Della formazione infermieristica, tra identità professionale e coscienza scientifica

Giordano CotichelliGiorgio Cotichelli

Corso di laurea in Infermieristica
Facoltà di Medicina e Chirurgia, Università
Politecnica delle Marche

Si presentano in queste pagine un inquadramento generale sui principali strumenti della formazione professionali, riguardanti la figura, affermata da tempo, del tutor e le innovazioni metodologiche in tea di programmazione e costruzione della didattica. Le linee di indirizzo europea da circa un ventennio guidano il lavoro di docenti e discenti a livello accademico spingendo verso protocolli strutturati e approcci metodologici innovativi: dal core competence all’hidden curriculum, fino alla clinica della formazione, al fine di concorrere in maniera dinamica alla costruzione dell’identità professionale e della coscienza scientifica dei professionisti di un futuro che riverbera sempre più nella contingenza attuale. Accompagnano il presente lavoro le immagini realizzate a Berlino dall’Autore. Riguardano il Museo Ebraico e il Memoriale dell’Olocausto presenti nella capitale tedesca. La scelta non è casuale ma risponde al bisogno di accompagnare un lavoro che parla di identità e coscienza con una storia, quella degli ebrei, che parla di identità e di coscienza. Parla anche di un legame con il presente che non si deve mai spezzare, ancor più in un mese in cui cade il Giorno della Memoria, ancor più in un tempo in cui il dramma che si sta vivendo dovrebbe farci essere più solidali. Le immagini inoltre offrono fughe e prospettive architettoniche che molto possono rappresentare, nella stessa solidità degli edifici, ciò che la formazione porta con sé da sempre.

Quali siano i compiti e gli obiettivi della formazione, meriterebbero uno spazio maggiore di quello a disposizione, anche se si può sinteticamente rispondere facendo riferimento a due concetti: la costruzione e strutturazione di una identità e la formazione di una coscienza, elementi intesi in senso ampio ed articolato. L’identità può essere individuale e sociale allo stesso tempo, comunitaria, nazionale o, come nel caso specifico della formazione accademica, una identità professionale. Parimenti la coscienza si sviluppa attraverso livelli riflessivi e cognitivi sul senso di sé e degli altri, sulla percezione dello spazio ambientale e dei luoghi umani circostanti; sulla consapevolezza interiorizzata del sapere umano, e la sua necessaria riproduzione. La stessa parola identità deriva etimologicamente dal termine latino idem, e significa la stessa persona. Sul piano della definizione delle professioni essa è categorica, per certi termini esclusiva più che divisiva, stabilisce l’appartenenza a questa o a quella professione, non senza creare qualche piccolo problema. Ad esempio risulta abbastanza difficile riuscire a definire a quale professione potesse appartenere un personaggio come Leonardo da Vinci: scienziato, artista … genio? In realtà, più che far riflettere a quale identità Leonardo possa essere ascritto (esercizio tanto vacuo per quanto vano), indubbiamente la sua era una identità fuori dal comune, ma portatrice di una coscienza scientifica ricca, da interpretare anche in questo caso nella precisa etimologia del termine tratta da cum scire, essere consapevole, sapere, conoscere.

Identità e coscienza dunque alla base dell’universo della formazione lungo una chiave di lettura analitica che schematicamente induce la prima a rappresentare l’essere e il saper essere, mentre l’altra si sofferma sul sapere stesso e la sua proiezione nella capacità di fare. In realtà la dimensione della formazione, ed ancor più quella professionale, è decisamente più complessa dell’immagine che semplici scorciatoie possono tracciare. Per tale ragione in questo lavoro si cercherà di porre attenzione su alcuni elementi della specificità di un Corso di Infermieristica, utili per capire la professione stessa e il lavoro di trasmissione del sapere in generale. Gli elementi dell’identità professionale e della coscienza scientifica tratteggiati verranno considerati attraverso la figura del tutor infermieristico e alcune particolarità caratterizzanti quali l’hidden curriculum e la clinica della formazione.

 

La formazione professionale fra tutoraggio e core competence
Agli inizi degli anni ’80 venne pubblicato negli Stati Uniti il libro dal titolo: Formae Mentis, a cura del neuropsicologo statunitense Howard Gardner [1]. Nel lavoro veniva elaborato il concetto di pluralità della dimensione intellettiva degli esseri umani esprimendola con la teoria delle intelligenze multiple, in cui si ampliava il ristretto campo d’azione della visione semplicemente logico-matematica dell’intelligenza elaborato all’inizio del XX secolo da Lewis Madison Terman [2], il creatore dei test per la valutazione del Qi, in una prospettiva categorizzante dell’intelligenza umana. Gardner al contrario di Terman, ha messo in evidenza l’esistenza di una pluralità di intelligenze, nove in tutto, diverse per caratteristiche, attivazione, e aree di sviluppo: 1) verbale (linguaggio e uso delle parole); 2) logico-matematica (individuazione delle relazioni e a rapporti di causa ed effetto); 3) spaziale (proprietà di lettura, codifica e decodifica degli spazi e degli oggetti dell’ambiente circostante; 4) cinestatica (controllo e coordinamento dei movimenti del corpo); 5) musicale (distinzione di timbri, ritmi, suoni e melodie); 6) naturalistica (funzionale ad una lettura classificatoria dell’ambiente naturale e delle sue componenti; 7) esistenziale (utile a considerare le questioni poste dalla vita stessa); 8) intrapsichica (valutare le proprie emozioni); 9) interpersonale (relazionale). Ognuna di queste può essere letta come una delle caratteristiche prevalenti in settori specifici delle arti e delle conoscenze umane le quali, rispetto alla classificazione citata, a partire dall’intelligenza verbale e successive, possono far riferimento a insegnanti e scrittori, matematici ed ingegneri, architetti e pittori, ballerini ed attori, musicisti e cantanti, scienziati, filosofi, e persone dotate di capacità autoanalitiche verso se stessi o empatiche verso gli altri.  Gardner in questo non è esente dal porsi, parimenti allo scopritore dei test del Qi, su di un piano categorizzante dell’intelletto umano, rischiando di darne una lettura segmentata, quando non condizionata da una sorta di stratificazione la quale, stressando il concetto, porterebbe a chiedersi, ad esempio, se sia meglio il pittore o il poeta; oppure se siano più utili gli insegnanti o gli scienziati; fino ad arrivare a mettere in rilievo doti e caratteristiche che, lungo una prospettiva distopica della società, potrebbero portare alla selezione e categorizzazione delle vite in base alla sfera intellettiva misurata come predominante. Vero è, al contrario, che una lettura plurale e composita delle caratteristiche intellettive lungo un approccio globale, definisce la pluralità di saperi che caratterizzano una identità. Maggiore è la capacità di porre il proprio patrimonio intellettivo su di un piano dinamico e prospettico, più facilmente l’identità sarà l’espressione di un costrutto ampio ed inclusivo.

