fa nascere reciproche aspettative di cooperazione, per cui sono frequenti gli esempi di altruismo o addirittura di abnegazione, ma vi sono anche esempi di comportamenti aggressivi e violenti che non si spiegano solo con le inclinazioni naturali degli individui, ma con il modo di interpretare le situazioni contingenti, i vari legami sociali e le norme che caratterizzano le varie culture. Si possono pertanto collocare al primo posto nella scala morale nobili sentimenti come la generosità, lo spirito di sacrificio, la disponibilità a servire gli altri, che sono comunemente riconosciuti come il bene. Esistono nello stesso tempo sentimenti e comportamenti come l’egoismo, la violenza e altri impulsi distruttivi che invece rappresentano il male con la conseguente capacità di commettere omicidi, stupri, rapine, stragi di massa. Per secoli il dibattito sull’origine e sulle manifestazioni del bene e del male ha riguardato la filosofia e la religione ma, a partire dal Novecento, di questi fenomeni si sono occupate le scienze sociali e la ricerca scientifica, perché si è compreso che l’aggressività è un fenomeno talmente complesso da compire, per cui lo studio delle sue cause, manifestazioni e conseguenze richiede approcci diversi che coinvolgono la biologia, la psicologia, la psichiatria forense, la sociologia.
Fig.1 Classificazione dei comportamenti aggressivi
Fig. 2 Situazioni che possono scatenare l’aggressività
La questione della natura umana ha interessato alcuni filosofi del passato, che si sono interrogati sui principi dell’ordine sociale e sul ruolo dell’autorità per il suo mantenimento. A questo proposito Thomas Hobbes ritiene che gli uomini siano sostanzialmente degli animali e come tali siano naturalmente violenti e inclini all’aggressività verso i propri simili. È pertanto necessario porre un freno alle loro tendenze distruttive attraverso delle istituzioni sociali che siano in essere in grado di reprimere le tendenze antisociali e assoggettarle alla necessità della convivenza civile per mezzo di condizionamenti culturali sempre più sofisticati e con severe punizioni inflitte ai violenti. Al contrario, Jean-Jacques Rousseau sostiene che gli uomini siano d’indole pacifica e per loro natura socievoli, mentre sarebbe la società a corromperli e a renderli potenzialmente aggressivi a causa di determinate condizioni sociali, della sovrappopolazione, delle ideologie, della disponibilità di armi sempre più sofisticate e tecnologicamente avanzate. Solo un radicale mutamento di queste cause potrebbe ridurre l’aggressività o addirittura eliminarla.
I progressi scientifici non hanno risolto ma hanno anzi alimentato questa contrapposizione. Diversi antropologi e sociobiologi sostengono che uccidere è una caratteristica della natura umana e che questo istinto sarebbe servito ai nostri antenati per sopravvivere e giungere fino a noi. È quanto sostiene l’antropologo Raymond Dart: “Siamo carnivori e cannibali, ammetterlo è ripugnante ma è così ed è la nostra mente che non può sottrarsi a una propensione naturale alla violenza”.
Fig.3 Konrad Lorans
Sulla stessa linea si pone l’etologo Konrad Lorenz quando sostiene che l’aggressività non sia un prodotto dell’uomo e delle condizioni sociali ma vada ricercata nella natura umana, che è tendenzialmente distruttiva. Essa ha spontaneamente origine nel cervello umano, perché si tratta di un’eredità dei nostri antenati animali a determinare l’inevitabilità dei comportamenti aggressivi. In un ambiente pieno di pericoli e dove le risorse sono limitate, l’individuo diventa aggressivo per difendere se stesso, per assicurarsi la sopravvivenza e la conservazione della specie. L’aggressività va pertanto concepita come un’energia istintuale utilizzata in presenza di uno “stimolo scatenante”: in questi casi è opportuno che l’energia istintuale sia indirizzata e manifestata, perché potrebbe accumularsi e scoppiare in modo incontrollato anche in assenza di determinati stimoli.
La società dovrebbe indirizzare le energie negative dei singoli verso forme di scaricamento sociale (come le competizioni sportive), anche se è stato dimostrato come in individui, che hanno avuto la possibilità di praticare forme di scaricamento sociale, non sia diminuita la carica di aggressività. È controversa anche la tesi secondo la quale l’osservazione di comportamenti aggressivi abbia un effetto di catarsi che porta a una sublimazione dell’energia distruttiva. Si è sperimentato che l’esposizione a comportamenti violenti non è sufficiente a eliminare la presenza di pulsioni aggressive anzi può aumentare le probabilità che una risposta di tipo aggressivo venga adottata da determinati individui.
Un primo sostegno alle tesi avanzate dall’antropologia e dall’etologia è arrivato dalla psicanalisi, perché è stato Sigmund Freud ad avere per primo un approccio psicologico al problema dell’aggressività.
