Il tema della follia nel teatro di prosa

di Alberto Pellegrino

Il tema della follia è uno dei più antichi e presenti in tutta la storia del teatro di prosa e sarebbe pertanto impossibile in questa sede tracciarne una mappa completa, per cui si dovrà ricorrere a un percorso che parta dalle origini per arrivare ai nostri giorni attraverso una serie di esemplificazioni che diano un’idea dell’importanza di questo argomento in ambito teatrale.

La follia nella tragedia greca

E’ ormai universalmente accettata l’idea che il teatro nasce con la tragedia greca, ma la sua nascita malgrado il numero rilevante di studi è ancora in gran parte avvolta nell’ombra. Una cosa è tuttavia certa: che la tragedia ha un’origine religiosa e che tali rappresentazioni nell’Atene classica sono palesemente collegate al culto di Dioniso, tanto è vero che le tragedie erano messe in scena nelle feste a lui dedicate e in particolare a primavera quando erano celebrate le “Dionisie urbane”. La loro rappresentazione s’inseriva in un contesto religioso ed era accompagnata da processioni e sacrifici dedicati al dio, il cui culto era particolarmente sentito nella Grecia arcaica, tanto che la sua festa continua a essere, anche nella Grecia classica, una festività nazionale. Nelle tragedie dei grandi autori classici non si avverte una presenza diretta del dio, ma si riscontra una costante presenza del sacro, soprattutto nel costante gioco della vita e della morte. Del resto Dioniso era una divinità particolare, perché era il dio del vino e dell’ebbrezza, delle processioni falliche e della “sacra” follia”, il dio che muore e che rinasce con il rifiorire della natura a primavera. Del resto il mondo della tragedia è dominato dal mistero e dalla paura, dalla violenza e dal sangue, dallo scontro tra la volontà umana e il daimon, la potenza divina; in questo mondo di forti passioni rientra anche la follia, intesa come perdita della ragione a causa dell’intervento divino che successivamente consente un ritorno alla ragione con conseguenze spesso drammatiche.

Nell’Orestiade, la trilogia di Eschilo, gli eventi si susseguono in drammatica successione: nella prima opera (Agamennone) Clitemnestra uccide il marito per governare il regno insieme al suo amante Egisto, ma anche per vendicare la figlia Ifigenia sacrificata per assicurare la vittoria dei Greci contro i Troiani; nella seconda (Le coefore) Oreste uccide Clitemnestra per ordine di Apollo che vuole ripristinare la giustizia divina, strana giustizia che impone al figlio di assassinare la madre per poi abbandonarlo alla furia delle Erinni, le divinità incaricate di punire il crimine, che faranno precipitare Oreste nel baratro della pazzia fino a quando nella terza opera, per intervento di Oreste, sarà affidato alla giustizia degli uomini e le Erinni diverranno le Eumeni di, destinate a vegliare per impedire il verificarsi dei crimini. Con Sofocle il tema della follia diventa esplicito nella prima parte della tragedia Aiace, dove l’eroe irato perché Ulisse gli ha sottratto le armi di Achille nella notte uccide un gregge di pecore credendo di sterminare i suoi nemici, gli Atridi e Odisseo. Una volta recuperato la ragione e in preda alla vergogna Aiace, eroe violento e feroce, si uccide perché non sopporta il disonore della sua azione notturna e non scende a nessun compromesso per come ha vissuto “gloriosamente”, così vuole “gloriosamente morire”. Vi è una costante nella tragedia greca, quando il personaggio precipita in uno stato di follia (o ottenebramento mentale) per poi riacquistare l’uso delle proprie facoltà mentali: è il caso, come si è visto, di Aiace, di Eracle nelle Trachinie, di Fedra che smarrisce il controllo della mente a causa della passione verso il figliastro Ippolito, di Medea che uccide i propri figli per punire Giasone sul punto di sposare un’altra donna.

In Antigone, l’eroina di Sofocle non è disposta a piegarsi all’editto di Creonte che ha ordinato di lasciare insepolto il cadavere di Polinice. Questa “vergine folle” (com’è stata definita) è disposta a mettersi contro l’ordine costituito per affermare il primato della pietà familiare, consapevole di andare incontro alla morte. La figlia di Edipo, nel compiere la sua azione “santa”, sa che sta commettendo un delitto che comporta la condanna capitale, fedele al terribile destino della sua casa; questa vergine “selvaggia” e inflessibile scatena la crisi e la rivela, mettendo a nudo la debolezza e le contraddizioni del potere che vuole governare la città con la retorica dei buoni propositi.