Il lavoro di Gardner può essere considerato una delle importanti basi di partenza da cui, qualche anno dopo, Daniel Goleman [3], psicologo cognitivista statunitense elaborerà il tema dell’intelligenza emotiva. L’autore introdurrà il concetto in cui le emozioni rappresentano una forma specifica dell’intelligenza, lungo una prospettiva che riesce a superare la mera visione nozionistica e statica, così come era stata conosciuta negli anni del diffondersi dei test per il Qi di Terman.  Alla fine i lavori di Gardner e Goleman riescono a costruire un quadro composito delle capacità intellettive che si arricchisce degli elementi espressi dal pensiero di Edgard Dale [4] dove l’intelligenza risulta al fine collegata strettamente all’esperienza di vita vissuta, influenzata dalla dimensione sensopercettiva, e che l’autore definisce come la piramide (o cono) dell’apprendimento. Dale sottolinea come nell’arco di 15 giorni si tenda a ricordare appena un 10% di ciò che si letto, il 20% di ciò che si è ascoltato o visto, che però può aumentare fino al 50% se lo si è fatto in compagnia, mentre le cose dette ad alta voce o pensate e realizzate possono rimanere rispettivamente nel 70% e 90% dei casi.

A questo punto è giusto chiedersi come quanto detto si possa legare alle questioni inerenti alla formazione e ad un suo specifico aspetto rappresentato dal tutoraggio. La chiave interpretativa è fornita dalle ultime scelte fatte in merito lungo le teorie della core competence introdotte da tempo all’interno del contesto educativo infermieristico. La core competence rappresenta la trasversalità di pratiche e conoscenze relative ad uno specifico campo di applicazione, funzionale a sorreggere le scelte produttive al fine di rimanere competitivi sul mercato economico, strategia aziendale elaborata a partire dalla fine degli anni ’90 del secolo scorso da Prahalad e Hamel [5]. Dal settore economico la dimensione strategica della core competence è stata esportata in altri ambiti e fra questi anche quello della formazione. In merito va ricordato il contributo di Jason Frank [6] ed altri autori, in relazione alla formazione basata sulle competenze (competency based education), in grado di superare la dimensione meramente quantitativa dell’apprendimento, appiattita sul tempo impiegato e sulle nozioni apprese, per concentrarsi sulle abilità da sviluppare e sviluppate nello studente strettamente correlate queste, in tema di professionisti della salute, alle esigenze registrate dalla società e dalla popolazione di riferimento. Viene ripreso quanto sostenuto da Harden [7] che vedeva la formazione come elemento secondario su cui concentrarsi, per concentrarsi sulla prospettiva dell’outcome based education, intesa come risultato formativo conclusivo di un curriculum costruito a partire dalle abilità e dalle competenze da sviluppare. In questo il divario tendenzialmente presente fra l’apprendimento teorico e quello pratico sul piano clinico, può essere ridotto dalla dimensione strumentale del contesto di laboratorio, luogo preparatorio funzionale in cui studenti e tutor, seguendo le fasi di presa in carico, confronto (briefing) e verifica (debriefing) [8], lungo un piano prospettico che supera il semplice raggiungimento degli obiettivi didattici, anche a partire dalla riduzione dell’ansia dello studente.

In tutto ciò, l’esperienza italiana, sviluppatasi in ambito accademico lungo l’arco temporale di un quarto di secolo – a partire dall’inserimento della formazione infermieristica all’interno del mondo universitario (Dlgs. 502/92), ma forte di un bagaglio pedagogico e professionale di almeno un secolo. Anne Destrebecq, Professore ordinario d’Infermieristica presso l’Università degli Studi di in un editoriale pubblicato sulla rivista Assistenza Infermieristica e Ricerca [9] introduce ad un quadro generale della formazione infermieristica di cui fa il punto evolutivo intercorso negli ultimi venti anni, sottolineando come il tirocinio (apprendimento clinico) sia funzionale alla costruzione dell’identità e dell’appartenenza professionale, del ruolo e dei suo diversi modelli assistenziali, e dei valori della professione stessa. Un fatto che non può essere pensato unicamente inteso come semplice apprendimento del fare, ma del pensare (riflettere sul fare) dall’esperienza. Il lavoro mette in risalto un nodo centrale della formazione qual è quello rappresentato dal tutor clinico. L’autrice sottolinea come in alcune esperienze di tirocinio siano stati attivati i tutor clinici ma di fatto questi sono presenti a livello nazionale in maniera disomogenea. In ciò traccia altresì un breve elenco delle situazioni didattiche formative: laboratori pre-clinici di competenze pratico-relazionali, simulazioni, sessioni di analisi dei casi (briefing e debriefing). In merito in un articolo pubblicato nel 2018, Andreina Zavaglio [10] – assieme ad altri autori – fa il punto sul ruolo del tutor a partire dalla realtà piemontese, in cui si ritrovano tre figure specifiche: guida di tirocinio, tutor clinico e tutor pedagogico. I primi due inseriti nelle realtà di svolgimento dei tirocini, mentre la terza relativa ai Corsi di laurea, legati alla didattica professionalizzante lungo un percorso connotato da tre macro-aree ben definite: didattiche, organizzative e di supervisione. Due i cardini portanti della teoria e della metodologia adottata dal tutor didattico: la supervisione pedagogica e la riflessività. La supervisione pedagogica è uno strumento meta-riflessivo utile ad un’analisi della didattica sul piano del significato, della progettualità e dell’intenzionalità in essa contenute. Lungo questa consapevolezza diventa funzionale ad evidenziare criticità, volta per volta, incontrate nel dispiego del progetto educativo, mettendo in luce la cesura fra quello che la didattica veicola ed il risultato ottenuto, lungo una prospettiva di dare significato e significanza all’azione educativa esperita. La supervisione diventa così strumento a guardia dei progressi legati all’apprendimento modulati dall’esperienza, momento di riflessione della strutturazione dell’identità e della costruzione della conoscenza professionale e trasmissione delle stesse. I meccanismi attivati dalla supervisione in merito, si pongono lungo le dimensioni organizzative, didattiche e relazionali del tutoraggio. Nell’azione educativa quindi all’improvvisazione della contingenza (utile da riprendere per l’accenno all’addestramento in chiusura) si pone sempre una progettualità di fondo atta ad esprimere intenzionalità educativa, che ne legittima la titolarità, atta a mobilizzare le risorse necessarie alla costruzione del professionista.

