Alcuni casi di pregiudizi e stereotipi presenti nella società contemporanea

Alberto Pellegrino
Sociologo

Pregiudizi e stereotipi sono legati al processo di formazione dell’identità personale e sono collegati alla identità sociale che si forma con il processo di socializzazione. Alcuni dei tanti casi presenti nella società contemporanea sono costituiti dai caratteri nazionali attribuiti a individui e gruppi sulla base di scarse imprecise informazioni, senza approfondimenti e razionalizzazioni sulle caratteristiche di un popolo. Ugualmente negativi sono gli atteggiamenti nei confronti delle disabilità fisiche e mentali, della tossicodipendenza e dell’omofobia. Particolarmente gravi sono il razzismo e la xenofobia, fenomeni di odio e di rifiuto che si possono commentare con il Discorso della Montagna (Matteo, 5, 7-10; 7, 1-2/12): “Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia. Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio. Beati i perseguitati a causa della giustizia, perché di essi è il regno dei cieli…Non giudicate, così non sarete giudicati. Infatti con il giudizio con cui giudicate sarete giudicati…Quanto dunque desiderate che gli uomini vi facciano, fatelo anche voi ad essi”.

Liberi ed EgualiNel riprendere il discorso su pregiudizi e stereotipi è bene ricordare che essi derivano da speciali processi psicologici, tra i quali ha una particolare importanza il processo di formazione dell’identità, che rappresenta uno dei principali criteri per capire come un individuo pensa e agisce, perché si basa sull’idea che ogni individuo ha di se stesso, l’immagine che ha della sua storia personale e del proprio posto nel mondo, delle proprie capacità e aspettative future. La natura di pregiudizi e stereotipi è pertanto legata ai percorsi che l’individuo compie durante la sua vita, ai processi di funzionamento della mente, alle strutture della personalità e alle motivazioni individuali che guidano le sue azioni.

Pregiudizi e stereotipi, sotto il profilo sociologico, sono collegati a un’identità sociale che si forma nel corso del processo di socializzazione, durante il quale ogni individuo si confronta con altri soggetti e imparare a valutare se stesso in relazione con singole persone o con altri individui raggruppati in categorie sociali. Dalla conoscenza del mondo sociale ogni individuo ricava una serie di informazioni sugli altri e su se stesso, costruendo gran parte dell’immagine di sé attraverso l’immagine del gruppo di appartenenza e attraverso la percezione che ha degli altri gruppi, fino a comprendere come sia composta l’intera società. Man mano che si forma la propria identità personale e l’appartenenza a una società, nasce l’autostima che l’individuo ha di sé, ma quando si ha un eccesso di autostima, si finisce per attribuire i successi solo alle proprie qualità personali e gli insuccessi a cause esterne e non a propri demeriti. In questi casi l’individuo è portato a frequentare soprattutto le persone dalle quali può avere una conferma delle proprie idee e della propria immagine, a stabilire un confronto con le persone dalle quali ottiene un giudizio positivo, a rifiutare un confronto con persone che hanno idee diverse e una diversa cultura.

I caratteri nazionali

Esistono determinati stereotipi e pregiudizi che si basano sulla rilevanza data ai caratteri nazionali di gruppi che presentano una sufficiente omogeneità sotto il profilo delle attitudini e dei valori, dei modelli culturali e di comportamento, per cui si attribuiscono a una nazione dei caratteri specifici che nascono da un comune patrimonio culturale e da determinati tratti psicologici. Si tratta di caratteri fondati su sommarie descrizioni delle singole nazionalità, sulla base di credenze e di caratteristiche particolari estese a un’intera nazione che possono condurre a valutazioni semplificate, a volte rozze nei confronti di appartenenti a un’altra nazione.