Euripide è l’unico autore a portare sulla scena Dioniso e a introdurre nelle Baccanti il tema della “follia divina”, un dio che non incarna la coscienza dei propri limiti e la moderazione ma porta a una forma di possessione che implica la ricerca di una follia divina, di una sorta di magia che non ha nulla in comune con l’ordine sociale, ma rappresenta una dimensione diversa in quanto conduce i suoi fedeli a un’esperienza religiosa che comporta il completo smarrimento di se stessi. A differenza delle altre tragedie euripidee, nelle Baccanti Dioniso è il protagonista assoluto, il dio folle che vuole impossessarsi della città di Tebe per sottometterla al suo culto e per questo assume l’aspetto di un giovane lidio per ingannare il re Penteo che vuole opporsi ai suoi riti. Prima s’impossessa delle donne della città trasformandole in Menadi in preda a una frenesia orgiastica e le conduce sul monte Citerone, poi fa cadere nella follia Penteo che delira privo della ragione. Spinge il giovane re, vittima di un torbido voyerismo, a contemplare le sconcezze delle menadi, arrivare sul Citerone per “vedere ciò che non bisogna vedere” travestito da baccante con indosso abiti femminili. Quando le Baccanti lo scoprono in preda alla stessa follia, lo sbranano e la stessa madre del re, Agave, in preda al delirio s’impossesserà della testa del figlio scambiata per quella di un leone o di un toro. Quando la regina uscirà dalla trance, si accorgerà che la felicità appartiene alle vere Baccanti del dio e spetterà a suo padre Cadmo fargli recuperare la ragione e fargli comprendere che Dioniso non è il dio della gioia, ma il dio del castigo e della perdizione.

Il tema della follia dal Medioevo al Rinascimento

Nel Medioevo, quando la crisi del teatro così com’è stato concepito dal mondo classico tocca il suo vertice, il tema della pazzia è presente soprattutto nelle feste dei folli, quando in un dato periodo dell’anno il popolo, i chierici e gli stessi preti assumevano travestimenti di ogni tipo e si abbandonavano a comportamenti al di fuori delle norme che regolavano la vita quotidiana. L’insania è la malattia mentale che può assumere anche un carattere profetico e può rendere l’individuo capace di superare il quotidiano e di mettersi in contatto con la verità. Nel Medioevo il folle diventa parte integrante della vita quotidiana, anzi diventa il protagonista delle feste popolari; inoltre si distingue la pazzia “buona”, che rende il malato innocuo e sottoposto alla protezione divina, dalla pazzia maligna che fa cadere l’individuo nel potere di Satana e diviene l’immagine del disordine terreno.

Col passare del tempo il ruolo del folle viene assunto da professionisti dello spettacolo come erano i giullari, i quali approfittano di questa condizione fittizia per esprimere la loro satira morale e civile; in un secondo momento a questi attori girovaghi si aggiungono dei personaggi stanziali, ospiti fissi dei castelli e delle corti reali con il nome di buffoni di corte, indossando spesso i simboli tradizionali che contraddistinguevano i pazzi. In pieno Umanesimo la follia è addirittura esaltata come una dote dell’intellettuale e dell’artista; si pensi a L’elogio della follia di Erasmo da Rotterdam, il quale sostiene con brillante senso della satira che alla demenza del mondo avido di possedere i beni terreni bisogna contrapporre una superiore “follia” fondata sulla fede cristiana che invita a perdonare i propri nemici e a donare i propri beni.

Da parte sua Ludovico Ariosto scrive il poema L’Orlando furioso, un capolavoro di fantasia e di satira che ironizza sulla figura del più grande cavaliere della cristianità, facendolo cadere preda della pazzia per amore e spedendo Astolfo a recuperare il suo senno sulla luna dove finiscono i cervelli di tutti quelli che impazziscono sulla terra. Per Ariosto il mondo cavalleresco ha un carattere fiabesco giocato tra sogno e ironia, in cui le imprese dei vari personaggi non rappresentano la ricerca impossibile della felicità, ma la vita stessa ricca d’imprevisti e di meravigliose avventure. La stessa pazzia di Orlando è vista con distacco e la sua furia non impressiona nessuno. L’intero poema è la rappresentazione di una vita multiforme e “spettacolare” che l’autore osserva con il suo sorriso scettico e indulgente.

Il capolavoro assoluto di questo secolo è il Don Chisciotte della Mancia di Cervantes, un libro che segna il passaggio definitivo dal medioevo al mondo moderno, dentro il quale si muove il protagonista sospinto dalla sua “follia” in una continua contrapposizione realtà-sogno, saggezza-follia, nobiltà-volgarità, prodezza-viltà. In questo gioco di prospettive, secondo il quale ciò che è vero per Don Chisciotte è falso per gli altri, Cervantes analizza con freddezza e ironia senza fornirci alcuna chiave interpretativa se non il definitivo tramonto del mito della cavalleria con la sua fede e i suoi valori. Non c’è nemmeno nessuna esaltazione o condanna dei tempi nuovi che stanno facendo tramontare il mondo precedente. Cervantes si limita a chiedere riguardo a Don Chisciotte “Chi è il pazzo? Lui o gli altri?”, ma lascia insolute tutte le domande. L’unica risposta che fornisce l’autore, al di là del rapporto ragione-allucinazione, saggezza-follia, è che la sola certezza per l’umanità non viene dalla ragione o dalla fede religiosa ma dall’amore, e in questa logica va collocato “l’arrendersi” di Don Chisciotte alla massa vista come un insieme di fratelli che solo nell’amore possono trovare una ragione di vita. Nel Rinascimento il tema della pazzia “compare anche nell’ordinato quadro della commedia cinquecentesca, dove è da un lato furia, dall’altro un ragionare solo in apparenza distorto, ma non privo di metodo e di verità” (Cesare Molinari, La Commedia dell’arte, Mondadori, 1985). Da parte sua la commedia dell’arte desume dal teatro medievale la figura del giullare come simbolo della follia, né fa un pezzo di bravura, una furia rappresentata sulla scena e non raccontata come nella commedia erudita.

