La cura tra arte e scienza

Maurizio Mercuri
Corso di Laurea in Infermieristica
Facoltà di Medicina e Chirurgia, Università Politecnica delle Marche

Giovanni di Salisbury (1120-1180) nel Metalogicus III, 4 riporta le parole di Bernardo di Chartres (fine sec. XI – 1126 o 1130), grande ammiratore degli autori del passato: “Noi siamo, rispetto agli antichi, come nani sulle spalle dei giganti: possiamo vedere più in là di essi solo perché possiamo sollevarci alla loro altezza”.[1] Nel nostro mestiere non c’è mai per alcuna questione la prima e l’ultima parola, ma un rapporto dialettico che viene da lontano e prosegue senza interruzione. Come ricorda Marsilio dei Manardini, meglio conosciuto come Marsilio da Padova (1275-1342), filosofo averroista e medico, rettore dell’Università di Parigi, teorico dello Stato moderno, riprendendo da Aristotele “Nessuno può infatti scoprire da solo la maggior parte delle arti pratiche e di pensiero, ossia speculative, poiché ciò non si realizza se non con l’aiuto di chi viene prima a chi viene dopo… E dunque è con la collaborazione reciproca degli uomini e il sommarsi di nuove scoperte a scoperte precedenti che tutte le arti e le discipline sono state perfezionate”.[2] Questa citazione riportata dal Defensor Pacis del grande umanista trecentesco anticipa di molto la famosa frase di Albert Einstein (1879-1955): “Cento volte al giorno ricordo a me stesso che la mia vita interiore ed esteriore sono basate sulle fatiche di altri uomini, vivi e morti, e che io devo fare il massimo sforzo per dare nella stessa misura in cui ho ricevuto”[3], che aggiunge al contenuto una connotazione morale: dare nella stessa misura in cui si è ricevuto dalla cooperazione degli altri esseri umani.

Fig. 1 – Gustav Klimt, Filosofia, olio su tela, 430 x 300 cm, 1900, Mostra della Secessione, distrutta nel 1945 per incendio del Castello di Immendorf.

L’idea che guida ogni professionista sanitario è quella della cura. Viene trasformata in disciplina, scienza ed etica, sebbene sia essenziale all’ente uomo già dai primi giorni della sua esistenza. Ma in cosa consiste questa idea di cura? Come è giunta alla coscienza umana? Che senso ha questa parola oggi? Che contributo danno le discipline studiate in una Facoltà di Medicina e Chirurgia allo sviluppo del pensiero umano e alla civiltà e ai singoli individui?

Se provassimo ad interpretare le tendenze attuali delle discipline mediche e di cura, non potremmo non constatare una riconosciuta perdita del ruolo sociale del medico, considerato sempre più come un tecnico e sempre meno come persona a cui affidare le proprie sofferenze.[4] E l’abilità tecnologica acquisita dovrebbe contribuire a fare risparmiare tempo al medico in modo da poter dedicare maggiori energie al contatto umano col paziente e i suoi familiari, ma accade sovente che il sempre maggiore avvicinamento del medico alla realtà fisiopatologica della malattia, attraverso diagnosi e terapie sempre più perfezionate, comporti, quasi per meccanica conseguenza causa-effetto, un suo sempre maggiore allontanamento dalla realtà antropologica del malato. Le tecniche diagnostiche e terapeutiche, anziché funzionare da trait d’union, interferiscono nel rapporto medico-paziente come una sorta di diaframma separatore o distanziatore; il che ha riscontro in un interessamento medico che, talora o sovente, si fa maggiore o massimo per l’oggetto organismo e minore e minimo per il soggetto persona.[5] Michel Foucault (1926-1984) dichiarò che “per conoscere la verità del fatto patologico, il medico deve astrarre dal malato (…) paradossalmente, il paziente non è, rispetto a ciò di cui soffre, che un fatto esteriore; la lettura medica non deve prenderli in considerazione che per metterlo tra parentesi”.[6] Il corpo stesso acquisisce un significato diverso nello studio anatomico rispetto a ciò che era acquisito nelle pratiche relazionali e sociali. Concentrandosi in uno sguardo “stupito, emozionato ed estetico” nelle profondità microscopiche cellulare, molecolare e genetica, si perde la “tridimensionalità” dell’individuo. E, processo storico incongruo, mentre il professionista medico perde credito sociale in proporzione al suo incrementare di competenze tecniche e diminuire dell’interesse a prendersi cura, la medicina ha ampliato il suo spazio teorico ed operativo ed interviene in maniera totalizzante in processi, quali l’inizio ed il termine della vita, che finora erano pertinenza di altre discipline, che spesso trovano voce in riflessioni e dichiarazioni di bioetica. E’ necessario richiamare la medicina, ma non guasta un sollecito anche all’infermieristica, come professioni di cura, alla vera natura dell’impianto disciplinare medico-sanitario: la medicina vera è filotecnica, ma soprattutto filantropica.[7] Così le altre professioni sanitarie. E la medicina è essenzialmente una “scienza filosofica”.[8] Basti pensare intuitivamente all’immagine statuaria di Igea, nell’opera di allegoria pittorica “Medicina” o a quella deità più grande, ma dai contorni meno definiti e nitidi della “Filosofia” di Gustav Klimt (1872-1918) (Commissionate entrambe dal Ministero per l’Istruzione austrico per l’Aula Magna dell’Ateneo Viennese, dipinte nel 1900 e andate distrutte dai bombardamenti del 1945): entrambe le dee si vedono sfilare accanto le vittime umane nel trascorrere del tempo, che mai si ferma, e per le avversità che colpiscono l’integrità dei processi vitali, dalla nascita sino alla vecchiaia, senza risparmiare alcuno (il tema sarà ripreso da Klimt nell’opera del 1902 “L’ostilità delle forze avverse” nella rappresentazione bestiale, anoressica e antropomorfa della Malattia, della Follia e della Morte attratte da una forza segreta verso le tre figlie del gigante Tifeo, le Gorgoni, dalla Lussuria, dall’Impudicizia e dall’Intemperanza, nel Fregio di Beethoven del 1902).