Pregiudizi e stereotipi basati su caratteristiche considerate tipiche di un gruppo nazionale possono servire per orientare in un primo momento i propri comportamenti in mancanza di informazioni più precise. Esiste però un confine tra uno stereotipo utile come strumento di previsione e controllo della realtà e uno stereotipo che rappresenta una distorsione della realtà stessa e un ostacolo all’interazione. In questo caso si verifica un processo di generalizzazione che porta a estendere in modo omogeneo e arbitrario a ogni membro del gruppo con il quale s’interagisce le caratteristiche proprie di un intero popolo, ritenendo che queste caratteristiche costituiscano un insieme coerente, organico e immutabile nel tempo. Esiste la possibilità che un individuo possieda alcuni tratti tipici che contribuiscono a formare il cosiddetto “carattere nazionale”, ma non è corretto trasferire automaticamente questi tratti a tutti gli individui di una comunità, soprattutto quando si arriva a conoscere in modo più approfondito una persona e le sue caratteristiche individuali.

La relativa omogeneità dei caratteri nazionali (sia quella sedimentata negli stereotipi, sia quella che ha una base di verità) è determinata dai processi di socializzazione derivanti dalla famiglia, dalla scuola, dai mass media che producono e riproducono la cultura a cui l’individuo appartiene. Dal rapporto con caratteri nazionali diversi possono nascere delle contrapposizioni con altre culture e una diversa visione della vita (ragione contro sentimento, individualismo contro senso della collettività, fantasia contro concretezza, razionalismo contro empirismo); possono nascere stereotipi e pregiudizi in grado di creare difficoltà nei rapporti tra appartenenti a gruppi nazionali diversi. A causa di queste contrapposizioni gli individui potrebbero essere meno disponibili a un confronto costruttivo e all’interazione, oppure mostrare una ostilità di fondo che non predispone al superamento delle divergenze culturali attraverso quel dialogo e quella collaborazione che faciliterebbero la civile convivenza.

L’emarginazione sociale

Esistono pregiudizi e stereotipi con un forte impatto sociale, perché hanno la capacità di condizionare le valutazioni e i comportamenti nei confronti di altre persone, dalle quali ci aspettiamo determinati comportamenti e, quando questi non si verificano, ha luogo una svalutazione o un’ostilità, una formulazione di giudizi negativi verso determinate persone.

Si pensi al peso sociale che hanno gli atteggiamenti nei confronti della disabilità fisica, che per secoli è stata oggetto di una manifesta ostilità fino a tradursi in forme di reclusione e di occultamento dei portatori di handicap. Alcuni stereotipi hanno contribuito a considerare i disabili fisici una categoria a sé, formata da soggetti poco abili e psicologicamente fragili, troppo emotivi e sostanzialmente inaffidabili, volubili e irascibili, per cui nell’interazione si tende a mostrare verso di loro un imbarazzo o una diffidenza che derivano dal non sapere come comportarsi, ma anche dal disagio che provoca la loro presenza. Nella società contemporanea la disabilità fisica è stata formalmente accettata ed è stato riconosciuto ai disabili fisici lo status sociale di categoria protetta che presenta dei vantaggi sul piano dell’assistenza e dell’occupazione. Si sono inoltre introdotte delle norme che hanno lo scopo di favorire l’integrazione scolastica, abolire le barriere architettoniche, ostacolare la discriminazione anche se sopravvivono gli stereotipi riguardanti l’inadeguatezza e lo stato di dipendenza dei disabili.

La disabilità mentale si presenta in modo più complesso, perché la malattia mentale, oltre a non corrispondere agli standard di efficienza consolidati nella società, ha sempre rappresentato un fenomeno misterioso e inquietante. Attraverso i secoli intorno alla figura del “folle” si è agglomerato un senso di repulsione e di condanna, a volte accompagnato da una reverenza magico-sacrale, come se il malato fosse in contatto con dimensioni e forze soprannaturali. Questo spiega come in certi periodi storici i pazzi siano stati perseguitati anche con la violenza e solo a partire dall’Ottocento si sia introdotto il principio che essi devono essere considerati dei un malati bisognosi di cure e non degli elementi socialmente pericolosi da mettere nella condizione di non nuocere. Nonostante i progressi fatti, il pazzo è rimasto un particolare tipo di disabile, perché la sua malattia si riferisce agli aspetti più nascosti della nostra personalità, evocando la potenza dell’irrazionalità e il possibile prevalere degli istinti sui comportamenti regolati dalle norme sociali, per cui permane lo stereotipo della pericolosità del malato di mente indipendentemente dei danni reali che egli potrebbe arrecare. Continua a permanere l’idea di un’incontrollabilità e imprevedibilità di comportamenti capaci di mettere in crisi le regole della convivenza a causa di individui che per alcuni possono rappresentare un modo di vivere irrazionale, fastidioso o addirittura pericoloso.