Esemplare è considerata la commedia La pazzia di Isabella, magistralmente interpretata dall’attrice Isabella Andreini. La trama è basata sulla solita storia di amore contrastato: due uomini amano Isabella ma Fileno è ricambiato, mentre Flavio no. I due innamorati decidono di fuggire, ma Flavio riesce a sostituirsi a Fileno e a rapire Isabella. Allora Fileno impazzisce di dolore, anche se poi tutto si sistemerà nel lieto fine di rito. In questo caso l’attore, nei panni dell’Innamorato, è chiamato a interpretare un pezzo di bravura, essendo impegnato a descrivere “le fasi di passaggio da uno stato normale, anche se doloroso, a quello in cui un eccesso di passione, e quindi il nero umore della malinconia, occupano il cervello e distorcono la ragione. E questo sonno della ragione si manifesta come discorso assurdo, un discorso cioè in cui, salva restando la struttura grammaticale e sintattica, saltano invece quei nessi e quelle norme di ordine logico che presiedono alla generazione del discorso verbale” (Cesare Molinari). Da parte sua Isabella, prigioniera di Flavio, mostra una particolare forma di pazzia che si manifesta in un primo momento nella capacità di parlare diverse lingue straniere e in un secondo momento in quella di entrare di volta in volta nei panni dei vari personaggi della commedia. La follia di Isabella non è né furiosa né fissata, ma si traduce in una perdita d’identità che non consiste nel recedere di essere un altro, ma nella metamorfosi, cioè nel parlare altre lingue, nell’entrare nei vari personaggi che, in quanto maschere, sono figure che rappresentano l’umana follia.

La follia nel teatro di Shakespeare

Il più grande drammaturgo di tutti i tempi affronta per la prima volta il tema della follia in Amleto (1600-1601), la più grande tragedia di tutti i tempi, fa della follia un tema dominante che caratterizza uno straordinario personaggio il quale, insieme a Don Chisciotte, apre la strada all’uomo moderno. La figura di Amleto non è più un personaggio drammatico ma un mito polimorfico che segna la nascita dell’uomo moderno al centro di una trasformazione del mondo a tutti i livelli sociale, religioso, scientifico, politico, filosofico e letterario. L’uomo copernicano e della Riforma non può più appoggiarsi alle certezze e a quella universale armonia che avevano caratterizzato il Medioevo. In Amleto Shakespeare ha raffigurato l’uomo moderno che è solo con la propria ragione e la propria coscienza, l’uomo del dubbio che si pone continuamente delle domande, che vuole sondare, sperimentare capire personalmente. Egli non è un “eroe”, non è un uomo d’azione, ma non è un vile, è solo un uomo “pensante” dotato di grande intelligenza che si pone continuamente delle domande su che cosa è la vita e sulle sue ragioni, su che cosa è l’uomo e qual è il suo destino. L’intero dramma è pieno di domande che si fanno i vari personaggi, ma sono Amleto e Ofelia a essere travolti da questa smania di sapere, il primo destinato a precipitare nella spirale della violenza, la seconda spinta nel baratro della follia e della morte. Costretto dagli eventi a dover vendicare il padre assassinato, Amleto deve osservare la vita con i suoi misteri, le sue contraddizioni, le sue ambiguità, per cui vuole capire e rimanda continuamente l’azione.

Avvolto in questo clima di ambiguità, deve rinunciare agli studi, all’amicizia, all’amore, si chiude in una totale solitudine, dove si mescolano amore e odio, ira e disperazione, ragione e follia, per cui rimane sottile il confine che divide la sua finta e strumentale follia da un più reale turbamento della mente, avviluppato com’è in avvenimenti che distruggono il suo sogno di giovinezza e lo condurranno alla catastrofe finale. Nello stesso tempo pur nei limiti della sua natura sfuggente e nelle ambiguità della follia, Amleto rimane lucido e impegnato a cogliere il significato della vita, anche se la sua rimane una volontà debole che lo porta a non agire. La sua malinconia e la sua follia sono le facce della stessa medaglia, per cui a volte appare cupo e silenzioso, altre volte preso dalla frenesia della parola. La follia di Amleto è quella di Erasmo di Rotterdam, è quella che si rivolge ai parassiti, ai buffoni, ai clown, a tutti gli emarginati. È questa la gente con cui si schiera Amleto, per assumere anche lui la maschera del buffone, del matto: fa il pazzo come è scritto nell’Elogio della Follia di Erasmo.

