Covid-19: viaggio all’interno della Clinica di Anestesia e Rianimazione degli Ospedali Riuniti

Prof. Abele Donati

Prof. Abele Donati

Era il dicembre 2019 quando iniziammo a sentir parlare del “nuovo Coronavirus” e la Cina ci sembrava così lontana che ingenuamente pensammo che questo virus non ci avrebbe mai coinvolti. Ma ci sbagliavamo.

Abbiamo ricoverato il primo paziente il 28 Febbraio 2020. Non sapevamo neanche come indossare i DPI (Dispositivi di Protezione Individuale), che all’inizio arrivavano con il contagocce e che ci hanno fatto stare in apprensione nel primo mese. La nostra coordinatrice aveva tappezzato i punti vestizione e svestizione con una serie di immagini per guidarci nell’operazione, con la paura di sbagliare e di infettarci. Da quel 28 febbraio, non ci siamo più fermati, fino a quando l’estate 2020 ha voluto regalarci una tregua. Ma stavolta, più consapevoli, non abbiamo esultato e ci siamo mantenuti pronti alla famosa “seconda ondata”, che a settembre non ha saputo coglierci impreparati e che si sarebbe poi trasformata nella “terza ondata”: più di un anno di COVID-19.

L’Unità Operativa di cui sono Direttore, la Clinica di Anestesia e Rianimazione Generale, Respiratoria e del Trauma Maggiore, ha sempre dovuto affrontare grandi sfide: ricordiamo le epidemie influenzali annuali, i tanti traumi, le tragedie come quella della discoteca di Corinaldo. Ma non avevamo mai dovuto affrontare nulla di simile.

Abbiamo avuto in cura nella nostra ICU più di 200 pazienti con polmonite da Sars-Cov-2 positivi. E abbiamo gestito con la mia equipe di anestesisti-rianimatori ogni singolo paziente ricoverato in ospedale che avesse bisogno di supporto ventilatorio non invasivo nei reparti Covid. Quotidianamente effettuavamo il giro dei pazienti critici ricoverati nei reparti medici: avevamo nota di ognuno di loro e li abbiamo seguiti fino a quando le loro condizioni non fossero migliorate. Ci sono stati giorni in cui il personale non bastava. Ci sono stati giorni in cui il giorno e la notte non avevano differenza, in cui l’orario di lavoro non esisteva. A Marzo e Aprile 2020, Pasqua compresa, mi sono trovato tutti i giorni in ospedale. Abbiamo assunto specializzandi all’ultimo e penultimo anno di specialità, consapevoli che avrebbero saputo far bene, perché i pazienti non smettevano di giungere in pronto soccorso. E le chiamate al cordless iniziavano tutte con “fa fatica a respirare, ho bisogno di un rianimatore”.

Tutto questo non conoscendo assolutamente nulla di questa patologia. Abbiamo dovuto studiare, ricordare ogni cenno di fisiopatologia, ogni nozione di ventilazione meccanica, perché mai, come ora, la fisiopatologia ci avrebbe aiutato a far guarire i nostri pazienti. Ricordo che a primavera 2020 cercavamo su PubMed la letteratura già presente e le linee guida cinesi, in cerca di qualcosa che ci avesse aiutato a gestire i nostri pazienti.

Le misure di meccanica respiratoria erano diventate una routine: misuravamo Pressione di plateau, Driving pressure e Compliance statica di ogni paziente, almeno tre volte al giorno. Il protocollo iniziale prevedeva: sedazione, curarizzazione e pronazione; seguivamo le linee guida per la gestione della ARDS. Notammo subito però che questa ARDS era differente da quelle che eravamo abituati a trattare: la compliance polmonare era normale in molti pazienti, i polmoni non sembravano rigidi. I pazienti che avevano polmoni rigidi erano quelli che avevano fatto più giorni di C-PAP e quindi avevano già un danno polmonare associato.

Alla polmonite virale era associata una grave ipossiemia e questi pazienti potevano trovare giovamento con l’utilizzo di ossido nitrico inalatorio.