Alla dimensione teorica e pratica dei percorsi formativi viene sollevata la questione di affiancare in parallelo anche la costruzione dell’identità valoriale della professione attraverso la definizione di una lista definita di valori strutturali (core values). In merito Pillastrini, assieme ad altri autori [11], pone la questione su di un piano analitico e strumentale, mettendo al centro la costruzione di strumenti utili a tale valutazione. Il lavoro sottolinea cinque valori distintivi da considerare: 1) la responsabilità, declinata come consapevolezza delle funzioni e del ruolo legate al lavoro svolto; 2) la dedizione, intesa come la capacità di anteporre l’interesse del paziente ai propri; 3) l’empatia  nei termini relativi alla capacità di immedesimarsi;  4) l’eccellenza, quale tendenza ad acquisire nuove e aggiornate conoscenze ponendosi sempre in termini relativi all’apertura e al cambiamento, e all’uso del pensiero critico [12]; 5) senso del dovere e integrità, tutto ciò che afferisce alla costruzione etica del proprio Io professionale [13]. L’uso continuo di strumenti valutativi per misurare i progressi dello studente nell’implementazione dei valori descritti permette di definire la riuscita dei programmi svolti [14] evitando quell’appiattimento meramente tecnicistico e nozionistico su cui i percorsi formativi, talvolta, rischiano di arrestarsi [15]. È un percorso dinamico, che deve essere in linea con le prospettive stesse dell’aggiornamento e della revisione dei curricula entro brevi spazi temporali [16], dai tre ai cinque anni, in cui le discipline umanistiche devono necessariamente trovare spazio [17]. Il docente, nel suo ruolo di trasmissione di saperi e facilitatore di processi di apprendimento, parte da un’impostazione in cui lo studente è posto al centro, attore in itinere del programma istruttivo [18] [19], in grado egli stesso di regolare e valutare la sua formazione [20], a partire dai molti strumenti valutativi presenti in letteratura [21] [22].

Lotti sottolinea, nell’importanza della scelta di modelli pedagogici [23] basati sulla progettazione per competenze, la centralità di creare una continuità e una contiguità fra mondo del lavoro e mondo della formazione, in special modo in tema di mondo accademica e costruzione delle professionalità, nella definizione degli obiettivi da perseguire, degli strumenti da mettere in campo per ridurre il divario fra la pratica e la teoria, gli ambienti e le azioni simulate (laboratori), le soggettività formative attivate in qualità di mentor, tutor o coach, lungo un percorso che deve tenere in considerazione la necessità ad ogni modo di sviluppare nel discente la riflessività e lo spirito critico necessari [24]. Diversi sono i possibili modelli formativi da seguire per lo sviluppo del core competence. Fra i principali vanno ricordati il modello Tuning e il modello UE, di carattere generalista, e il modello Guilbert e quello CanMEDS, più specifici per le professioni sanitarie di cui possono essere prese in considerazione, ad esempio, le peculiarità presenti nei corsi di educatori professionali, dietisti, fisioterapisti ed infermieri.

Il modello Ue è quello che introduce, con la dichiarazione di Bologna del 1999, il termine di learning outcome, inteso come risultato finale del processo formativo, espressione della trasmissione dei saperi da parte del docente (input) che, attraverso l’applicazione di programmi, tirocini, laboratori (throughput) arriva ad un risultato finale (output), il quale però deve essere spendibile sul mercato del lavoro, deve prevedere la mobilità e l’occupabilità dello stesso professionista inteso come risorsa a disposizione del contesto sanitario di riferimento. I learning outcome sintetizzano questa prospettiva in termini di acquisizione di competenze, lungo la definizione Data del termine competenze, quale: “comprovata capacità di utilizzare conoscenze, abilità e capacità personali, sociali e/o metodologiche, in situazioni di lavoro o di studio e nello sviluppo professionale e personale.[25]  Il tale ottica il processo formativo del professione si struttura lungo tutto il percorso di carriera e non unicamente stretto all’interno dello spazio temporale della formazione accademica la quale, secondo l’European Qualification Framework (EQF) per i corsi triennali, comprende sei distinti livelli, cui ne segue un settimo relativo alla formazione post-base (master e magistrale) e l’ultimo livello relativo al dottorato. Il modello Tuning prende corpo all’inizio degli anni 2000, con la finalità di rendere comparabili ed armonici i programmi di studio all’interno dell’Unione Europea, incentrati sulla formazione dello studente più che sul programma, permettendo così una maggior mobilità all’interno dei paesi di studenti e docenti. L’armonizzazione delle risorse didattiche è volta alla valorizzazione delle peculiarità individuali e di contesto. Il punto di partenza del modello di Tuning è finalizzato ad avvicinare la formazione all’ambiente lavorativo, la teoria alla pratica, prendendo in considerazione sei diverse sezioni: scopi, caratteristiche del corso e ulteriori percorsi formativi, all’interno di una metodologia che preveda passaggi sequenziali fra insegnamento, apprendimento e valutazione, nella definizione delle competenze attese nel quadro finale dei learning outcome, strettamente correlate alla sua occupabilità, alla possibilità di spendersi all’interno del mondo del lavoro, riconosciuto dall’associazionismo e dalle istituzioni. Tre le differenti aree di competenza, (declinate in trenta diverse tipologie): strumentali (capacità cognitive e linguistiche, tecnologiche e metodologiche), interpersonali (capacità individuali di collaborazione e interazione), sistemiche (è la risultante finale della combinazione delle prime due capacità dove i saperi si coniugano alle percezioni). Le indicazioni del modello di Tuning [26] ricordano le tassonomie declinate da Benjamin Bloom [27] e la metodologia pedagogica di Mager [28] ove veniva posta attenzione su elementi portanti quali l’uso di un verbo attivo, un oggetto riferito, un contesto di riferimento ed un metodo di lavoro.

