Violenza e Società – 1. Natura e caratteristiche della violenza nelle società umane

Alberto Pellegrino
Sociologo

Secondo la sociologia la violenza è un comportamento volontario e aggressivo contro determinate persone con l’intenzione di ferire o uccidere, arrecare un danno o sottomettere al proprio dominio la volontà di un altro individuo. Questo modo di agire da parte di un soggetto si può classificare come violenza diretta se è esercitata in modo esplicito su una persona o un gruppo sociale; come violenza strutturale se colpisce gli individui in modo indiretto per esercitare delle pressioni psicologiche, per avere un utile economico, per eliminare degli avversari politici o dei concorrenti ritenuti pericolosi; come violenza culturale se assume forme simboliche che esaltano e promuovono la violenza elevandola a un valore sociale interiorizzato. Si parla di violenza politica se è esercitata da una classe sociale dominante attraverso il potere economico e politico, oppure contro un altro popolo, una minoranza etnica o religiosa. Questo tipo di violenza diviene particolarmente grave, quando una minoranza s’impone sulla maggioranza della popolazione per impadronirsi dello Stato e sottomette i cittadini, togliendo loro la libertà, i diritti civili e politici.

Secondo un’altra classificazione si può fare una distinzione tra violenza fisica e violenza psicologica: nel primo caso si compie un’azione volontaria mediante l’abuso della forza da parte di una o più persone per provocare dolore ad altri individui fino ad arrivare all’omicidio o alla strage; nel secondo caso non si provoca un danno fisico, ma si vuole indurre una persona a tenere determinati comportamenti attraverso diverse forme di condizionamento come pressioni psicologiche, minacce, ricatti, intimidazioni, comportamenti aggressivi all’interno della famiglia, nella scuola, nelle istituzioni sociali e religiose, nei luoghi di lavoro sempre con il fine di piegare un soggetto alla propria volontà.

La violenza psicologica può colpire in tutte le situazioni della vita e in tutti gli ambienti sociali, nei quali un essere umano si trova di fronte a un suo simile e può arrivare fino all’estremo condizionamento del plagio attraverso forme di coercizione che possono esercitarsi in modo subdolo o palese anche per lungo tempo sempre per costringere una persona a tenere dei comportamenti che limitano la sua libertà di pensiero e di azione.

La violenza e la natura umana

Secondo la sociobiologia, nel mondo animale le uccisioni di soggetti di specie diversa rientrano nella legge della sopravvivenza, mentre sono rare le uccisioni all’interno della stessa specie, perché la lotta è ritualizzata e si arresta quando l’animale vinto emana un segnale convenzionale per comunicare al vincitore la propria resa.

 Negli esseri umani esiste una “aggressività innata” ereditata dal mondo animale e definita dagli specialisti una “tensione competitiva”, che fin dalle origini ha spinto l’uomo a procurarsi il cibo, a possedere le femmine desiderate, a preservare il proprio territorio. Tuttavia, tra i vertebrati superiori è raro che le azioni
aggressive abbiano conseguenze mortali, per cui esiste una prima legge generale secondo la quale vi sono delle inibizioni che impediscono di uccidere esseri appartenenti alla stessa specie; vi è una seconda legge che prevede l’esistenza di “controindicazioni” capaci di inibire le tensioni innate dell’aggressività.

Nelle prime forme di società la violenza è una costante abbastanza diffusa e praticata dall’Homo abilis che comincia a produrre degli utensili da usare per la vita domestica, per la caccia e per gli scontri a carattere tribale. Con l’apparire dell’Homo sapiens inizia a svilupparsi una cultura che porta alla nascita di forme di pensiero e di comunicazione, all’invenzione di modi e mezzi di cooperazione attraverso relazioni sociali basate su regole e divieti che riguardano l’allevamento dei piccoli, la difesa collettiva, l’attività sessuale di coppia, il sorgere del primo embrione di famiglia, i divieti (“tabù”) all’incesto e al cannibalismo, la proibizione della violenza all’interno del gruppo. Si accentua la divisione dei compiti, per cui gli uomini praticano la caccia secondo forme ritualizzate e combattono contro i nemici, mentre le donne raccolgono il cibo vegetale, mettono al mondo e curano i figli. L’esigenza della difesa e dell’offesa, resa più micidiale dalla scoperta e dall’uso dei metalli per la fabbricazione di armi, facilita la formazione di un’élite di guerrieri che fanno del combattimento la loro professione.