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Fig. 2 – Gustav Klimt, Hygieia (dettaglio di Medicina), olio su tela, 430 x 300 cm, 1900, Mostra della Secessione, distrutta nel 1945 per incendio del Castello di Immendorf.

Eppure la medicina (in tutte le sue espressioni professionali) è la scienza filantropica di più lunga storia: “la medicina è la scienza umana per eccellenza perché attraversa i territori della sofferenza, perché entra negli snodi delle scelte cruciali e fronteggia il massimo dell’inesprimibile: la morte e la paura dell’uomo. Ecco perché parlare di malattie e di cura vuol dire inscrivere il discorso in un orizzonte di senso, quindi filosofico”.[9] Qui si ritrovano le sue radici di scienza del curare complementare a tutte le scienze, ugualmente prescrittive, del prendersi cura. Il curare e il prendersi cura devono guardare nel fondo dell’orrido dell’esistenza che desta meraviglia, basti questa citazione da Virginia Woolf (1882-1941): “Alle grandi guerre che il corpo, servito dalla mente, muove, nella solitudine della camera da letto, contro gli assalti della febbre o l’avvicinarsi della malinconia, nessuno bada. Non ci vuole molto a capire perché. Guardare simili cose in faccia richiede il coraggio di un domatore di leoni; una vigorosa filosofia; una ragione radicata nelle viscere della terra”.[10] Ma non ce ne rendiamo conto, nella naturalezza e giovinezza del nostro prenderci cura dei fragili e sofferenti.

La malattia, la sofferenza del corpo o della psiche, trasformano la persona, rallentano i movimenti, riducono le aspettative, restringono gli orizzonti. Come scrisse Leder a proposito dell’esperienza di salute e malattia: “Il corpo non è soltanto qualcosa che io possiedo, ma una parte inscindibile di ciò che io sono; è il fondamento di tutte le mie interazioni con l’ambiente. Quando mi ammalo, questo corpo diviene qualche cosa di estraneo. Diviene ciò che mi causa sofferenza, limitando i miei movimenti, umiliandomi, con un aspetto o un odore sgradevoli. Allora comprendo quanto io sia strettamente legato alla carne. Nello stesso tempo, questa carne che io sono, sembra anche ciò che io non sono, “l’altro”, capace di ostacolarmi e contrastarmi in un modo che quand’ero sano mai aveva mostrato. Questa esperienza, rappresenta una dura prova per il senso comune di autonomia personale. La persona malata può non comprendere né controllare cosa succede dentro il suo corpo, benché da questo dipenda la sua vita. Il rapporto col proprio corpo finisce con l’essere mediato dagli altri: il medico che fa la sua diagnosi e ne informa la persona malata; il chirurgo che lo apre,

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Fig. 3 – Max Klinger, Plague (Pest) (plate 5) for the portfolio On Death, Part II, Opus XIII (Vom Tode, Zweiter Teil, Opus XIII), incisione 58.5 x 42.5 cm, pubblicato per Verbindung für historische Kunst, Amsler & Ruthardt, Berlin, 1904