Un fenomeno sociale che ha una grave incidenza negativa è rappresentato dalla tossicodipendenza per i danni psicofisici che procura nei soggetti consumatori, per i danni sociali derivanti dal commercio e dallo spaccio delle sostanze stupefacenti che sono quasi sempre sotto il controllo dalla criminalità organizzata, per la presenza sul territorio della piccola criminalità e della prostituzione, per il manifestarsi di forme di violenza familiare e individuale. Questo fenomeno d’indubbia gravità porta spesso a considerare il tossicodipendente un soggetto portatore di una personalità fragile e psicologicamente immatura, con gravi deficienze sul piano della volontà individuale e del patrimonio di valori, quindi un soggetto a elevata pericolosità sociale. Queste valutazioni negative a volte fanno passare in secondo piano le molteplici cause sociali, psicologiche, economiche e ambientali che determinano la tossicodipendenza; fanno trascurare i particolari percorsi di vita che hanno indotto un individuo a cadere nella tossicodipendenza; non riconoscono come valide ed efficaci le strutture e le terapie di recupero.

L’omofobia

Si tratta di uno stereotipo basato sulla paura e su una forma di avversione irrazionale nei confronti dell’omosessualità, della bisessualità e della transessualità, che può essere equiparata al razzismo e alla xenofobia e che implica un insieme di sentimenti e comportamenti avversi alle persone omosessuali. Il termine può essere utilizzato in tre diverse accezioni.

L’accezione pregiudiziale considera come omofobia tutte quelle convinzioni che reputano l’omosessualità una patologia invalidante, una condizione socialmente e moralmente pericolosa, per cui si ritiene giusto negare il riconoscimento sociale e giuridico alle persone omosessuali. L’accezione discriminatoria classifica come comportamento omofobo la negazione dei diritti e della dignità delle persone omosessuali, ritenendo giuste forme di discriminazione sul posto di lavoro, nelle istituzioni, nella attività culturali e artistiche, per arrivare fino a forme di repulsione psicologica.

L’accezione psicopatologica considera l’avversione verso gli omosessuali non è solo il frutto di un pregiudizio negativo, ma è una fobia, cioè una irrazionale e persistente paura e una repugnanza capaci di compromettere il funzionamento psicologico di una persona, spingendola a compiere anche atti di violenza anche fisica.

L’omofobia può essere legata a una ideologia politica, a una determinata formazione culturale, a una condanna di tipo religioso, a uno squilibrio psicologico a livello personale che porta a giustificare atti di violenza o di discriminazione contro persone a causa di una reale o presunta omosessualità. Si è riscontrato che tendono all’omofobia persone autoritarie o insicure che si sentono minacciate da un “diverso da sé”, oppure sono in lotta con una forte omosessualità latente e repressa. Si è inoltre rilevato che l’omofobia è spesso legata a idee religiose fondamentaliste, a un’assenza di contatti personali con gay e lesbiche, a sensi di colpa provati nei confronti del sesso, ad atteggiamenti tradizionalisti rispetto ai ruoli di genere, al timore di essere considerati degli omosessuali.

Il razzismo

Pregiudizi e stereotipi costituiscono una componente importante del razzismo, quando sono indirizzati contro le minoranze etniche attraverso un intreccio di processi socio-strutturali, culturali e psicologici, che possono derivare da un’errata percezione del diverso, dall’ignorare o sottovalutare secoli di oppressione, discriminazione e sfruttamento. Bisogna tenere presente che in diverse culture permane un forte senso di superiorità verso altre culture ritenute arretrate e lontane da un apprezzabile livello di civiltà con il persistere di un’ostilità verso i diversi che si manifesta nelle forme della vita quotidiana, nel sistema dei rapporti sociali, nell’accanita difesa della cultura di appartenenza.