E vera o falsa la pazzia di Amleto? E vero o falso il fantasma del padre? Claudio ha veramente ucciso il fratello? La Regina madre ha partecipato o no all’assassinio? Amleto indossa la maschera della follia perché essa gli consente di dire tutto quello che pensa, perché gli permette di superare tutti gli ostacoli che nascondono la verità. Tutti formulano delle ipotesi sulla causa della sua pazzia: Polonio ritiene che sia impazzito per amore; il re pensa che le ragioni siano il lutto per il padre, l’ambizione frustrata, la gelosia per la madre; la regina pensa che la malattia sia legata alla morte del padre e al suo secondo matrimonio; il dottor Freud pensa che sia stato sopraffatto da un devastante complesso edipico. Amleto gioca con tutte queste ipotesi, se ne serve per condurre il suo gioco, per dominare tutti nella sua disperata ricerca della verità e dice a Orazio “Non ti stupire se d’ora in poi mi vedrai fare il matto”, se assumerà una maschera per proteggere se stesso e i suoi piani di vendetta.

L’unico a nutrire qualche dubbio sulla sua follia è proprio Polonio, quando afferma “c’è del metodo, nella sua pazzia”, ma nello stesso tempo è convinto che egli sia un amante folle, un innamorato furioso perché respinto da sua figlia Ofelia che ha un ruolo tutto particolare nella tragedia: si lascia manipolare dal padre che la usa come esca verso Amleto e nello stesso tempo è disperata perché il principe è impazzito anche se lei ama profondamente quell’uomo stralunato e con le vesti in disordine che la fissa, la stringe a sé, la strattona, emette suoni inarticolati; in un secondo momento le dice di non amarla più, di andare a chiudersi in convento per non generare altri folli peccatori come lui. Alla delusione d’amore si aggiunge l’uccisione del padre da parte di Amleto e la giovane si spezza, la sua mente precipita nella follia. Se Amleto si è finto pazzo, Ofelia impazzisce davvero e giunge al gesto estremo del suicidio, vittima di un mondo impastato di falsità, crudeltà e violenza. Se la follia di Amleto è ambigua e inquietante, quella di Ofelia è sconvolgente, perché è lei la vittima sacrificale che paga i delitti degli altri. La giovane è oppressa dal doppio lutto dell’assassinio del padre e dell’abbandono dell’amante, è questa la verità che si apprende analizzando con attenzione la sua folle canzone, quando dice che una ragazza entra un giorno in una stanza e ne esce che “ragazza non è più”, che il suo amore l’ha portata a cedere ad Amleto, per cui ora è una giovane disonorata (“Se la fanciulla vuole,/Il giovane ci sta,/E addio verginità,/Addio pudore./ Prima ch’io mi giacessi/Con te, giurato avevi;/Lei dice, il matrimonio”). Nella follia affiora la verità e per Ofelia non resta che il suicidio, ma la sua morte diventa la chiave risolutiva della tragedia, perché spingerà il re Claudio, il fratello Laerte, la regina Gertrude e lo stesso Amleto ad abbandonare il mondo delle parole e del dubbio per passare all’azione.

Nella tragedia Macbeth (1605-1606) il protagonista, più che un mostro, è un uomo dilaniato dalla paura, dall’angoscia di vivere: a prima vista la sua sembra la tragedia dell’ambizione, le sue azioni più che dell’incarnazione del male sembrano il risultato della logica machiavellica del fine che giustifica i mezzi, per cui l’assassinio diventa la strada più breve per soddisfare le sue ambizioni alla sovranità. Ma se si guarda più in profondità, si scopre che Macbeth è tormentato dalla coscienza fino al punto che questa diventa il suo peggiore nemico, fino al punto di renderlo tragicamente umano. Egli passa di delitto in delitto tormentato da un lato dalla consapevolezza di sé e delle proprie azioni, dall’altro è inseguito dalla propria immaginazione, per cui la tragedia diventa un inno al potere anarchico e incontrollabile dell’immaginazione, che produce nella sua mente visioni, apparizioni e fantasmi e che finirà per portarlo alla perdizione: fin da giovane egli ha sofferto di una strana malattia fatta di allucinazioni per arrivare al monologo finale che sancisce la sua sconfitta di uomo. Quando sopraggiunge la notizia della morte di Lady Macbeth, egli esclama: “Sarebbe pur morta, un giorno o l’altro. Il tempo per quella parola sarebbe pur dovuto venire…domani, e domani striscia a piccoli passi, di giorno in giorno, fino all’ultima sillaba del tempo prescritto; e tutti i nostri ieri hanno illuminato a dei pazzi il cammino verso la polverosa morte. Spegniti, spegniti, breve candela! La vita non è che un’ombra in cammino; un povero attore, che s’agita e si pavoneggia per un’ora sul palcoscenico e del quale poi non si sa più nulla. È un racconto narrato da un idiota, pieno di strepito e di furore, e senza alcun significato”.

