Giuseppe Verdi e la sofferenza umana

di Alberto Pellegrino

Giuseppe Verdi venne alla luce nel 1813 a Roncole, una piccola frazione del Comune di Busseto, che in quell’anno faceva ancora parte del Dipartimento del Taro, annesso alla Francia di Napoleone Bonaparte. Il piccolo Giuseppe non rimase a lungo cittadino francese, perché nel 1815 Busseto entrò a far parte del Ducato di Parma, Piacenza e Guastalla, governato da Maria Luigia, arciduchessa d’Austria, seconda moglie di Napoleone. Il padre Carlo, oltre a occuparsi di alcuni terreni della parrocchia, gestiva l’Osteria vecchia e doveva essere un uomo dal carattere difficile che avrà in futuro diverso scontri con figlio. Verdi dimostrò fin da una tenera età una particolare attrazione per la musica, rimanendo affascinato dai suonatori ambulanti che frequentavano l’osteria paterna. A cinque anni egli iniziò a prendere lezioni da don Pietro Baistrocchi che gli insegnò a suonare l’organo della chiesa parrocchiale di San Michele Arcangelo e soli nove anni fu nominato organista con un assegno annuo di 36 lire, più i provenienti derivanti dalle varie funzioni religiose. Nel 1821 il padre gli regalo una vecchia spinetta e l’artigiano Stefano Cavalletti, che restaurò lo strumento, v’incise che “vedendo la buona disposizione che ha il giovinetto Giuseppe Verdi d’imparare a suonare questo strumento che questo mi basta per essere del tutto soddisfatto”.

Il padre decise di mandare il figlio a Busseto per migliorare la sua educazione, molto probabilmente su consiglio di Antonio Barezzi, un ricco mercante appassionato di musica e presidente della Società Filarmonica che era diretta dal Maestro Fernando Provesi, il quale diventò il primo insegnante di contrappunto e composizione del piccolo Giuseppe, che inoltre studiò presso il locale ginnasio, ricevendo lezioni di lettere e di latino da don Pietro Selletti, direttore della biblioteca pubblica, che lo sollecitava a dedicarsi agli studi umanistici. La vera vocazione del giovane era però la musica, come dimostrano le numerose composizione giovanili che lo stesso Verdi definisce una “farragine di pezzi, marche per banda a centinaia: forse altrettante piccole sinfonie che servivano per chiesa, pel teatro e per accademie: cinque o sei tra Concerti e Variazioni per pianoforte che io stesso suonava nelle accademie; molte Serenate, Cantate, moltissimi Duetti, Terzetti e diversi pezzi da chiesa”.

Un uomo alle prese con le dure prove della vita

Nel 1831 Antonio Barezzi decise di ospitare Verdi nella sua casa per dare lezioni di canto e pianoforte alla figlia maggiore Margherita che diventerà poi la prima moglie del maestro. Scoperto questo legame sentimentale, la sua famiglia decise di inviare Verdi a Milano con una borsa di studio di 300 lire annue assegnatagli dal Monte di Pietà di Busseto. Sul suo passaporto egli è descritto “alto, magro, coi capelli castani, il naso aquilino, la barba scura e qualche traccia di vaiolo sul volto”. Nella capitale lombarda il giovane decise di presentare domanda di ammissione al Conservatorio, ma la commissione composta di illustri musicisti giudicò la sua prova pratica assolutamente insoddisfacente e decise per la non ammissione, provocando il primo e grande dolore per il giovane musicista che non perdonò mai per questa bocciatura.

Verdi continuò gli studi musicali privatamente con il maestro Vincenzo Lavigna e nel 1833 chiese il posto di organista presso la Collegiata di Busseto, ma la sua domanda non fu accolta per l’opposizione delle autorità ecclesiastiche. Soltanto nel 1836 egli vinse trionfalmente il concorso, poté sposare Margherita Barezzi e nel 1837 la loro unione fu allietata dalla nascita di Virginia. Verdi cominciò a progettare la composizione dell’opera Rochester (che diventerà Oberto, conte di San Bonifacio), cercando inutilmente appoggi per farla rappresentare nel Teatro Ducale di Parma. Il 1838 ebbe inizio il periodo “buio” nella vita del maestro che vedeva naufragare nel nulla i suoi sforzi e suoi sacrifici; la gioia per la nascita del secondo figlio Icilio fu breve, perché il 12 agosto moriva la piccola Virginia. Nonostante il dolore, Verdi si recò a Milano (scriverà “non per mero divertimento, ma per interessi di mia professione”) per far rappresentare la sua opera alla Scala.