Dopo la seconda guerra mondiale si è assistito a una certa riduzione dei pregiudizi e stereotipi basati sull’avversione nei confronti alle minoranze etniche, anche se forme di ostilità di topo razzista continuino a sopravvivere in modo più sotterraneo, oppure in modo aperto e consapevole, provocando situazioni di emarginazione nei confronti di gruppi etnici minoritari. Il razzismo, sulla base di una manipolazione scientifica e culturale, si basa sull’esaltazione delle differenze biologiche come il colore della pelle, la forma e l’odore del corpo, i modi di atteggiarsi e di abbigliarsi, sulla convinzione che i soggetti in questione appartengano a razze inferiori. Il razzismo, nelle sue forme più mascherate, si basa sulla necessità di difendere la propria identità, la propria cultura e i propri beni, sulla tendenza a dividere la società in “noi” e “loro”, in buoni e cattivi, in amici e nemici. In questi casi siamo di fronte a una forma di autoinganno, nel senso che bisogna “ingannare” se stessi per credere alla propria superiorità razziale e culturale, per assimilare idee razziste attraverso la formazione ricevuta in famiglia, il gruppo dei pari, la cultura del comunità d’appartenenza, l’influsso dei mass media.

Nella società postindustriale e globalizzata il razzismo si presenta come un’ideologia che va assumendo forme nuove come il razzismo di allarme che deriva dalla sensazione di pericolo provocata da comportamenti irregolari o illegali attribuiti alle minoranze (forme di violenza, fenomeni di criminalità, attività illegali, prostituzione, spaccio di droga). Si tratta di una distorsione della percezione e di una sopravvalutazione del peso che hanno le minoranze, a cui si attribuiscono comportamenti negativi o criminali, provocando delle paure che sono sistematicamente sfruttate dalla propaganda politica e alimentate dai mass media per accrescere l’audience, trasmettendo informazioni che incidono negativamente sulla formazione dell’opinione pubblica.

Esiste un razzismo concorrenziale, che nasce dalla volontà di difendere in modo simbolico o reale il proprio “territorio”, dalla paura di perdere il posto di lavoro, dalla mancata assegnazione di alloggi popolari, dalla convinzione di una limitazione dei servizi sociali, dalla preoccupazione che si formino dei “ghetti” urbani segnati dal degrado sociale. Vi è poi un razzismo culturale, che nasce dalla volontà di difendere il proprio sistema di vita e la propria cultura, dalla denigrazione o dal rifiuto dei valori e della cultura degli altri ad esso si collega il razzismo eversivo, che si manifesta attraverso un sentimento di ostilità verso i diversi, per cui si cerca di evitare ogni contatto con le minoranze, di limitare i momenti d’interazione, oppure si chiede di adottare dei provvedimenti capaci di mantenere le distanze e ridurre ogni forma di coinvolgimento fino ad arrivare a forme di segregazione, oppure a strategie di allontanamento. Si ha infine il razzismo differenzialista, che si basa sulla convinzione di una sostanziale inconciliabilità tra culture differenti, per cui si ritiene necessario salvaguardare la diversità con una netta chiusura sociale e politica nei confronti delle minoranze, perché la diversità culturale non è considerata un fattore di arricchimento, ma un’insormontabile barriera resa necessaria quando si pensa che le minoranze possano essere un “nemico in mezzo a noi”.

La xenofobia

Con questo termine s’indica la paura dello straniero, che nasce da radicati pregiudizi e stereotipi e si manifesta attraverso comportamenti e atteggiamenti di rifiuto nei suoi confronti. La xenofobia, che si basa su un’idea di superiorità nazionale e che vede nello straniero una minaccia, è un rapporto negativo fra due entità sociali indefinite, perché non si prende di mira un avversario definito da particolari caratteristiche culturali o politiche, ma come appartenente a un altro tipo di società. La xenofobia nasce e si diffonde quando lo straniero è in qualche modo interno al proprio mondo, quando crea la sensazione di essere un invasore, provocando la convinzione che bisogna allontanare, discriminare, emarginare lo straniero, oppure muovergli guerra fino a sterminarlo.