Meno strisciante e più tragica è la follia che sconvolge l’ultima fase della vita di Lady Macbeth: animata da un’ambizione soffocante e da una gelida crudeltà invoca su di sé le forze del male fino a snaturare la sua natura di donna, a farne un essere feroce e assetato di sangue, impazzire, per aggirarsi come una sonnambula cercando di cancellare il sangue che crede stia macchiando le sue mani fino a trovare la morte. La psicologia morale, con la sua mescolanza di passione, immaginazione e coscienza, è un attributo umano misterioso e imprevedibile con cui si scherza a proprio rischio e pericolo.

Lady Macbeth è stata l’ispiratrice di ogni azione del marito con feroce ostinazione e lucida determinazione, ma dopo il terzo atto scompare dalla scena, per ritornare come un fantasma guardato a vista da una dama di compagnia e da un medico. Si muove come una sonnambula, tanto che il suo dottore dice: “E’ un grande perturbamento della natura ricevere insieme i benefici del sonno e compiere gli atti della veglia”. La regina ha scambiato la notte per il giorno e si aggira per il castello aggrappata alla flebile luce di una candela, con la mente ottenebrata da ricordi mostruosi, è una larva “addormentata”, perché i suoi occhi sempre aperti non vedono la realtà circostante ma solo i fantasmi del passato che finiranno per distruggerla.

Il tema della follia ritorna pressante nel Re Lear (1605-1606), storia di questo vecchio stanco di governare lo Stato, per cui decide di dividerlo in tre parti per assegnarlo alle sue figlie Gonerilla, Regana e Cordelia; in cambio pretende una dichiarazione di amore assoluto e il diritto di essere ospitato a turno nei loro castelli. Le prime due manifestano ipocritamente il loro amore filiale, mentre Cordelia dichiara lealmente di provare affetto verso il padre ma di indirizzare il proprio amore verso altre persone. Lear è un pessimo soggetto: arrogante, irascibile, sordo alle opinioni altrui, vanesio e insensibile; ripudia Cordelia e assegna il regno alle altre due figlie, ma ben presto dovrà accorgersi della vera natura delle due donne che lo scacciano dalle loro dimore e lo costringono a vivere come un mendicante. Per Lear si tratta di un brusco risveglio quando scopre che la figlia sincera e devota è Cordelia, ma questa scoperta si accompagna alla perdita delle facoltà cognitive, perché Lear impazzisce ed è terribilmente spaventato dalla pazzia: “Oh, non fatemi impazzire! Ch’io non diventi pazzo cieli pietosi! Conservatemi la mia ragione. Non voglio diventare pazzo!”. Tuttavia, una volta che la pazzia si è impossessata di lui, Lear vede le cose in modo più chiaro, acquista una visione più limpida della realtà, tanto che un personaggio afferma che in lui vi è “una mistura di buon senso e di delirio: e quanta ragione, pur in mezzo alla follia!”.

Nel momento di maggiore sconvolgimento della mente, Lear acquista una maggiore capacità di discernimento e di giudizio. Accompagnato dal suo fedele buffone (simbolo anch’esso della follia), Lear attraversa la complicatissima trama della tragedia. La malvagità delle due figlie maggiori e il dolore gli fanno perdere la ragione, ma gli fanno acquistare l’umiltà per capire la condizione dei poveri e degli emarginati. Quando Cordelia accoglie il padre sofferente, egli implora il suo perdono e gli fa dire di essere un “povero vecchio stupido”, al quale i patimenti e le umiliazioni hanno fatto comprendere che l’amore non è qualcosa che si pretende, ma qualcosa che si deve meritare per diventare ancora di salvezza. È un finale grandioso suggellato dalla morte sacrificale dell’innocente

Cordelia uccisa dalle trame delle crudeli sorelle, per cui il vecchio re muore di dolore, ma a loro volta esse sono condannate alla dannazione: Gonerilla avvelena Regana e quindi si toglie la vita.