Con la scoperta dell’agricoltura, le società tribali delimitano i confini del proprio territorio, riconoscono l’autorità di un capo che detta le prime norme sociali che cercano di mitigare la violenza, anche se sopravvive la pratica della vendetta e l’applicazione della legge del taglione (“occhio per occhio, dente per dente”). Solo con l’ingresso nella storia la vita sociale regolamentata dalle prime leggi scritte (il babilonese Codice di Hammurabi, i Libri del Levitico, Numeri, Deuteronomio e Proverbi dell’Antico testamento). Nell’antica Grecia la violenza viene sublimata attraverso la mitologia e la poesia epica, mentre nel teatro tragico s’individuano alcuni fondamentali tabù che vietano l’infanticidio, il matricidio, il parricidio. Nel ciclo dell’Orestiade, Clitemnestra uccide il marito Agamennone e Oreste compie un matricidio per vendicare la morte del padre, ma nelle Eumenidi Atena istituisce i tribunali, affinché non vi siano più “coti insanguinate che affilino armi e cuori giovani e contese e rovine furenti”, perché “il furore è una ebbrezza senza vino”, per cui non ci devono più essere “violenze di fratelli contro fratelli”, dando inizio alla civiltà del diritto che sostituisce la vendetta personale e la legge del taglione.

L’uomo ha iniziato quindi a elaborare un processo culturale che lo rende “superiore” a tutti gli altri animali. Ogni gruppo umano comincia a creare una propria cultura, ma è proprio questa diversità culturale che spinge qualsiasi specie umana cerchi di sopravvivere a spese di altri uomini ed Erich Fromm, pur riconoscendo l’importanza delle diversità culturali, sostiene che “sono la lingua, i costumi diversi e altri caratteri captati dalla mente piuttosto che dall’istinto, a determinare chi è e chi non è con-specifico, con il risultato che qualsiasi gruppo presenti una lieve differenza non è più visto come parte della stessa umanità” (Anatomia della distruttività umana, Mondadori, Milano, 1975). Nell’ambito delle varie culture l’esercizio della violenza non trova un divieto assoluto (uccidere in guerra, adottare la pena di morte, praticare la legittima difesa). Le inibizioni a uccidere individui della stessa specie sono state superate, quando gli esseri umani hanno elaborato una “licenza di uccidere” nei confronti di altri esseri considerati “disumani”, cioè degradati a livello animale, tanto è vero che nella nostra tradizione linguistica è rimasta la frase “Ti uccido come un cane” e non “Ti uccido come un uomo”.

La violenza nella società contemporanea

Nell’età moderna nasce lo Stato fondato sulla separazione dei poteri legislativo, esecutivo e giudiziario. A questa istituzione si riconosce un monopolio della forza, che prevede un uso legittimo della violenza in forme e situazioni stabilite dalla legge per garantire una razionalizzazione degli istinti e un controllo della violenza stessa all’interno della società. In tutte le società, strutturate secondo il principio d’autorità, esistono norme morali, leggi giuridiche e regole di ogni altro genere, che limitano l’autonomia assoluta del cittadino, per cui ogni individuo, che vive all’interno di una comunità, deve riconoscere l’esistenza di altri individui, i quali hanno interessi e bisogni che possono coincidere o contrastare con i suoi, pertanto esiste un ordine costituito di regole che consentono la convivenza comune e tendono a disciplinate ogni forma di attività umana. Il filosofo Nicola Abbagnano a questo proposito dice: “Appena due persone s’incontrano, sia pure per giocare una semplice partita a carte, riconoscono o stabiliscono delle regole che, se sono disconosciute o deliberatamente infrante, rendono impossibile continuare l’incontro. Queste regole sono, in tutti i gruppi umani conosciuti, imperfette e spesso inutilmente oppressive; possono essere migliorate, corrette e sostituite da altre, ma non abolite in nome dell’autonomia assoluta del cittadino”.

A partire dal Novecento, a prescindere dal terribile dramma delle due guerre mondiali e dell’Olocausto, si è verificato il fenomeno positivo di una complessiva diminuzione delle manifestazioni violente individuali soprattutto per quanto riguarda la violenza mortale (omicidi). Tuttavia continuano a manifestarsi varie forme di violenza che trovano una enorme cassa di risonanza nei mezzi di comunicazione di massa e che diventano una forma di speculazione politica per sfruttare in fase di propaganda dell’emotività degli elettori.

