La quinta fase: identità e protesi tecnologiche

Questi appunti intendono indagare  le ripercussioni della complessità semantica e comunicativa che caratterizza la cultura contemporanea,  a partire dai  più elementari processi di socializzazione di ogni singolo individuo. Muovendo dall’assunto (discutibile) secondo cui la formazione del Sé si articola attraverso un preciso percorso stadiale,  la riflessione prende spunto dalla ricostruzione classica di Erikson e, in particolare,  si incentra sulla tappa che può essere considerata focale per l’ integrazione dell’Io , vale a dire la quinta fase, durante la quale è in gioco il conseguimento dell’identità. Identità che è sempre, per definizione,  sociale, in quanto  sinonimo di  omologazione  (sia pure elaborata in qualche misura con modalità creative)  nei riguardi di stereotipi preesistenti e socialmente consolidati. Si tratta di un’ identità in senso forte, che si configura come rifiuto delle aspettative genitoriali e quale adesione totalizzante a modelli di riferimento esterni rispetto alla famiglia,  e che si contrappone ad una sua accezione “diffusa”, caratterizzata da un senso di dispersione.

Del resto la stessa definizione linguistica dell’adolescenza appare come un recente prodotto sociale, in quanto nelle precedenti formazioni comunitarie ciascuna biografia era chiamata, senza via d’uscita, a ripercorre in modo identico l’iter ritualizzato delle generazioni precedenti, mentre spetta alla modernità la definizione di una concezione storica e costruttivistica dell’identità. Tuttavia  nella sua  prima fase, cosiddetta “solida”, non mancano sistemi a cui fare riferimento per sostenere il difficile compito di “autocostruzione” ,  mentre è nel senso permanente di “sfondamento” , di precarietà diffusa che la modernità “liquida” sembra delineare il carattere di una ricerca difficile e sempre più rischiosa.

In tutto questo riveste una valenza centrale il ruolo dei nuovi media elettrici ed elettronici. Se è vero che “the medium is the message” (and the massage), questo può porsi come fattore di aggregazione, fino all’utopia  dell’unificazione  planetaria (“nell’era elettrica abbiamo come pelle l’intera umanità”[1]),  attraverso la riduzione delle distanze fisiche, e al loro annullamento finale,  a seguito dell’estensione dei nostri sensi. Ciò si inserisce coerentemente in un percorso di ridefinizione critica dell’alterità, avviato anche a seguito dei massicci processi migratori, dai risvolti contraddittori e dagli esiti imprevedibili, ma anche con enormi potenzialità di riconoscimento di una dimensione umana che superi le barriere identitarie.

I nuovi media tuttavia rappresentano anche un fattore di rischio nell’indurre percezioni caratterizzate da falsa coscienza, nel senso di una forma di regressione verso uno stato di indifferenziazione pre- individuale infantile  (la “narcosi narcisistica”), come incapacità di distinguersi e di concepire la distanza tra sé e le protesi tecnologiche, fino a confondersi con esse, e fino a rovesciare il rapporto tra  i sistemi inanimati e l’umano,  così  da rendere quest’ultimo una specie di “organo sessuale del mondo della macchina”[2], asservito a logiche estranee rispetto alla normatività della vita stessa.

Il riferimento agli imperativi sistemici esterni ci riconduce ad un filone critico, meno radicale ma altrettanto incisivo, nei riguardi della televisione intesa come “cattiva maestra” nel fornire modelli di riferimento sempre più invasivi,   incarnati nelle figure di VIP mediatici in grado di soppiantare i  leader dei peer groups,  o per lo meno di determinarne pesantemente le modalità comportamentali. Si tratta di modelli  improntati spesso alla violenza,  all’autoaffermazione basata sulla competizione individuale, che veicolano una concezione oggettualizzante della sessualità (e superficiale dei sentimenti), che ammicca tra il gioco e la pornografia.  Sono modelli  a volte “androgini”, che sfumano le identità di genere in commistioni fantasiose e piuttosto improbabili, o in altri casi, al contrario,  fortemente stereotipati, soprattutto quando si tratta di delineare un immaginario che richiama canoni pesantemente penalizzanti nei confronti del genere femminile.

Questi e altri spunti  riconducono in definitiva all’esigenza di affermare la persistenza dell’umano, la sua capacità di resilienza a fronte di tutti i rischi costituiti dai sistemi oggettivati così come dalle protesi tecnologiche. Esigenza di affermarne la primazia e il valore assoluto nell’unicità di ciascuna esperienza esistenziale.

Incrocio di mani

Figura 38

Riferimenti bibliografici

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  • L.Zanardo, Il corpo delle donne, Feltrinelli, Milano 2010
  • P.Stauder, La memoria e l’attesa, Quattroventi, Urbino 1999

Filmografia

S1mOne (regia di Andrew Niccol)
The Truman Show (regia di Peter Weir)                                                                                  L’attimo fuggente (regia di di Petereir)                                                                                             Pina (regia di Wim Wenders)                                                                                                                Il corpo delle donne, film documentario di Lorella ZanardoMarco Malfi Chindemi, Cesare Cantù

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