Il modello CanMEDS [29], il cui acronimo rimanda alla strategia adottata in Canada per la formazione dei medici lungo lo sviluppo globale delle competenze in termini di: medico esperto, comunicatore, collaboratore, leader, formatore, professionista, e politico della salute. L’obiettivo educativo delle competenze da acquisire è strettamente correlato alla scelta dei programmi, dei metodi e dei sistemi di valutazione, nonché alla necessità di “formare gli stessi formatori”, a partire dal curriculum e dalla formazione pedagogica del docente. Infine il modello Guilbert [30] prende il nome dal medico – Jean Jacques Guilbert che lo ha sviluppato negli anni ’70. Rivolto inizialmente anche questo alla formazione medica è stato trasposto in relazione a quella infermieristica. A partire dalla fine degli anni ’90 in Italia, su mandato della stessa Federazione nazionale dell’Ipasvi, è stato definito un gruppo di studio in relazione proprio alle competenze da sviluppare nei corsi triennali e magistrali della professione [31]. Il modello Guilbert è antesignano dei learning outcome e propone una classificazione maggiormente schematica rispetto a quella elaborata da Bloom negli anni ’50, composta da tre diversi campi: della sfera intellettiva, della comunicazione interpersonale e dei gesti e tecniche procedurali. Il quadro finale è quello di una dimensione dottrinale dell’infermieristica che in questi ultimi anni ha saputo dotarsi di modelli teorici di riferimento al passo con le più innovative tensioni pedagogiche, e al tempo stesso ha iniziato ad investire verso figure specifiche di tutor, risorse dinamiche degli studenti di oggi, e professionisti di domani. In tutto ciò si aprono scenari e sfide che non possono disattendere però la possibilità di scavare ulteriormente in profondità sul piano identitario di formatori e studenti, a partire, come si schematizzerà nelle prossime righe, dagli strumenti dell’Hidden Curriculum e della Clinica della formazione.

 

Alle radici della trasmissione dei saperi professionali: la clinica della formazione e hidden curriculum
John Dewey nel suo saggio [32] del 1897 – Il mio credo pedagogico – affermò: “Ogni educazione deriva dalla partecipazione dell’individuo alla coscienza sociale della specie. Questo processo s’inizia inconsapevolmente quasi dalla nascita e plasma continuamente le facoltà dell’individuo, saturando la sua coscienza, formando i suoi abiti, esercitando le sue idee e destando i suoi sentimenti e le sue emozioni. Mediante questa educazione inconsapevole l’individuo giunge gradualmente a condividere le risorse intellettuali e morali che l’umanità è riuscita a accumulare.” Dewey è uno dei padri della pedagogia moderna, al cui interno riesce ad inserire elementi propri del pragmatismo statunitense (inteso come corrente filosofica) in una prospettiva intellettuale che fa da ponte tra il XIX ed il XX secolo. Nel passaggio citato si ritrova il termine di “abiti” che risulta quasi anticipatorio al ben più ampio ed articolato concetto di habitus che verrà elaborato dal sociologo francese Pierre Bordieu, nella seconda metà del ’900, all’interno della teoria dell’azione sociale. Per Bordieu l’habitus è lo strumento interpretativo dei meccanismi della riproduzione sociale in stretta correlazione con la struttura sociale di riferimento (professione, religione, etnia, classe sociale, etc.). In particolare in un lavoro fatto assieme a J.C. Passeron [33]La reproduction – il sociologo francese prende in esame in maniera estremamente critica il sistema scolastico del suo paese, più incentrato a riprodurre le strutture dominanti, che a trasmettere il sapere in quanto tale. Il sistema educativo, ed in questo la formazione, diventa quindi strumento di diffusione dei codici interpretativi ad esso correlati.

I due autori hanno la funzione di costituire un cono di luce sul le questioni relative l’educazione in generale, in cui la trasmissione del sapere, ed ancor più la formazione del professionista, risultano i prodotti di una molteplicità di fattori inerenti l’individuo ed il suo ambiente, sia in posizione di discente o ancor più di docente. In merito si ritiene utile portare la sintesi di due diversi contributi relativi alla formazione infermieristica, in cui sono riportate le testimonianze di formatori. Nel primo caso queste si presentano come il prodotto di una ricerca articolata che ha preso in esame un campione di ben 25 formatori infermieri all’interno di corsi di laurea. Mentre la seconda testimonianza deriva dall’esperienza di “formazione vissuta”, sorta di nursing narrative specifico, relativo ad un Corso di laurea in terra ligure.

La ricerca è quella fatta nel 2011[34], a cura di Zannini, Randon e Saiani, in relazione alle questioni formative in campo infermieristico, dove vengono sollevati alcuni concetti interessanti, come quelli riferiti al curriculum nascosto (hidden curriculum) e la clinica della formazione. Il lavoro prende in considerazione la vasta letteratura presente, a partire dal pensiero espresso da Philip Jackson [35] che sottolinea, come all’interno delle conoscenze trasmesse, vi siano sia degli elementi espliciti, propri del portato scientifico del sapere, sia dei costrutti impliciti, fortemente condizionati da norme, atteggiamenti e credenze legittimati e premiati, o meglio veicolati, dal docente stesso. Il pensiero di Jackson viene riassunto dall’autore appunto nel concetto di hidden curriculum (Hc) che verrà poi ripreso da altri negli anni successivi quali Bain [36], Margolis [37], Kentli [38], i quali si interesseranno delle dimensioni latenti ed inespresse dell’insegnamento stesso, rispetto non solo agli insegnanti ed agli studenti, ma oltremodo a tutti gli attori che concorrono a formare l’ambiente organizzativo ed istituzionale in cui il discente espliciterà il suo percorso di formazione. Il quadro schematicamente tracciato, assume una certa rilevanza poi in ambito sanitario, rispetto al quale Bell [39] mette in evidenza la cesura che si manifesta spesso fra l’insegnamento teorico richiesto dai curricula e quello effettivamente trasmesso, ancor più in relazione alla pratica nei contesti clinici. Nella sostanza Bell pone l’accento sulla particolarità dell’ambiente sanitario in cui la crescita professionale è costantemente correlata ad una risultante formativa derivante dall’apprendimento dei saperi clinici ed assistenziali verificati direttamente e continuamente “sul campo”. La bibliografia di riferimento della ricerca di cui si è detto, prende in esame un altro autore, quale Tanner [40] che rileva la centralità del Hc nel percorso degli infermieri. Egli evidenzia come questi veicolino, all’interno della costruzione del loro sapere professionale, una socializzazione sottile, figlia non solo dei saperi trasmessi, ma del contesto in cui si viene inseriti, che forma e conforma l’essere e il sentirsi infermieri.