Ben più grave era il quadro dei pazienti con compliance ridotta, che mostravano già danno polmonare. In questi pazienti spesso la TC torace mostrava aree di VILI (ventilator induced lung injury) e quindi avevano le connotazioni di quelle ARDS che conoscevamo già. Questi pazienti hanno trovato giovamento da PEEP più alte e pronazione. Abbiamo migliorato i nostri protocolli di pronazione, grazie al lavoro fantastico condotto da medici e infermieri, adottando dispositivi che riducessero al massimo le lesioni da pressione. Inoltre, il miglioramento dell’ossigenazione poteva essere ottenuto solo dopo diversi cicli di pronazione, con un sovraccarico di lavoro per il personale. Per far fronte a questi problemi, abbiamo implementato un protocollo di pronazione che permette di estendere il tempo per la posizione prona oltre le 16 ore canoniche, mirando a ridurre il numero di cicli di pronazione per paziente. Abbiamo così messo a punto il protocollo di “pronazione prolungata”, della durata di 36 h. Sono stati anche pubblicati i risultati dei nostri studi a riguardo, dimostrando che una posizione prona prolungata fino a 36 ore è fattibile, sicura e può offrire potenziali vantaggi clinici e organizzativi.

Ma non era solo questo. La mia Unità Operativa è un centro ECMO, punto di riferimento di tutta la regione e unico centro del medio Adriatico. ECMO significa “Extracorporeal Membrane Oxygenation”. Una tecnica di ossigenazione del sangue extracorporea: si inseriscono delle cannule nel sistema venoso, mediante le quali il sangue viene prelevato dal paziente, fatto passare attraverso una membrana che fornisce ossigeno ed elimina anidride carbonica, per poi essere reinfuso all’interno del sistema circolatorio del paziente. Una tecnica complessa, che vicaria la funzione polmonare e ci permette di guadagnare tempo, il tempo di cui il polmone ha bisogno per guarire. Ma è una tecnica non priva di complicanze, anzi: i pazienti in ECMO devono essere mantenuti scoagulati, con rischi elevati di sanguinamento. Più volte al giorno, quindi, misuriamo PT, PTT, INR e Antitrombina III, aggiustando la dose di anticoagulante. Non avevamo moltissima esperienza in merito, fino all’inizio della pandemia avevamo trattato un totale di 7 pazienti con un rapporto infermiere/paziente 1:1, ma abbiamo dovuto affinare le nostre abilità in pochissimo tempo, perché il tempo non c’era e in poche settimane ci siamo trovati a dover trattare 6 pazienti in ECMO in contemporanea con un rapporto infermiere paziente di 1:3! La dedizione dell’equipe medico-infermieristica è stata veramente incredibile: nessuno si è tirato indietro e tutti hanno contribuito a gestire una situazione veramente difficile.

Ad oggi abbiamo trattato in ECMO finora un totale di 45 pazienti, con una sopravvivenza del 55-60% assolutamente in linea con gli standard internazionali per questa patologia.

Ci sono stati giorni, difficili, con 7 pazienti in ECMO contemporaneamente, ognuno con le proprie peculiarità, ognuno con le proprie patologie di base che ci complicavano il quadro clinico. Lo sforzo di medici ed infermieri è stato davvero encomiabile.

Gestire una pandemia è qualcosa che non ti insegnano all’Università. Ci avevano insegnato cosa fosse una pandemia, ma non come affrontarla nel dettaglio. Non ci avevano insegnato come tranquillizzare un paziente spaventato, che non respira, e che non vuole mettere la maschera C-PAP. Nessuno ti insegna il modo migliore per chiedergli il consenso all’intubazione. Nessuno ti insegna come comunicare con i familiari a distanza, che non sono mai potuti entrare in ICU per vedere il proprio caro e per cui siamo stati i loro occhi e le loro mani. Però una cosa l’Università la insegna: la dedizione per i pazienti e la passione per la scienza. La voglia di migliorarsi sempre, per fare sempre meglio.

In questo anno e mezzo di pandemia, sono state tante le sconfitte. A volte la patologia correva più veloce di noi e non si fermava di fronte a nulla. Ma ci sono state anche tante vittorie: la maggior parte dei pazienti che abbiamo trattato nella nostra ICU è potuta tornare a casa, ha potuto riabbracciare i propri cari e pian piano sta tornando ad una vita normale.

Sono tante le testimonianze che ci arrivano quotidianamente e che danno un senso al nostro lavoro.

Alla fine, non posso fare altro che ringraziare tutto il personale della Clinica di Anestesia e Rianimazione: medici, infermieri ed ausiliari. Senza ciascuno di loro non ce l’avremmo mai fatta a superare questo che comunque rimane ancora oggi un incubo e che ha sconvolto la vita di tutti noi seminando morte e dolore. Finché ci sono persone come loro, per dedizione, professionalità, è certo che l’umanità è in grado di affrontare e superare qualsiasi difficoltà le si presenti davanti.

 

 

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