Appunti di viaggio…

A questa complessità irriducibile, e alla ristrettezza delle formae mentis, a tutte le fissità funzionali, agli errori di ideologie e di pretese monocausalità. E agli errori di ogni minuto, perseveranti e consapevoli o meno, a quelli di una vita, come vicoli chiusi, senza un ritorno. Ma anche alla plasticità degli schemi e ai meccanismi di accomodamento, alle possibilità innumerabili, come la sabbia, come il mare.

Alla vita che scivola, giorno dopo giorno, soggetti svuotati a occupare il tempo, o al contrario qualcosa che scintilla, brividi di luce sottintesa, comunque attimi sospesi.
Alla rassicurante consistenza della terra e all’attrazione irresistibile per il mare.

Appunti di viaggio, come sempre. Frammenti di cose e di vita. Lasciati scorrere così, come su uno schermo, paesaggi diversi, con la stessa violenza simultanea dei nuovi media. Da un mare all’altro, in una visione di insieme, l’odore di salsedine, le fabbriche, i campanili delle chiese, la campagna e il degrado della peri- feria romana…

Case che non conosco, per ognuna di esse storie che non conosco. Centinaia, migliaia di visi, ognuno una sorpresa, dietro ciascuno biografie che non conosco. Scene mai viste. Chissà quanti giri di giostra, e poi un altro, e un altro ancora, finchè c’è sole. Con la tenerezza di un bambino che ne chiede uno in più, ogni volta l’ultimo, e poi l’ultimissimo, come se fosse per sempre, mentre la sera comunque arriva e alla fine, come sempre, la fiera si chiude. Cavalli a dondolo senza alcun movimento, quasi sospesi, sullo sfondo rosso acceso teorie di cipressi.

Nell’attesa si può fare di tutto,  leggere riviste in un’anticamera, scattare   fotografie,   costruire aquiloni

… qualsiasi cosa, pur di passare il tempo, ed esorcizzare il tempo che passa. Perdersi dentro un abbraccio, con gli occhi chiusi, come se un’ora di baci e di carezze potesse fermare questo ritmo necessario.

Soprattutto impegnarsi in una continua impresa sociale di costruzione della realtà, e cioè, più semplice- mente, ascoltare e raccontare storie. Ecco perché “appunti di viaggio”.

Per questa sensazione di essere come in un albergo, immersi in uno stato di precarietà diffusa, pura contingenza, cioè negazione simultanea di necessità e di impossibilità (Luhmann). Per questa impossibilità di scrivere qualcosa di più che semplici appunti, lettere e let- ture sempre provvisorie, legate all’istante, e agli stati di coscienza che mutano, di volta in volta. Equi- libri parziali. Innumerabili coriandoli dispersi, dai finestrini di un treno in corsa. Proibitivo pensare di radunarli tutti, come provare a ricostruire, nota per nota, un canto di usignolo, un’improvvisazione jazz. Come descrivere esattamente un’emozione?

Certo, il discorso orale appare più idoneo a inseguire la vita, il logos nell’agorà delle fenomenologie di ogni giorno, in famiglia, sui luoghi di lavoro, o al mercato, ovunque vi siano parole (cioè sempre), anche quando mancano. Persino nelle stanze virtuali del web.

E tuttavia ci occorrono questi appunti, come una piattaforma temporanea, costruzioni sintattiche (e semantiche) che magari, esposte a successive rivisitazioni, appariranno quasi estranee, da far sorridere, superate per le nuove esperienze e non più in sintonia con nuove sopraggiunte vibrazioni di senso. Una piattaforma da cui muovere, per  “accomodare”  (Piaget),  o elaborare, e poi spingersi oltre. Così come un adolescente che ha bisogno di figure genitoriali forti (o una civiltà, di idoli consolidati) da distruggere, per poi spingersi oltre. Equilibri sempre parziali. Fogli stracciati, migliaia di coriandoli, mentre il treno prosegue la sua corsa.

C’è un laboratorio creativo (Munari 1995, pp. 49-61) in cui i bambini imparano a costruire un albero di carta, con ramificazioni e  disegni di foglie e di fiori, e di qualsiasi altra cosa venga loro in mente, il tutto alla fine è destinato a essere ridotto in tanti pezzi, da raccogliere e gettare via. Non deve, comunque, procurarci troppo dispiacere questa perdita, scompare il modello ma la regola, la tradizione, rimane, pronta per essere nuovamente applicata, trasmessa ad altri.