Il quadro teorico così tracciato ha la capacità suggestiva di restituire l’immagine di una professione stretta lungo il suo piano formativo all’interno di due polarità, in cui la chiave interpretativa più comune, è ben riassunta dall’affermazione tipica, a volte udita in sede di tirocinio, che all’incirca somiglia alla seguente frase: “Bene, nelle aule ti è stata insegnata una cosa, ma qui si è fatto sempre così”. La ricerca in oggetto, ha valutato il portato narrativo dei formatori stessi, rivolgendosi ad un campione di 25 infermieri formatori esperti, dell’Italia del Nord e Centrale, valutati attraverso gli strumenti propri della Clinica della Formazione (CdF), rilevati in appositi focus group. I risultati sono stati presentati nel 2011 e ulteriormente rielaborati in chiave pedagogica cinque anni dopo. Prima di illustrarli è necessario descrivere brevemente però che cosa è la già citata CdF.

La CdF è uno strumento che permette di leggere ed interpretare, da parte di un formatore, la propria esperienza lungo un continuum percettivo che scava, attraverso un percorso di ricerca-intervento, il portato profondo di docente/discente da cui prenderà considerazione la sua storia. La risultante finale è la rappresentazione delle esperienze passate in qualità di formatori che si riverberano, in misura diversa, nella stessa trasmissione del sapere. In tal senso Lucia Zannini, assieme agli altri autori, nel lavoro del 2016, riprende le tesi di Massa [41] che definisce le diverse letture che strutturano il portato formativo, in quelle che lui chiama deissi, termine modulato dalla linguistica e riferito ad un livello comunicativo che non si concretizza in parole ma in un diretto richiamo spazio-temporale di una situazione esperita. Quello che secondo Massa va tenuto in considerazione all’interno della CdF, sono: la deissi interna (relativa alla narrazione della propria storia personale e professionale), la deissi esterna, modulata dall’altrui esperienza (rappresentata all’interno di una proiezione filmica) e la deissi fantasmatica con valenze simboliche utili a far riemergere vissuti e desideri, speranze ed ansie, proiezioni di sé ed emozioni perdute. Le deissi identificate da Riccardo Massa diventano così strumento di una CdF in cui l’etimologia della parola clinica – klinè (letto) e klinein (chinarsi) – restituisce l’azione primaria di avvicinarsi all’oggetto dello studio ed osservarlo con maggiore attenzione al fine di rilevarne le caratteristiche non immediatamente visibili, anche se oltremodo importanti [42]; [43]. Le dimensioni nascoste – definite appunto come latenze – da rilevare secondo Massa, sono in numero di quattro: quella referenziale o narrativa (sul piano riflessivo che il singolo costruisce), quella cognitiva (rappresentativa di modelli teorici e ideali dell’agire quotidiano), quella affettiva (il mondo delle interazioni e relazioni sul piano emozionale), ed infine quella procedurale e pedagogica (risultante dei condizionamenti sociali, culturali, economici, politici, etc.).

Il pensiero di Massa diventa centrale nell’esplicitare la CdF quale strumento con funzioni di supervisione e ricerca in cui il focus primario riguarda la rilevazione degli affetti e delle rappresentazioni che entrano in gioco nell’agire educativo. Lungo questa consapevolezza, che analizza i vissuti della storia formativa di 25 infermieri formatori, il lavoro di Zannini, Randon e Saiani si colloca dunque all’interno del solco della ricerca-intervento in cui l’hidden curriculum diventa l’oggetto di studio attraverso lo strumento della CdF al fine di esplorare le latenze presenti, i punti di vista dei formatori infermieri stessi a partire dal loro vissuto passato di discenti. I risultati della ricerca hanno evidenziato una formazione che si realizza all’interno di un contesto organizzativo rigido, poco facilitante l’apprendimento, con un percorso in cui vengono registrati atteggiamenti svalutanti, quando non umilianti, letti però in un’ottica iniziatica che crea demotivazione e tendenza al drop-out. Lo strumento della CdF ha permesso di rilevare il persistere delle influenze, dei condizionamenti di modelli in cui la metafora militare continua ad essere considerata efficace di fronte ad una visione che vuole la costruzione del professionista a partire dalla destrutturazione dell’individuo stesso, restituendo l’immagine del bravo infermiere come colui che prova su di sé un vero e proprio percorso di resilienza che si riproduce nella trasmissione dei saperi e nell’accompagnamento del noviziato. Un quadro finale abbastanza forte che però deve essere interpretato oltre immediate e spontanee reazioni. Nella formazione infermieristica, ma del professionista sanitario in generale, la “metafora” militare – come si è detto – sembra una costante, tributaria di una funzione pedagogica desueta atta ad esaltare le virtù del singolo in relazione al mandato, teorico e pratico, di cui si deve far carico, in termini che sembrano utili solo a modellare un mero esecutore di ordini e nulla più. Il risultato della ricerca fatta, nella sostanza rappresentano la punta di un iceberg, che richiama la necessità di fare qualche passo avanti nell’organizzazione formativa, nella dotazione delle risorse, nelle prospettive e negli obiettivi da raggiungere. La clinica della formazione si è rilevata utile a tracciare un orizzonte di riferimento che si arricchisce di ulteriori contributi, in relazione ai quali viene presa in considerazione la testimonianza dell’esperienza didattica esperita in Liguria, di cui si è accennato all’inizio, all’interno di un quadro analitico che solleva ancora le questioni legate all’hidden curriculum, di cui, nelle prossime righe, si parlerà in maniera più approfondita.