Fig. 4 Sigmund Freud
Il padre della psicanalisi sostiene che l’aggressività umana è inevitabile ed è il frutto della tensione fra i due istinti primari dell’autoconservazione (Eros) e dell’autodistruzione (Thanatos): il primo istinto fornisce l’energia vitale necessaria per la sopravvivenza, mentre il secondo produce un’energia distruttiva che deve essere in qualche modo dominata per consentire al primo istinto di prevalere. Il comportamento aggressivo dovrebbe servire a riorientare l’energia negativa, ma questo produrrebbe effetti negativi sulla società, se i suoi componenti fossero liberi di manifestare la propria aggressività.
Fig.5 L’istinto aggressivo secondo la psicanalisi e l’etologia
Freud sostiene pertanto che la civiltà deve porre dei limiti alle pulsioni aggressive attraverso norme, comandamenti, restrizioni per prevenire i peggiori eccessi dell’aggressività umana, per cui l’individuo è costretto a rinunciare a una parte della propria libertà in cambio della sicurezza nella vita sociale. Le pulsioni individuali devono essere sublimate e convogliate verso mete sociali positive come le creazioni artistiche, la produzione scientifica, le dottrine ideologiche e Freud definisce “frustrazione sociale” il sentimento che domina le relazioni sociali e che costringe a un prezzo per il mancato soddisfacimento di tutte le sue pulsioni.
Una posizione intermedia assume lo psicanalista Erich Fromm, che ha studiato a fondo questo problema (Le radici dell’aggressività, Mondadori, Milano, 1984), arrivando alla conclusione che l’aggressività umana ha un’ampiezza e una complessità superiore a quella animale, perché l’uomo è suggestionabile e può essere persuaso che la sua vita o i suoi beni siano minacciati; inoltre è legato a valori, ideali e istituzioni che ritiene vitali o addirittura “sacri”, per cui reagisce con ostilità, quando ritiene questi siano minacciati. Si può pertanto definire un primo tipo di comportamento positivo (aggressione difensiva o benigna), che consiste in un impulso programmato filogeneticamente di attaccare o di fuggire, avvertito da un individuo quando ritiene siano minacciati alcuni interessi vitali; si tratta di un impulso che l’uomo ha in comune con tutti gli animali e che si pone al servizio della sopravvivenza dell’individuo e della specie, per cui cessa quando scompare la causa scatenante dell’aggressione. Esiste poi un secondo tipo di comportamento (aggressione maligna) basato su forme di crudeltà e distruttività che sono proprie della specie umana, mentre sono assenti in quasi tutti i mammiferi.
Fig. 6 Desmond Morris
Nel 1967 l’antropologo inglese Desmond Morris ha scritto il saggio La scimmia nuda (Bompiani 1968/2003), che è divenuto un successo mondiale. In esso si sostiene che l’homo sapiens, nonostante tutti i suoi progressi culturali, rimane sostanzialmente un fenomeno biologico soggetto alle stesse leggi che regolano il comportamento animale, cioè una scimmia nuda “esploratrice”, che ha la tendenza a investigare il mondo che la circonda. L’animale uomo, dopo avere abbandonato le foreste, è divenuto un carnivoro predatore guidato da un cervello efficiente che ha reso possibile una graduale evoluzione. Raggiunta la posizione eretta, le mani sono servite all’uomo per fabbricare gli strumenti e creare tecniche di caccia, per migliorare la cooperazione sociale e la formazione di gruppi di maschi cacciatori, mentre cominciano a differenziarsi i compiti dei due sessi. Nasce l’unione amorosa tra l’uomo e la donna, per cui le femmine rimangono fedeli ai loro maschi, possono dedicarsi ai doveri materni e alla gestione della famiglia, si verifica una riduzione delle rivalità sessuali tra maschi che rende possibile una maggiore cooperazione. In modo provocatorio Morris ritiene che, nonostante le conquiste scientifiche, tecnologiche e civili, l’animale uomo sia rimasto sostanzialmente lo stesso carnivoro esploratore e predatore che risponde con la violenza a ogni attacco al suo territorio, alla gerarchia del suo gruppo, all’interesse della sua famiglia e che organizza l’aggressione preventiva per sconfiggere e sottomettere gli individui e i gruppi che lo minacciano.
I critici dello scienziato inglese l’hanno accusato di sottovalutare il ruolo positivo che l’intelligenza umana ha avuto nel percorso evolutivo in senso positivo, anche se i comportamenti dell’uomo continuano a essere condizionati dalle situazioni socio-economiche in cui vive e dai limiti imposti dall’animalità. “Ancora e sempre la risorsa, unica e sola, di cui l’uomo dispone contro la violenza – scrive il filosofo Nicola Abbagnano – è l’intelligenza che può consentire calcoli e progetti a lunga scadenza e che, prospettandogli chiaramente le minacce incombenti, può distoglierlo dal ricorso alla violenza bestiale del predatore. Forse la parola più saggia sulla condizione umana è quella detta da Pascal: E’ pericoloso per l’uomo credere di essere uguale alle bestie o agli angeli. Se crede di essere un angelo, fa in realtà la bestia perché ignora o disconosce i suoi limiti. Ma proprio l’intelligenza di questi limiti è il fondamento della sua forza”.
Delle teorie che si contrappongono alle tesi della sociobiologia e dei fattori che ostacolano la reciproca identificazione ci occuperemo nel prossimo articolo.