Nella vita sociale e politica delle attuali società si assiste a forme di competizione che favoriscono l’aggressività fino ad arrivare a lotte senza esclusioni di colpi, producendo contraccolpi negativi all’interno dell’istituzione familiare e nei processi di socializzazione delle nuove generazioni, rendendo difficile una “libera” formazione della personalità. La rincorsa al successo e all’affermazione dei singoli, anche a costo di danneggiare altre persone, finisce per degradare le aspirazioni individuali e per provocare una serie frustrazioni, che a loro volta generano individui “unilaterali”, carichi di tensioni aggressive di rivalsa.

Una corrente di pensiero ritiene che sia utile dare un maggiore peso al rancore rispetto al perdono, perché questo potrebbe favorire un libero sfogo al risentimento quando si è subito un torto o un’ingiustizia, in modo da non coltivare per sempre la rabbia e le fantasie di punizione. Se ci si pone su questa strada, diventa però possibile un ritorno al concetto di vendetta che, secondo qualche psicologo, sarebbe opportuno “riabilitare”, perché le fantasie di vendetta potrebbero essere un antidoto per curare la rabbia e il rancore sociali, ma forse non si tiene conto che il risultato potrebbe essere una pericolosa deriva in avanti per arrivare fino alla faida come mostrano alcuni conflitti etnici o le moderne “guerre di vendetta” scatenate dopo l’11 settembre 2001.

La filosofa statunitense Martha Nussbaum, nel suo ultimo libro Rabbia e perdono (Il Mulino, Bologna, 2018), afferma che la rabbia e la vendetta non salveranno l’umanità, perché sono sentimenti velenosi e controproducenti, tenuti a freno e regolamentati da tutte le civiltà e, a proposito della vendetta, dice: “Nella vostra cultura Verdi è il compositore che più ha colto il senso di questo sentimento, mostrandone tutti gli aspetti distruttivi. Rigoletto uccide sua figlia, Iago annienta sia Otello che Desdemona. Un momento interessante nel Rigoletto è il duetto “Sì, vendetta, tremenda vendetta” che il protagonista e Gilda intonano dopo che lei viene portata via dal Duca.
Rigoletto crede di aver trovato il segreto della gioia. Ma ha trovato solo distruzione di se stesso e della figlia”.

Un’altra tendenza negativa spinge il mondo politico a sfruttare a scopi propagandistici la paura che è un sentimento umanamente comprensibile ma che, se è lasciato a se stesso, può condizionare la ragione e le nostre scelte, alimentare l’odio e il rifiuto dell’altro. Si sfruttano pertanto le sensazioni di pericolo e di disgusto, perché si tratta di emozioni negative più potenti dei messaggi di speranza, di giustizia e di rinnovamento della società. La paura ha facile presa nella società del rischio (come la chiama il sociologo Ulrich Beck), che è caratterizzata dall’incertezza, dalle crisi economiche, dalla disoccupazione, dal terrorismo, dalla criminalità, dall’immigrazione. Gli appelli alla paura funzionano meglio in situazioni di crisi esistenziale, del calo dell’autostima, nel venir meno dei valori identitari, per cui si va alla ricerca del perfetto capro espiatorio.

Come fronteggiare la violenza

È indispensabile riscoprire una legge morale capace di ricordare all’uomo che la violenza è una possibilità ma non un obbligo, che ogni un comportamento violento non è la prova di un diritto biologico all’aggressività, mentre è necessario recuperare quei codici di comportamento che esaltino le regole di una convivenza civile, che escludano o almeno circoscrivano le azioni violente degli individui, passando attraverso una rifondazione della personalità individuale per mezzo di un’educazione permanente che consenta agli individui e ai gruppi sociali di trovare in se stessi le motivazioni e gli strumenti per vincere o ridurre sensibilmente gli effetti della violenza. Attraverso i processi di apprendimento e gli strumenti forniti dalle varie istituzioni culturali è necessario far percepire la violenza in tutta la negatività, fissando alcuni punti fermi: ritrovare il valore della memoria, riscoprire i bisogni “veri” dell’uomo, sconfiggere il disinteresse per il pericolo e quindi per la vita stessa, rifiutare la morbosa e contagiosa curiosità per le tante morti-spettacolo diffuse dai mass media.

La prima istituzione su cui è necessario intervenire è la famiglia, dove continuano a essere presenti forme di violenza fisica e psicologica che colpiscono i figli e il coniuge femminile e che spesso si mascherano dietro aspetti di violenza invisibile, la quale non emerge per paure e ricatti, il sopravvivere di malintese tradizioni culturali e antropologiche. In particolare deve essere repressa ogni forma di violenza contro i minori e contro le donne che si verificano nella famiglia e in altre istituzioni sociali.