Esempi di follia nel teatro dell’Ottocento

In pieno Romanticismo si afferma la personalità di Georg Buchner (1813-1837) appartenente a una dinastia di medici e medico lui stesso, giovanissimo docente di anatomia a Zurigo, dove muore per un improvviso attacco di febbre tifoidea. Egli ha lasciato alcune opere fondamentali per il teatro come La morte di Danton e Leonce und Lena, nonché questo Woyzek (1836) considerato un capolavoro assoluto riguardante il tema della follia e della medicina psichiatrica. Johan Christian Woyzek viene accusato dell’omicidio dell’amante e l’autorità giudiziaria chiama in causa il professor Clarus per trovare la verità con gli strumenti della scienza psichiatrica. Il medico, nonostante i sintomi che potevano indurre a dubitare della salute mentale dell’imputato, lo ritiene capace d’intendere e di volere, per cui va affidato alla giustizia penale, dato che il suo delitto è la conseguenza di una vita “instabile, dissipata, indifferente e oziosa” che lo ha condotto a escludersi dalla comunità di coloro che godono “dei benefici di una religione comune, di un governo benefico e tollerante” e dei “privilegi e vantaggi” dello Stato prussiano. Il giovane medico Buchner affronta con la forza dell’immaginazione la vicenda dell’omicida Woyzeck, un individuo disperato vittima della violenza di un sistema sociale e politico, per cui la questione centrale della salute mentale e della responsabilità giuridica dell’assassino passa in secondo piano rispetto alla responsabilità morale dei rappresentanti del potere. Lo stesso psichiatra, esponente della “medicina razionale”, compie un’azione manipolatoria sul soggetto a lui affidato, non riesce a spiegarsi la coesistenza nella stessa persona di comportamenti ragionevoli e di atti di follia, per cui la sua unica preoccupazione è quella di minimizzare i sintomi della follia, rifugiandosi nella terminologia moralistica o religiosa per giudicare Woyzeck un uomo sano di mente ma corrotto dalle passioni. Eppure in quel periodo la psichiatria stava studiando l’ipotesi di una follia transitoria e parziale, mentre in Francia si erano sviluppate la teoria di Pinel sulla “follia senza delirio” e quella di Esquirol sulla “monomania”. Georget, un discepolo di Esquirol, parla di “monstres raisonnables” che possono commettere crimini atroci senza “motivazioni visibili”, perché affetti da “monomania omicida” che lo psichiatra definisce “un delirio parziale, compatibile con il mantenimento delle facoltà razionali e definito dallo sconvolgimento totale della volontà, dalla perdita definitiva della libertà morale”, ma probabilmente queste teorie erano sconosciute o non erano condivise dal prof. Clarus. Buchner si schiera dalla parte dell’indifeso Woyzech contro i rappresentanti del potere, decisi a difendere le loro posizioni culturali, sociali e morali. L’autore mette in evidenza come i fattori che hanno portato alla distruzione della personalità del soggetto sono la povertà, il lavoro alienato, il servizio militare, l’indottrinazione e l’umiliazione sessuale, la procedura penale e la psichiatria del momento. Al centro della scena c’è un uomo che è la vittima passiva di un attacco concentrico, una “pattumiera” in cui gli altri riversano la loro immondizia, uno specchio inquietante che riflette in modo terribile la società del momento. Capolavoro del teatro naturalistico è il dramma Spettri di Ibsen (1882), che ha come protagonista Helene Alving, la madre del giovane Osvald sacrifica la sua vita per vivere accanto a questo figlio che ha ricevuto dal padre la triste eredità della sifilide ed è destinato a una demenza irreversibile. Nel finale Osvald, ormai prostrato, strappa alla madre la promessa di somministrargli la morfina; la donna prima si rifiuta, ma quando decide di esaudire la richiesta del figlio si trova davanti un essere umano ormai travolto dalla pazzia.

Ibsen mette in scena temi per quei tempi considerati tabù (una malattia innominabile come la sifilide, un possibile incesto di Osvald con la sorellastra Regine, l’alcolismo, l’eutanasia), per cui il dramma viene considerato dagli ambienti conservatori “schifoso e fetido”, una “cloaca scoperta”, una “grossolana, quasi putrida indecenza”. Esso piace invece al pubblico progressista ed Emile Zola afferma che il dramma ha “la cupa grandezza della tragedia greca” e nello stesso tempo esso è un capolavoro del teatro psicologico e del dramma di idee.

Il tema della pazzia entra a pieno titolo anche nel teatro popolare napoletano quando Eduardo Scarpetta scrive alle soglie del nuovo secolo ‘O miedico d’e pazze (1908), forse la sua commedia migliore, che ha ancora come protagonista Felice Sciosciammocca questa volta alle prese con il nipote Ciccillo, indisciplinato studente di medicina che, quando lo zio arriva a Napoli, gli fa credere che la pensione dove abita sia una clinica per malati di mente, dove egli esercita le funzioni di primario. Da qui nasce tutta una serie di equivoci e di situazioni comiche che riflettono, attraverso lo specchio della finta follia, valori e sentimenti, pregiudizi e stereotipi comunemente accettati nella vita quotidiana.

Esempi di follia nel teatro contemporaneo

Non poteva essere che il genio di Pirandello ad affrontare in varie opere teatrali il tema della follia a cominciare da Il berretto a sonagli (1917) dove affronta in apparenza il classico triangolo del teatro borghese (marito, moglie, amante), ma in realtà il protagonista assoluto è lo scrivano Ciampa in cui si concentra la tensione drammatica di un personaggio sdoppiato in due dimensioni: quella della vita privata e quella delle relazioni sociali. Celebre è la sua “tirata” sulle tre corde che regolano il funzionamento del nostro cervello: la corda civile che serve per vivere in società, la corda seria che serve per ragionare e sistemare le cose della vita, infine la corda pazza che fa perdere la vista degli occhi e fa compiere le azioni più strampalate. Quando il tradimento della moglie di Ciampa con il suo datore di lavoro diventa palese e i due vengono arrestati, per salvare l’onorabilità e il rispetto di tutti Ciampa propone che la signora Beatrice, che ha denunciato i due amanti passi per pazza (deve indossare il berretto dei pazzi che indica la follia) e si lasci rinchiudere per qualche tempo in manicomio. Quando tutta la famiglia accetta questa soluzione, la donna precipita in una crisi isterica che fa credere a se stessa e agli altri di essere veramente pazza.