esaminando organi che il paziente non ha mai visto”.[11] Il rapporto col proprio corpo, la cura di sé e la gestione del tempo risulta mediata da altri. Un approfondimento di quel che la persona malata cede lo riscontriamo nella ricerca psicologico-fenomenologica di Toombs, che esplora le cinque dimensioni esistenziali caratteristiche del vissuto di malattia: la “perdita di integrità ”, di unità di sé col corpo, che diviene ostacolo all’agire irriflesso e spontaneo; la “perdita di certezza ”, come perdita di stabilità di stato e di fiducia nelle proprie capacità; la “perdita di controllo ”, nei confronti del mondo-ambiente, fino a dover dipendere da altri anche per attività banali; la “perdita della libertà di agire ”, per la impossibilità a prendere decisioni razionali in carenza di competenze sufficienti; la “perdita del mondo familiare ”, nell’ospedalizzazione e nella perdita dei tempi e ritmi propri quotidiani. Toombs inoltre enfatizzerebbe l’importanza del racconto clinico, che supera l’indagine sui sintomi e la formulazione della diagnosi per diventare tramite d’incontro degli orizzonti di senso tra medico e paziente sul vissuto soggettivo e sulla sofferenza che il paziente vive. Il vissuto di sofferenza, irraggiungibile allo sguardo medicalizzato, è recuperato solo nella sfera del senso e in quella della libertà.[12] Il corpo malato sperimenta precarietà e inessenzialità, alterazioni spazio-temporali (il tempo collassa, il linguaggio interpretante si destruttura) e di relazione, colpa e responsabilità del vissuto, in stretto legame simbolico con la società d’appartenenza.[13] Questo legame è spesso anche biologico, oltre che culturale. Si pensi agli studi di Panksepp, sui fondamenti delle emozioni umane ed animali. Egli distinse le affettività sui sistemi dedotti dalle neuroscienze. Il sistema della ricerca, quello della paura, quello agonistico, fanno ancora parte del cervello rettiliano, la parte più antica del cervello umano, che sottende alla interazioni non sociali. Il sistema del gioco è di preludio ai sistemi motivazionali. Il sistema della dominanza sociale, quello della espressione sessuale, il sistema condotto dal panico e quello orientato alla cura del simile costituiscono i sistemi che regolano le relazioni sociali fino alla costruzione di un mondo umano cooperativo.[14] La teoria dei sistemi motivazionali interpersonali è stata a lungo studiata da Liotti, riprendendo autori a sé precedenti.[15] Egli descrisse i sistemi motivazionali come: sistema di attaccamento alle figure di riferimento (Bowlby, 1969); di accudimento (George, Solomon, 1999); agonistico (Gilbert, 1989); sessuale (Fisher, 1992); di cooperazione paritetica (DeWall 2001, Tomasello, 1999) e di gioco sociale (Panksepp, 1998, Bateson, 1955). La cura quindi ha una sua prima matrice biologica, diffusa a livello animale, evolutasi poi con le specie più complesse, al pari dell’evoluzione interpersonale della coscienza.

  1. John of Salisbury, Metalogicon, traduzione inglese di J.B. Hall, Corpus Christianorum in Translation (CCT 12), Turnhout, Brepols, 2013.
  2. Marsilio da Padova, Defensor Pacis, a cura di Conetti M, Fiocchi C, Radice S e Simonetta S, BUR, Milano 2001, cit. in Benedek G, Prefazione a Bottani C. E, Il Mestiere della Scienza. La ricerca scientifica fra artigianato e Big Science, Franco Angeli, Milano, p. 11.
  3. Einstein A, Il significato della relatività. Il mondo come io lo vedo, tr. it. di Vinassa de Regny E, Mauro W, Roma, Newton Compton Editori, 2015, p. 163.
  4. Marino I, La comunicazione tra il medico e il paziente: dialogo tra sordi, in Minerva D, Sturloni G (a cura di), Di cosa parliamo quando parliamo di medicina, Codice Edizioni, Torino 2007, p. 56.
  5. Cosmacini G, Prima lezione di medicina, Laterza, Roma-Bari, 2009, p. 17.
  6. Foucault M, Nascita della clinica. Una archeologia dello sguardo medico, tr. it. di A. Fontana, Einaudi, Torino 1998, p. 20.
  7. Laín Entralgo P, Il Medico e il Malato, tr. it. di A. Savignano, Apèiron, Bologna 1999, p. 28.
  8. Voltaggio F. La medicina come scienza filosofica, Laterza, Roma-Bari, 1998.
  9. Veronesi U, Pappagallo M, Una carezza per guarire. La nuova medicina tra scienza e coscienza, Sperling & Kupfer Editori, Milano 2004, risvolto di copertina.
  10. Woolf V, Sulla malattia, Bollati Boringhieri, Torino 2006, pp. 8-9.
  11. Leder D, The experience of Health and Illness, in AA. VV. Health and Disease, in Reich WT (ed.), Encyclopedia of Bioethics, McMillan, New York 1995, pp. 1084-113: 1108.
  12. Toombs SK, The temporality of illness: Four levels of experience, “Theoretical Medicine “, 11 (1990), pp. 227-241. Cfr. anche Scheler M, Il senso sella sofferenza, in Il dolore, la morte, l’immortalità, tr. it. di F. Biasutti, Elle Di Ci – Leumann, Torino 1983, pp. 35-74.
  13. Scarry E, La sofferenza del corpo, tr. it. di G. Bettini, Il Mulino, Bologna 1990, pp. 19-20, 45, 87.
  14. Panksepp J, Affective Neuroscience: The Foundation of Human and Animal Emotions, Oxford University Press, Oxford 1998.
  15. Liotti G, La dimensione interpersonale della coscienza, Carocci Editore, Roma 2005, pp. 229-50.
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