La scuola rimane l’istituzione pubblica più diffusa sul territorio, dove è possibile impartire un’efficace educazione contro la violenza, capace di rappresentare un reattivo alle pulsioni esterne che provengono dalla società, in grado di fronteggiare con opportuni interventi i preoccupanti fenomeni di delinquenza minorile e di bullismo messi in atto contro alunni e professori.

È fondamentale intervenire sul gruppo dei pari, che ha un’enorme importanza nella formazione della personalità giovanile, perché al suo interno i giovani passano molta parte del loro tempo libero; al suo interno si gioca buona parte del futuro per molti giovani, perché esso può essere un forte centro di aggregazione e di socializzazione positiva, ma può anche trasformarsi in una centrale operativa della violenza spesso immotivata e messa in atto da individui che, presi singolarmente, non eseguirebbero delle pratiche violente (microcriminalità organizzata, aggressioni di gruppo, stupri di gruppo, violenze di ultras sportivi). Per evitare o limitare effetti psicologici negativi, è opportuno fare analisi più approfondite ed esercitare maggiori controlli soprattutto riguardo al mixer di violenza-sessualità-asocialità sempre più presente nei mass media tradizionali e nei nuovi mezzi di comunicazione.

L’intera società deve rifiutare la violenza a cominciare dalle sue forme più blande (le violenze verbali) fino a quelle più gravi (l’omicidio), senza cadere nella trappola di considerare le manifestazioni violente come un male necessario e quindi ineliminabile. Di fronte allo spettacolo negativo della violenza nella società contemporanea, lo psicanalista Vittorio Andreoli afferma: “Ho la sensazione di essere in un campo di battaglia. L’uomo visto attraverso la sua violenza è deprimente. Eppure egli sa anche amare. Un insieme di violenza e amore. Forte come un titano e debole come un bambino. Il futuro dell’uomo è il futuro della sua violenza. Una rabbia impulsiva lo può distruggere e potrebbe cancellarsi assieme a tutte le altre specie e così il pianeta si trasformerebbe in un’enorme roccia nuda che gira folle nel cielo…Credo fermamente alla possibilità di modificare il singolo uomo e le società. Credo ai correttivi…Non so che cosa sia la perfezione, mi basta essere un uomo” (La violenza. Dentro di noi attorno a noi, Rizzoli, Milano, 1993).

Un altro psicanalista, Massimo Recalcati, sostiene che la spinta alla violenza, all’odio, alla sopraffazione e alla distruzione dell’altro non è una patologia, ma è come ombra oscura presente nel profondo del nostro io che bisogna scoprire e con cui fare i conti: “Il crimine non è la regressione dell’uomo all’animale, ma esprime una tendenza propriamente umana” e l’umanizzazione non consiste nel cancellare la violenza, ma nel saper rinunciare a essa in nome del riconoscimento dell’Altro come prossimo; essa ci spinge a dire “Io non sono tutto”, ma vivo in un mondo, dove ci sono anche gli altri e quindi accetto di appartenere a una Comunità umana, reprimendo quella che Freud chiamava una “frustrazione narcisistica”.

Il problema di simbolizzare e sublimare la violenza è reso difficile da due nuovi comandamenti presenti nella società contemporanea: il primo è la costante ricerca del nuovo, la spinta a cercare quello che non si possiede nell’illusione che quello che non si ha nasconda il segreto della felicità; il secondo è la ricerca del successo e nessun periodo storico l’ha enfatizzato fino a demonizzare l’errore, il fallimento, l’insuccesso, esaltando la propria immagine narcisistica fino al punto di “utilizzare la violenza, il passaggio all’atto brutale, al posto di assumere su di sé il peso della propria solitudine e del proprio fallimento”. Già Pasolini aveva messo in guardia di fronte a una “mutazione genetica” degli italiani, per effetto della quale l’individuo potrebbe trasformarsi in una macchina del godimento e, quando questo meccanismo entra in funzione, si forma una miscela esplosiva tra narcisismo e depressione per cui, di fronte al fallimento nel inseguire il mito del Successo, può nascere la convinzione di essere diventato superfluo e inutile per la società. Questa condizione psicologica può far entrare nel tunnel della depressione e quindi sfociare in atti violenti e ingiustificabili, perché il ricorso alla violenza può essere visto come “il talismano malefico per esorcizzare l’appuntamento fatale con la nostra vulnerabilità e insufficienza” (La Repubblica, 5 maggio 2013).

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