Così nelle esperienze dei  processi umani, dove tuttavia la pretesa di   rappresentazioni   dogmatiche e definitive è solamente un bisogno psichico, oltre che un’esigenza sociale, di stabilità e di sicurezza. “La cultura popolare è un continuo manifestarsi di fantasia, di creatività e di invenzione. I valori oggettivi di queste attività vengono accumulati in quello che si chiama tradizione, tecnica  o  artistica  o come si vuole. E, di continuo, questi valori vengono verificati da altri atti di fantasia e di creatività,  e quindi sostituiti quando si dimostrano superati. Così la tradizione  è la somma in continua mutazione dei valori oggettivi utili alla gente. Ripetere pedestremente un valore, senza fantasia, vuol dire non continuare la tradizione ma fermarla, farla morire” (Munari, 2003, p.37). In questo modo gli umani definiscono il mondo, perduti in lunghe contrattazioni, o nei discorsi vuoti della retorica comune, sullo sfondo Lebenswelten (mondi vitali) da sottoporre incessantemente a critica attraverso le ermeneutiche dell’agire comunicativo (Habermas, pp. 697-727). Cioè, più semplicemente, costruzioni (sociali) di senso che prendono forma e si mettono in gioco  in  situazioni specifiche, al bar dello sport  come  nei  consessi accademici, frammenti di un universo simbolico che emergono di volta in volta nelle discussioni pragmatiche, come quelle sui prezzi della benzina o dei pomodori, fino ai dialoghi intorno ai massimi sistemi.

Appunti di viaggio, tracce mnestiche impresse da fuori, stimolazioni reali da un ambiente umano  e naturale, ma soprattutto costruzioni attive di una mente sempre  al lavoro. Siamo in un’organizzazione percettiva di dati sensoriali, elaborati simbolicamente attraver- so gli schemi delle reti neuronali. E qualsiasi cosa possiamo ricevere, o produrre, è specchio (non fedele) di informazioni esterne, per cui non sembra ancora pensabile uscire dall’umano, tutto appare riconducibile a questo, riflessioni antropologiche come rappresentazioni del mondo, di sé e dell’altro da sé.

E  gli  schemi  si  formano  attraverso   i   processi   di  socializzazione: “l’uomo non soltanto produce un mondo, ma produce anche se stesso. Più precisamente produce se stesso in un mondo” (Berger). Sulla scena replicanti alienati o attori protagonisti. Acrobati e giocolieri, lavapiatti, filosofi e impiegati d’ordine. O magari semplici comparse, trasformisti dotati di maschere intercambiabili. Sospesi fra memo- ria e apprendimento, nei processi omeostatici di una natura umana che è cognitiva così come biologica (Piaget). Ancora e sempre equlibrazioni parziali, riflessioni antropologiche intorno al  mondo  e intorno a sè, in un mutamento senza soluzione.

Nei centri storici della bassa Padana, ruote di bicicletta che girano lentamente, con un movimento insieme tautologico e progressivo (su di sè e in avanti), e tutto continua. Dicotomie, oscillazioni, convergenze.

Appunti di viaggio, come sempre. Frammenti di cose e di vita.

Piccoli particolari, una porta  che  si chiude dietro le spalle, l’odore,  il sapore, per un  attimo,  di  trac- ce mnestiche indefinite. Qualcuno passa per strada, un cane, o una macchina, qualcosa che si allontana. Nessun dolore, nessuna tenerezza, nemmeno un senso di vuoto, niente e nessuno per strada, né baci e né carezze, nè alibi per fermare questo ritmo necessario.  L’abbraccio  si richiude su di sé, riflessioni che girano intorno allo stesso punto, cerchi concentrici di pensiero.

Un lampo attraversa il sole dell’e- state, una stella nella notte di San Lorenzo.

altalene

Figura 1 – Scenario vuoto

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Figura 2 – Scenario vuoto

APPUNTI BIBLIOGRAFICI

  • Luhmann, Sistemi sociali, il Mulino, Bologna 1994
  • Terzani, Un altro giro di giostra, Longane- si, Milano 2004
  • Piaget, Psicologia dell’intelligenza, Giun- ti-Barbera, Firenze 1952
  • Munari, Il castello dei bambini a Tokyo, Einaudi, Torino 1995
  • Munari, Fantasia, Laterza, Roma-Bari 2003
  • Habermas, Teoria dell’agire comunicativo (2 voll.), il Mulino, Bologna 1997
  • L. Berger, Th.Luckmann, La realtà come costruzione sociale, il Mulino, Bologna 1969
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