Gli anni “neri” di Verdi

Nel febbraio 1839 Verdi, Margherita e il piccolo Icilio si trasferiscono definitivamente a Milano, dove l’impresario Bartolomeo Merelli riuscì a far andare in scena l’Oberto alla Scala, per cui il compositore si mise al lavoro per l’ultima revisione dell’opera, ma il 22 ottobre il piccolo Icilio morì improvvisamente e i due coniugi si chiusero in un doloroso e dignitoso silenzio. Grazie al sostegno morale di Margherita, il 17 novembre il maestro portò sulla scena l’Oberto, riscuotendo un notevole successo. L’editore Ricordi acquistò lo spartito e Merelli offrì a Verdi un contratto per tre opere da rappresentare alla Scala e sembro che le cose volgessero al meglio sotto il profilo professionale. Invece ebbe inizio quel terribile periodo che va dal 1839 al 1842 che Verdì definì “gli anni della galera”: il compositore s’ammalò di una grave forma di angina e fu costretto a interrompere il lavoro; bisognava pagare 50 scudi di affitto arretrato e Margherita, con grande coraggio e determinazione per una ragazza borghese di provincia, corse a impegnare al Monte di Pietà i suoi oggetti d’oro, riuscendo a far fronte agli impegni; come non bastasse, il 18 giugno 1840 Margherita scomparve per una grave forma di febbre cerebrale.

Il giovane Verdi, dopo avere assistito alla distruzione della sua famiglia e dopo aver visto crollare le sue speranze artistiche, si rifugia in una piccola pensione annientato dal dolore e tormentato dalla miseria, per cui decise di non scrivere più una sola nota musicale, anche perché l’opera buffa Un giorno di regno/Il finto Stanislao, andata in scena il 5 settembre 1839 alla Scala, aveva riscosso i fischi dal pubblico soprattutto per colpa dell’impresario Merelli, il quale non volle tenere presente che Verdi era un autore drammatico senza nessuna vocazione per il genere comico soprattutto in un periodo segnato da gravi lutti familiari. Nonostante Verdi sia solo e sfiduciato, con scarse risorse economiche e senza una vera ispirazione, sembrava che il destino avesse deciso di dare una svolta alla sua vita, facendolo uscire dal suo cupo silenzio. Una sera d’inverno del 1841 egli incontrò per caso Merelli che lo costrinse ad andare con lui alla Scala per consegnargli un libretto di Temistocle Solera intitolato Nabucodonosor, che l’impresario riteneva “stupendo e straordinario”.

Il compositore, a proposito di quella sera, scrive: “Strada facendo mi sentivo indosso una specie di malessere indefinibile, una tristezza somma, un’ambascia che mi gonfiava il cuore! … Mi rincasai e con un gesto quasi violento gettai il manoscritto sul tavolo, fermandomi ritto in piedi davanti. Il fascicolo cadendo sul tavolo stesso si era aperto: senza sapere come, i miei occhi fissarono la pagina che stava a me innanzi, e mi si affaccia questo verso: Va, pensiero, sull’ali dorate” …Leggo un brano, ne leggo due: poi fermo nel proposito di non scrivere, faccio forza a me stesso, chiudo il fascicolo e me ne vado a letto!…Ma Nabucco mi trottava pel capo!…il sonno non veniva: mi alzo e leggo il libretto, non una volta. ma due, ma tre, tanto che al mattino si può dire ch’io sapeva a memoria tutto quanto il libretto di Solera”. Quella notte era destinata a cambiare la vita del maestro, perché Nabucco gli aprirà la strada di quel successo che lo porterà a diventare il più celebre compositore del mondo.

Ancora una tormentata vicenda personale

Era comunque destino che Verdi non avesse una vita facile, dal momento che al suo fianco era apparsa una nuova presenza femminile: si trattava di Giuseppina Strepponi, che era stata un soprano molto apprezzato e che aveva interpretato per prima il personaggio di Abigaille in Nabucco, nonostante la sua voce fosse ormai in declino a causa del suo temperamento inquieto, della sua vita disordinata, dei tre figli avuti dalla relazione con il tenore Napoleone Moriani. L’amicizia, che era maturata tra Verdi e la cantante, pur tra mille difficoltà e complicazioni, era diventata un sentimento più profondo che era sfociato in una relazione stabile tra un artista che voleva ricostruire la sua vita privata e una donna che aveva alle spalle un’esistenza irregolare e dolorosa.