Il dramma Così è se vi pare (1918) apre la stagione del suo grande teatro all’insegna della follia, infatti i due protagonisti, la signora Frola e il signor Ponza, sono persuasi che ognuno di loro sia pazzo: quando ragiona la signora Frola appare pazzo il genero, quando è questi a ragionare allora pazza appare la donna. Il personaggio di Laudisi (che rappresenta l’autore) si chiede “Chi dei due è pazzo?” e “Non potete dirlo voi come nessuno…perché i dati di fatto che andate cercando…sono stati annullati in sé, nell’animo loro…creando lei a lui, o lui a lei, un fantasma che la stessa consistenza della realtà, dove essi vivono ormai in perfetto accordo, pacificati”. Dunque la verità è soltanto quella che noi percepiamo in determinati momenti, sotto la spinta di impressioni personali, di suggestioni e di stati d’animo, per cui siamo portati a credere che essa sia effettivamente la verità.

Nasce così il “pirandellismo” che avrà la sua massima espressione nei Sei personaggi in cerca d’autore e sfocerà nell’altro capolavoro Enrico IV (1921), storia di un giovane aristocratico che cade da cavallo e che per dodici anni perde la ragione e si crede l’imperatore Enrico IV. L’uomo, anche quando guarisce, finge per altri otto anni di essere pazzo, irridendo la sua finta corte di dignitari e i suoi visitatori, fino a quando il gioco viene svelato ed egli uccide il nemico che lo ha fatto cadere da cavallo per uno scherzo, scegliendo per sempre la condizione della follia. È questa la tragedia di una lucida pazzia, la tragedia di un’umanità offesa e tradita, la tragedia di un uomo intelligente che è respinto da una società corrotta e ipocrita, per cui accetta questo esilio imposto ritenendolo migliore della realtà che lo circonda. Non ha tanta importanza la follia del personaggio vissuta come malattia, quanto la follia vissuta come sua libera scelta che sfocia nella vendetta, in una consapevole follia di espiazione che non avrà il conforto della speranza perché destinata a durare per sempre. Enrico IV è il personaggio pirandelliano più complesso (qualcuno lo ha paragonato ad Amleto) che vive lo sdoppiamento della personalità, che indossa la maschera che gli altri gli hanno imposto, che vive un costante conflitto tra passato e presente, tra l’attimo fuggente e la voglia di imprigionarlo.

Eduardo De Filippo, agli inizi della sua carriera di commediografo, affronta il tema della follia sulla scia della tradizione legata al migliore teatro napoletano. Nella commedia Uomo e galantuomo (1922), ambientata in un albergo napoletano che ospita una povera compagnia di guitti scritturata da Alberto; questi ha una relazione con Bice e, quando apprende che la donna è incinta, decide di sposarla, ma scopre che è già la moglie del conte Carlo, il quale venuto a conoscenza della relazione, gli chiede delle spiegazioni. Per salvare l’onore dell’amante, Alberto si finge pazzo e viene arrestato per essere portato in manicomio. Bice, per giustificare la sua relazione, rivela alla polizia che si è voluta vendicare dei tradimenti del marito e a quel punto, per salvarsi dall’accusa di adulterio, anche il conte si finge pazzo. Infine Gennaro, il capocomico della compagnia, si finge a sua volta pazzo per non pagare il conto dell’albergo. Nella commedia, che ha un’andatura farsesca, vi è una critica alle convenzioni sociali, al moralismo che giudica in modo diverso il comportamento dell’uomo e della donna. In questo contesto il tema della finta follia è un espediente di natura comica, una metafora della condizione dell’uomo per sfuggire alla miseria e alla debolezza della natura umana.

Il motivo della pazzia è ripreso nella commedia Ditegli sempre di sì (1927), ma questa volta è la reale condizione del protagonista Michele, dimesso dopo un anno di manicomio da uno psichiatra fiducioso nelle sue capacità di recupero. Michele è un pazzo tranquillo, socievole, cortese, all’apparenza un uomo normale. In realtà la sua è una follia sottile, perché lo porta a confondere i suoi pensieri con la realtà fino a essere troppo coerente e razionale, per diventare poi pericoloso per chi osa contraddirlo. Siamo di fronte a una “follia della comicità” che porta il protagonista a inventarsi una realtà fittizia e a costringere gli altri in qualche modo a subirla. L’umorismo un po’ amaro di Eduardo arriva alla conclusione che i veri pazzi sono liberi fuori, mentre i normali dovrebbero essere rinchiusi, perché il mondo reale è il vero manicomio.

Nel secondo dopoguerra riscuote un vasto successo la commedia La pazza di Chaillot di Jean Giraudoux (1945). L’opera inizia con alcuni uomini di affari che hanno scoperto l’esistenza del petrolio nel sottosuolo di Parigi e decidono di far saltare in aria la città. Aurelia la pazza di Chaillot, appresa la notizia, decide di ucciderli tutti convocandoli in un sotterraneo senza uscita, dove sono giudicati e condannati a morte da un tribunale formato da Aurelia e dalle pazze di Passy, di Saint-Sulpice e della Concorde. La morte degli speculatori salverà Parigi dalla distruzione. La commedia si basa sul contrasto tra i signori del mondo affamati di denaro e il popolo dei derelitti e dei mendicanti che hanno la loro regina nella pazza di Chaillot, la quale li condurrà alla vittoria, perché solo una folle può credere ancora in un mondo dominato dalla legge dell’amore e del disinteresse.