Nella ricognizione delle esperienze didattiche in campo infermieristico la testimonianza dei formatori risulta centrale al fine di conoscere risorse e criticità di sistema, in cui lo strumento della CdF (Clinica della Formazione) risulta centrale, come dimostrato da una ricerca del 2011 di cui si è detto. Lungo lo stesso percorso anche la valutazione della singola esperienza, di natura strettamente qualitativa, letta in un’ottica paradigmatica propria del nursing narrativo, può fornire utili dati da valutare. Lungo questo tracciato si può collocare quindi la testimonianza offerta da Marisa Siccardi durante un’intervista, raccolta nel corso di un congresso internazionale di infermieri [44], densa di un portato narrativo tale da restituire aspetti del passato ricchi di una modernità quasi avveniristica. Il racconto prende forma a partire dal contesto di riferimento, quello della fine del XX secolo, poco dopo la trasformazione delle Scuole per Infermieri Professionali in corsi triennali. Allora la Siccardi era coordinatrice didattica presso il corso di La Spezia, sezione dipendente dall’Università di Genova. In quel contesto, in prossimità di avviare alle prime esperienze di tirocinio gli studenti del 1° Anno, dopo la prevista preparazione teorica, questi venivano accompagnati presso il Mercato Generale della città, alternandosi per circa 30 minuti ora al banco dell’ortofrutta ora a quello della pescheria. La pratica si ripeteva in tre giornate, in cui i compiti principali erano quelli di rilevare l’esperienza sensoriale derivata dall’ambiente circostante in termini di ascolto (conversazioni, rumori, silenzi), di osservazione (comportamenti, azioni, colori) e di percezione degli odori.

L’esercizio non era lasciato all’improvvisazione, ma aveva un mandato ben preciso. Gli obiettivi espressi riguardavano la rilevazione e la comprensione dei bisogni primari delle persone, del portato delle relazioni interpersonali (come ad esempio rispondere al perché molti clienti si rivolgevano più ad un venditore che ad un altro, a parità di merce e prezzi) in un contesto di vita quotidiana; mentre gli obiettivi inespressi, riguardavano direttamente gli studenti nella loro capacità di attivare processi cognitivi e sensoriali, conoscerli e gestirli. Alla fine dei tre giorni gli studenti dovevano presentare una relazione che avrebbero discusso, confrontandosi, in plenaria. Un passaggio significativo della testimonianza di Marisa Siccardi merita di essere riportato come tale: “L’ascolto e l’osservazione al mercato fu molto istruttivo: dalla tipologia di persone per sesso ed età che si avvicendavano in ore diverse, con più o meno fretta, biglietti pro-memoria alla mano, disabilità ecc., così come recepire che il venditore prediletto alle persone anziane che si presentavano di prima mattina, prima ancora di chiedere cosa volevano, domandava semplicemente come avevano trascorso la notte: cento miei bla-bla ripetuti sul tema non avrebbero avuto lo stesso effetto. Gli allievi rivolsero anche la parola a un clochard che stava in un angolo della piazza: instaurarono un rapporto, parlarono della loro esperienza lì, scoprirono che era un poeta con una triste storia legata alla perdita della sua compagna”. Il quadro finale restituisce un approccio a dimensione d’uomo dove l’esperienza obbliga ad un confronto con la realtà che non snatura il portato individuale del discente, ma anzi gli da la possibilità di esprimersi liberamente, di trovare la sua strada, di capire come modulare il portato personale con la veste di professionista.

Simile alla sperimentazione narrata, ci sono dei veri e propri protocolli formativi per gli studenti infermieri in diversi paesi. Esemplificativo è quello dell’Università Statale di Washington, riportato in un documento dell’ICN[45] (International Council of Nurses), in cui è previsto, una volta conseguito la laurea, quasi a coronamento del titolo acquisito, un semestre ulteriore in Infermieristica di comunità, spesso sostenuto nei quartieri più poveri della città di Spokane, dove le questioni sanitarie si legano strettamente ai problemi sociali di mancanza di reddito, casa o lavoro, con storie di dipendenza e di disagio mentale. Nel documento dell’ICN sono riportate le parole, significative, di una studentessa che afferma: «Non sapevo che ci fossero tanti senza tetto a Spokane. […] Ora io riconosco le persone. Invece di dire: Oh! C’è un senza tetto laggiù, posso dire: Ehi! C’è Gary!”. Adesso hanno un nome.”». Una testimonianza quasi sovrapponibile a quella di Marisa Siccardi. L’altro da se viene riconosciuto, oltre la stretta categorizzazione socio-economica, ed ancor più sanitaria, e viene assunto come individuo cui il professionista – in questo caso l’infermiere, ma riferibile a qualsiasi sanitario – riesce a rivolgersi in un’ottica globale dove non viene destrutturata né la personalità del paziente, né quella del professionista stesso, in cui spesso riverberano le storie di vita degli assistiti, lungo una prossimità relazionale che rimanda, sul piano formativo, a quello che costituisce il portato centrale dell’hidden curriculum (Hc) di cui si è accennato nel precedente articolo, e sul quale è necessario tornare a soffermarsi.