Lo straniero è qualcuno che manifesta con il suo aspetto fisico, i tratti culturali, i modi e il linguaggio la provenienza da un altro luogo e la non appartenenza all’identità culturale e politica del territorio in cui si trova, che può essere visto come un individuo “inferiore”, perché manca di “civilizzazione”. Al contrario, gli autoctoni sono coloro nati e radicati nel territorio dove vivono e da questa collocazione spaziale, vissuta come immutabile nel tempo, dalla loro condizione di cittadini di uno Stato-nazione essi traggono il sentimento della propria superiorità nei confronti dello straniero.

La xenofobia può essere causata dal timore di una discesa sociale, da ansie di status, dalla sfiducia nella capacità di resistenza e affermazione della propria identità culturale da parte degli autoctoni, dal percepire gli stranieri come una minaccia alla propria ascesa sociale, dalle condizioni di sicurezza o di insicurezza presenti nella società. La paura dello straniero raramente si presenta allo stato puro, ma può essere accompagnata dal sentimento opposto dell’interesse per lo straniero: questi due sentimenti convivono, si mescolano secondo proporzioni variabili e raramente accade che l’uno prevalga sull’altro, per cui l’incontro fra stranieri e autoctoni è dominato da una sostanziale ambivalenza, per cui lo straniero può essere nello stesso tempo ammirato e disprezzato, accolto e respinto, ricercato ed evitato. Si genera in ogni caso una forte reazione emotiva che, in senso positivo, si manifesta come desiderio di conoscenza, di contatto, di accoglienza; in senso negativo, si traduce in disgusto, rifiuto, desiderio di distruzione nei confronti del “diverso”, cioè diventa xenofobia.

Per nutrire la propria cultura e per alimentarne lo sviluppo sarebbe invece utile un contatto con culture diverse basato sulla curiosità intellettuale e sul desiderio di confronto. Per fare questo è necessario avere la consapevolezza che non esiste un’identità culturale coesa e perfetta, omogenea e armonica, perché le culture sono costruzioni eterogenee e mutevoli, sottoposte a continui processi di contaminazione da parte di altre culture. In questa ottica lo straniero non deve essere visto come qualcuno che irrompe dal di fuori per invadere il tuo territorio, ma una persona che va accolta, perché la sua presenza può essere importante per la vita culturale e per lo sviluppo di qualsiasi società.

La sociologia ha rilevato che i rapporti sociali tra lo straniero e i membri della società di accoglienza sono caratterizzati in primo luogo dall’ambivalenza: la società emargina lo straniero ma nello stesso tempo ne ha bisogno per alimentare la propria economia, per assolvere quei compiti che gli autoctoni rifiutano o non possono svolgere, occupando posti che altrimenti sarebbero liberi. Per eliminare o ridurre l’ambivalenza e il possibile insorgere della xenofobia è rafforzare i rapporti di comunicazione interculturale, tenendo conto che per lo straniero è sicuramente difficile integrarsi con le tradizioni culturali e le istituzioni della comunità nella quale è entrato a far parte, perché il suo primo obiettivo ottenere quel lavoro e raggiungere quel benessere che in patria gli sarebbero preclusi. Se non ottiene la cittadinanza, egli gode di una modesta quantità di potere e può esercitare una limitata influenza sui processi di cambiamento culturale, perché il contatto tra due culture diverse produce abbastanza lentamente delle significative modificazioni sociali. Bisogna anche ricordare che i processi di comunicazione interculturale e l’apertura verso lo straniero possono interrompersi e provocare il diffondersi della xenofobia, quando si verificano grandi cambiamenti sociali ed economici, forti flussi migratori, crisi economiche che causano disoccupazione, quando il potere politico gioca per rafforzarsi la carta del nazionalismo, dell’integrità etnica, dell’insicurezza e della paura.

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