Tutto il teatro dell’assurdo (Beckett, Jonesco, Genet) è percorso da una vena di sotterranea follia che esplode e sale in superficie nella commedia I fisici di Friedrich Durrenmatt (1962), la quale si svolge in una clinica per malati mentale, dove due fisici, che si credono Einstein e Newton, hanno ucciso due infermiere, ma la polizia è costretta ad archiviare i casi per manifesta pazzia degli esecutori. Moebius, un terzo fisico che si crede il re Salomone, è innamorato di una infermiera che vorrebbe sposarlo, ma è spinto a ucciderla. Gli altri due fisici rivelano a Moebius di essere dei finti pazzi che si sono fatti ricoverare per scoprire i motivi della sua pazzia; anche Moebius dice di essere un finto pazzo che si finge tale per custodire il segreto di una sua scoperta che potrebbe costituire un gravissimo pericolo per l’umanità. Il primo fisico cerca di carpirgli il segreto della scoperta per darla a una grande potenza per cui lavora, mentre il secondo fisico vorrebbe venderla al migliore offerente. La vera pazza è la direttrice della clinica che è entrata in possesso della scoperta ed ha costruito una enorme fabbrica per sfruttarla, mentre ha spinto i tre fisici a uccidere le infermiere per farne dei pazzi assassini. Ad Einstein, Newton e Moebius non resta che rimanere chiusi nella clinica in preda alla loro lucida e non più simulata follia. Questa commedia ricca di colpi di scena è forse il capolavoro del suo autore e nasconde dietro l’intreccio delle finte pazzie il tema degli armamenti nucleari, ricordando che l’unica vera pazzia è quella celata dietro l’apparenza di una insospettabile sanità mentale.

Un capolavoro del teatro nel teatro è considerato il dramma La persecuzione e l’assassinio di Jean-Paul Marat, rappresentati dai filodrammatici di Charenton, sotto la guida del Marchese De Sade di Peter Weiss (1964). Con questa opera l’autore inizia una ricerca storica sul potere e sulla sua incontenibile violenza e prende spunto dall’iniziativa del Marchese De Sade di far rappresentare un suo dramma sulla morte di Marat dai malati di mente ricoverati nel manicomio di Charenton. Il dramma vede contrapposte le personalità e le filosofie di Marat e Sade, ma anche le due epoche contrapposte della rivoluzione francese e della restaurazione, per cui è aperto a più interpretazioni: Marat può essere visto come un eroico rivoluzionario o come pazzo sanguinario; Sade può essere considerato un aristocratico pazzo e pervertito, oppure un saggio che ha scoperto l’inutilità delle rivoluzioni. Un motivo di ulteriore straniamento dell’opera è dato dal fatto che a interpretarla sono dei pazzi continuamente assistiti da suore e inservienti.

L’ultimo arrivato è il giovane commediografo Ascanio Celestini con il suo teatro della parola ironico e affabulatorio. Nel 2006 egli ha scritto e rappresentato La pecora nera. Elogio funebre del manicomio elettrico che ha come protagonisti dei malati di mente numerati da uno a cinque, i quali raccontano la loro storia personale e le loro esperienze di malati all’interno del manicomio. Si tratta di un viaggio attraverso il mondo della follia, analizzato con poesia, comicità e disperazione in una perfetta mescolanza di comico e di tragico.

Bibliografia essenziale

  • Gaetano Munafò, Conoscere Pirandello, Le Monnier, 1981
  • Giovanni Antonucci, Eduardo De Filippo, Le Monnier, 1981
  • Fiorenza Di Franco, Le commedie di Eduardo, Laterza, 1984
  • Fabrizio Cruciani-Daniele Seragnoli (a cura di), Il teatro italiano del Rinascimento, Il Mulino, 1987
  • Oscar G. Brockett, Storia del teatro, Marsilio, 1988
  • Marvin Carlsoin, Teorie del teatro. Panorama storico critico, Il Mulino, 1988
  • Glynne Wickam, Storia del teatro, Il Mulino, 1988
  • Johann Drumbl (a cura di), Il teatro medioevale, Il Mulino, 1989
  • Alessandro Tinteri (a cura di), Il teatro italiano dal Naturalismo a Pirandello, Il Mulini, 1990
  • Giovanne Querci, Pirandello: l’inconsistenza dell’oggettività, Laterza, 1992
  • Roberto Alonge, Luigi Pirandello. Il teatro del XX secolo, Laterza, 1997
  • Roberto Alonge-Guido Davico Bonino (a cura di), Storia del teatro moderno e contemporaneo, quattro volumi, Einaudi, 2000/2003
Questa voce è stata pubblicata in Senza categoria. Contrassegna il permalink.