Per cogliere il peso specifico del Hc, lo stesso deve essere posto all’interno di un quadro teorico di riferimento in tema di formazione. A tale proposito è utile ciò che Dreeben [46], solleva riguardo all’insegnamento in campo medico. Secondo l’autore tre elementi specifici vanno a concorrere alla costruzione del professionista: la struttura fisica, la conoscenza fondamentale e l’Hc. La struttura fisica si riferisce a tutto ciò che concorre strumentalmente al processo formativo: dagli elementi fisici veri e propri (edifici, aule, laboratori, etc.) all’organizzazione stessa di lezioni, seminari, conferenze, dagli orari previsti alla frequenza e durata dei corsi. Un contenitore insomma, che alla fine si mostra abbastanza definito, che lascia poco spazio a tempi di adattamento, chiarificazione, definizione di domande o richieste. A questa dimensione si affianca quella propria del curriculum tradizionale, costituito dalle conoscenze scientifiche da veicolare. Una parte su cui si concentra oltremodo l’attenzione, come sottolinea in merito Stefanini [47], non considerando l’influenza della struttura fisica e men che meno quella del curriculum nascosto (Hc). Stefanini afferma che: “Non tutto quello che è insegnato durante un corso di laurea è compreso nel programma delle lezioni, nelle letture e nei libri di testo, nelle note raccolte durante le lezioni o nelle dispense prodotte da docenti o studenti per superare gli esami. Una buona parte di ciò che è insegnato nel percorso di formazione medica, e molto di ciò che viene imparato, è infatti contenuto non tanto nell’offerta o nel pacchetto didattico formale rintracciabile online, ma nel curriculum nascosto. Si tratta di quel messaggio indelebile, non scritto, spesso non verbale, che una persona porta con sé dopo avere partecipato a un determinato evento o esperienza educativa”. Le considerazioni di Stefanini sono riprese anche da Loredana Sasso e Annamaria Bagnasco in una traduzione di un lavoro d’infermieristica, riferendosi specificamente all’esperienza condizionata all’interno di quella che le autrici chiamano come “comunità di pratica” in cui lo studente si identifica [48]. Più volte si è sottolineato l’impatto negativo sulla personalità del discente, in merito Lempp e Seal [49] ricordano come un’educazione condizionata dal curriculum nascosto possa comportare nello studente l’adozione di una identità ritualizzata, la perdita dell’idealismo, ripercussioni sull’integrità etica, passività nei confronti della gerarchia e, in particolar modo, interiorizzazione degli aspetti meno formali del “bravo medico”. Ai due autori fa eco Lampiani ed altri in un altro lavoro [50] che, riprendendo il pensiero di Debreen, pone l’attenzione sulla definizione, irrinunciabile, del curriculum formale, quanto sull’aggiornamento degli altri elementi propri della formazione per poter costruire un professionista della salute adeguato al sorgere di nuovi bisogni.

Il quadro finale che si ottiene è un orizzonte appena tracciato delle molte questioni aperte sul piano del sapere pedagogico, della formazione in generale ed ancor più di quella dei professionisti in campo sanitario. La globalità dell’approccio e le criticità emerse dallo studio di Zannini, Radon e Saiani, unite alla narrazione, quasi un trance de vie, offerta dalla Siccardi, mostrano un ambito formativo posto fra due distinte polarità. Da un lato quella direttiva, gerarchica, stretta, inevitabilmente tra sapere scientifico e rigore metodologico, resa ancor più rigida dall’onnipresente parsimonia di risorse in tema di istruzione, dall’altra parte c’è la dimensione percettiva, identitaria, e coinvolgente dell’esperienza agita, riprodotta e narrata. La sintesi fra queste due diverse testimonianze offre una prima chiave di lettura della dimensione composita formata dal curriculum nascosto, da quello formale e dalla struttura fisica stessa della didattica. Difficile da chiarire ulteriormente nelle poche righe scritte, ma che necessita di approfondimenti teorici a partire dai rilievi propri della medicina narrativa e della cultural competence, delle suggestioni – e degli insegnamenti – del touch care e dello human caring elaborato da Jean Watson, fino al necessario tributo al modello del sole nascente dell’antropologa ed infermiera Madeleine Leininger, e più in generale con tutto il mondo dei contenuti propri di quelle definite come humanities. Un panorama teorico di riferimento per una formazione moderna sul quale si dovrà ritornare in termini ulteriormente approfonditi.

Un quadro riassuntivo fra suggestioni future e risonanze emotive
Il portato di queste poche righe non può non confrontarsi con la dimensione contingente di un frammento di storia drammatica come quello attuale che, da più di un anno, l’intera umanità sta vivendo a causa della pandemia di Covid-19. Gli elementi di riferimento immediati sono quelli che possono richiamarsi all’esperienza empirica descritta da Marisa Siccardi, relativi però ad un’ambientazione decisamente diversa, in cui l’affermazione più comune che scandisce questo tempo è simile alla seguente: “Eravamo preparati a tutto, ma non a questo”, presente in centinaia di commenti di sanitari (medici, infermieri, operatori, tecnici e molti altri ancora) i quali si sono trovati a dover gestire le prime drammatiche giornate del crescere pandemico fra febbraio e marzo del 2020. Una narrazione che parla di contesti lavorativi diversi: dalle terapie intensive ai vari reparti di area critica, nonché all’interno dei mezzi di soccorso o, parimenti, alle unità di lungodegenza e ai servizi della residenzialità territoriale in cui tutto è diventato dannatamente più difficile. La dimensione didattica delle misure di profilassi da adottare in una pandemia non rappresenta certo la punta avanzata di insegnamenti pedagogici che consentono dubbi, discussioni, o dibattiti di sorta. I protocolli non permettono eccezioni, le sequenze nell’indossare i DPI vanno ripetute in maniera ossessiva quasi, i percorsi definiti per le aree a rischio e quelle Covid free diventano tanti muri di Berlino in miniatura. Viene saltata direttamente la fase di una formazione legata all’apprendimento, al confronto, all’interiorizzazione ragionata, e si appiattisce tutto, non potrebbe essere altrimenti, sulla dimensione del semplice – ed efficace – addestramento tout court. In centinaia e centinaia di strutture sanitarie in Italia (ed ovunque nel resto del mondo) si sono approntati sintetici corsi di aggiornamento sulle principali norme, procedure e regole da seguire di fronte ad un’infezione di cui si sapeva molto, viste le sue caratteristiche epidemiologiche, ma di cui si conosceva ancora troppo poco sul piano clinico, terapeutico ed assistenziale.

L’addestramento richiesto ha mirato a due obiettivi principali da raggiungere: la necessità del singolo e del gruppo di seguire pedissequamente le nozioni apprese e una capacità di adattamento senza alcuna possibilità di replica da parte dei discenti; senza alcuna possibilità di approfondimento da parte dei docenti. Un quadro che ha coinvolto, in misura diversa, nell’apprendimento, giovani e vecchie generazioni, novizi e veterani, portatori di saperi specializzati e non. Ognuno ha dovuto fare i conti con sé stesso, con il suo grado di conoscenza e di resistenza, ancor più della resilienza, ad un trauma, lungo settimane, che si stava profilando all’inizio della primavera del 2020 e che ancor più ha annunciato – e mantenuto – il suo ritorno alle porte dell’autunno. Il veterano ha istruito il novizio per l’addestramento ad un mondo – in particolare quello dell’area critica – in cui la modulazione dell’intervento, la dimensione relazionale, le abilità dei singoli hanno poco spazio di differenziazione in un processo inevitabilmente standardizzato al fine di definire a monte ogni possibile evento. La dimensione individuale, la formazione che crea differenza, auspicata in altri frangenti, si trasforma nel pericolo di aprire le porte all’imprevedibilità sanitaria. “Eravamo preparati a tutto, ma non a questo”. Un’eco narrativa sulla quale ognuno strutturerà un suo hidden curriculum, pronto a riprodursi nel tempo lungo i percorsi della clinica della formazione, sia in ambito formativo in maniera diretta, nei corsi accademici, sia nei percorsi di tirocinio, ed ancor più in quei contesti lavorativi in cui l’esperienza si fa quotidiano insegnamento, individuale e di gruppo, risorsa esperienziale e proiezione verso i saperi futuri. Il Covid-19 ha apportato un carico formativo violento che sarà veicolato da quelle risonanze emotive che proprio dall’area critica, ma più in generale dalla narrativa sanitaria investono i singoli e ne condizionano l’evoluzione professionale.

Il termine risonanza emotiva rimanda all’intelligenza emotiva di cui si è detto all’inizio, ed anche in questo caso è stata studiata da Goleman, assieme ad altri autori [51], evidenziando la capacità dell’individuo di essere più o meno empatico, lungo livelli di assonanza, risonanza o dissonanza emotiva, tanto differenti quanto la capacità del professionista sanitario, e più in generale di chiunque sia a diretto contatto con la dimensione della sofferenza e del bisogno, risulti coinvolgente, come ad esempio, Cavalli e Bovero [52] sottolineano in un loro lavoro in relazione al minore oncologico. La tematica delle risonanze emotive ad ogni modo assume una centralità che merita di essere ulteriormente conosciuta e indagata nel mondo delle professioni sanitarie, come ha suggerito ad esempio, in un recente lavoro di tesi una studentessa, ora collega infermiera, del Corso di Ancona, in relazione proprio allo stress professionale in Area critica [53]. Va detto inoltre che questo richiamo all’intelligenza emotiva del professionista vuol essere strumento di ulteriore focalizzazione sulla globalità caratterizzante l’identità dello stesso e la coscienza scientifica di cui è portatore. Connotazioni utili a mettere in rilievo anche quei punti di debolezza che si vengono a creare nella dimensione relazionale fra studente e formatore, fra metodologie impiegate ed obiettivi prefissati, e che possono farsi criticità nelle situazioni più varie generando ad ogni modo indesiderati effetti come, ad esempio, quello di Dunning Kruger, la cui spiegazione necessita di qualche ulteriore riga scritta imposta all’attenzione del lettore.

L’effetto Dunning Kruger [54] deriva dal campo della psicologia e può essere definito come l’illusione della competenza. Nella sostanza è un pregiudizio meta-cognitivo che si realizza quando un individuo incompetente non sa di essere tale ed è presente in particolar modo in quelle persone troppo sicure di sé, ma prive di abilità auto-valutative e quindi portate sovrastimare le loro capacità, producendo una distorsione cognitiva [55] la quale, sul piano pedagogico, viene messa ancor più in risalto, come percezione alterata del proprio grado di competenza se unito ad una predominanza dell’uso dei social network [56] come fonte di informazioni. Un combinato comportamentale che può aumentare i comportamenti a rischio per l’effetto Dunning Kruger, in particolar modo nelle giovani generazioni, le stesse che accedono alla formazione universitaria. In merito Trinchero ricorda come, al contrario, il possesso maggiore di strumenti concettuali, faciliti uno spirito critico nei confronti del proprio grado di preparazione fino addirittura a produrre una sottovalutazione [57]. E’ bene ricordare che l’effetto Dunning Kruger non va confuso con I limiti propri del noviziato. Ogni principiante, ponendo un po’ più di fiducia in sé stesso, a volte va incontro a degli errori. Involontari in verità, specie se e quando cercherà di porvi rimedio. L’effetto Dunning Kruger non riguarda il novizio, ma pone l’attenzione sulla supposta credenza di un individuo di poter essere ad ogni modo competente in tempi di pandemia dove il mondo degli esperti propende per l’adesione a schieramenti di sorta non sempre particolarmente legati a differenti approcci scientifici e funzionali, il più delle volte, ad aumentare un senso indefinito di angoscia e ad attirare, da un lato e dall’altro, schiere di laureati all’accademia di internet.

Certamente è bene ricordare che la percezione del grado di preparazione può essere alterata a causa anche di situazioni estreme legate ad uno stress lavorativo continuo, alla tipologia del servizio e all’esperienza contingente vissuta. Un quadro che rimanda all’attualità del momento in cui la direttività dell’addestramento per l’adozione delle misure anti-Covid non necessariamente può rappresentare l’acquisizione di quegli automatismi operativi necessari. In tutto ciò si impone una riflessione che deriva dalle considerazioni generali fatte in queste pagine all’interno di una formazione, nei contenuti veicolati e negli strumenti mobilizzati, strettamente correlata al contesto storico che si attraversa, attraverso un percorso professionalizzante e di vita, nella consapevolezza che identità professionale e coscienza scientifica rappresentano differenti espressioni della stessa impalcatura che costituisce un individuo, studente in formazione e formatore in discussione, lungo un piano prospettico inevitabilmente teso all’infinito.

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Berlino, Museo ebraico, cortile interno

Figura 1 – Berlino, Museo ebraico, cortile interno

Berlino, Museo ebraico, IL Giardino dell’esilio

Figura 2 – Berlino, Museo ebraico, IL Giardino dell’esilio

Berlino, Memoriale dell’olocausto

Figura3 – Berlino, Memoriale dell’olocausto

Berlino, Museo ebraico, scala interna, particolare

Figura 4 – Berlino, Museo ebraico, scala interna, particolare

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