Agli inizi degli anni Cinquanta, Verdi decise di ritirarsi a Busseto per lavorare con più tranquillità, ma l’unione con Giuseppina (i due si sposeranno solo nel 1859) suscitò innumerevoli pettegolezzi in quel piccolo ambiente di provincia e lo scandalo non si placò nemmeno quando il compositore, acquistata la tenuta di Sant’Agata, si trasferì stabilmente in quella villa, tanto che l’ex suocero Antonio Barezzi, che il compositore stimava e onorava come suo benefattore, gli inviò nel 1852 una lettera in cui faceva cenno alla sua unione irregolare e muoveva una velata accusa d’ingratitudine. Verdi gli rispose con una lunga missiva dove il rispetto si univa alla forza, alla coerenza e all’indipendenza del suo carattere: “Ella vive in un paese che ha il mal vezzo d’intricarsi spesso negli affari altrui, e disapprovare tutto quello che non è conforme alle sue idee; io ho per abitudine di non immischiarmi, se non chiesto, degli affari degli altri, perché appunto esigo nissuno s’intrighi dei miei. Da ciò provengono i pettegolezzi, le mormorazioni, le disapprovazioni. Questa libertà d’azione che si rispetta anche nei paesi meno civilizzati, io ho tutto il diritto di esigerla anche nel mio. Sia giudice Ella stessa e sia giudice severo ma freddo e spassionato: qual male avvi…s’io credo bene di non far visite a chi porta titoli? s’io non prendo parte alle feste, alle gioie degli altri?…In ogni caso nissuno avrebbe a soffrirne danno…Poiché siano in via di fare rivelazioni non ho difficoltà alcuna alzare la cortina che vela i misteri racchiusi fra quattro mura…Io non ho nulla da nascondere. In casa mia vive una Signora libera, indipendente, amante come me della vita solitaria, con una fortuna che la mette al coperto di ogni bisogno. Né io, né Lei dobbiamo a chicchessia conto delle nostre azioni; ma d’altronde chi sa quali rapporti esistano tra noi? Quali legami? Quali diritti che io ho su Lei, ed Ella su di me? Chi sa s’Ella è o non è mia moglie? Ed in questo caso chi sa quali motivi particolari, quali idee da tacerne la pubblicazione? Chi sa se ciò sia bene o male? perché non potrebbe essere anche un bene? E fosse anche un male chi ha il diritto di scagliarci l’anatema? Bensì io dirò che a lei, in casa mia, si deve pari anzi maggior rispetto che non si deve a me, e che a nessuno è permesso marcarvi sotto qualsiasi titolo; che infine ella ne ha tutto il diritto, e per suo contegno, e per suo spirito, e per i riguardi speciali a cui non manca mai verso gli altri… Io reclamo la mia libertà d’azione, perché tutti gli uomini ne hanno diritto, e perché la mia natura è ribelle a fare a modo altrui; e che Ella, che in fondo è sì buono, è si giusto ed ha tanto cuore, non si lasci influenzare e non assorba le idee di un paese che …mormora a torto dei fatti e delle cose mie”. Solo quando Verdi minaccia “di trovarmi una patria altrove”, molti pettegolezzi dovettero placarsi, l’atmosfera probabilmente si rasserenò e la coppia Verdi/Strepponi poté condurre una vita più tranquilla e godere di maggior rispetto, anche se questa vicenda dovette incidere non poco sulla tenacia e la determinazione con cui Verdi, contro i pareri negativi di tutti i suoi collaboratori, volle comporre La Traviata.

I melodrammi verdiani e la sofferenza umana

Il melodramma italiano nei primi anni dell’Ottocento non subì gli influssi del Romanticismo, perché la scena era dominata dalla presenza di Rossini che non era un romantico e prediligeva l’opera buffa certamente più consona alla sua straordinaria personalità musicale e alla sua individualistica esuberanza. Gli stessi Bellini e Donizetti, anche se più vicini allo spirito del Romanticismo, non riuscirono a liberarsi del tutto dalla tradizione, per cui si venne a creare uno scarto temporale tra musica e letteratura, perché soprattutto durante gli anni Quaranta drammaturghi e narratori come Friedrich Schiller, George Byron, Victor Hugo, Walter Scott, Tommaso Grossi, Alessandro Dumas riuscirono a lasciare un segno nel melodramma italiano. Nella letteratura romantica si esaltava la libertà creativa dell’artista, il trionfo delle passioni, la celebrazione dei sentimenti, il peso della sofferenza, la rappresentazione del dolore individuale e universale, il contrasto tra sogno e realtà, il senso dell’infinito e di una sofferta religiosità. Questo modo di concepire l’arte finì per esercitare una forte influenza sui librettisti italiani più affermati come Salvatore Cammarano, Tommaso Solera, Francesco Maria Piave e Arrigo Boito, che guarderanno con interesse sempre crescente alle opere dei maggiori autori europei e ai drammi di Shakespeare che aveva conquistato una nuova popolarità nell’Europa romantica. Da parte sua, Verdi darà sempre prova di una grande spiritualità e umanità, esaltando nei suoi melodrammi il valore della libertà e dell’indipendenza dell’individuo, lo scontro tra nobili eroi ed esseri umani crudeli e perversi, la sofferenza causata dall’infelicità, dal tradimento e dall’inganno. Egli ha disegnato in particolare indimenticabili figure femminili perseguitate dai propri familiari e dalla sventura, condannate a vivere amori infelici, spinte alla disperazione e alla morte, stroncate dal dolore o dalla malattia, coinvolte nell’eterno conflitto tra il Bene e il Male.

Fin dall’Oberto, Verdi ha messo in scena il delirio della protagonista Leonora tradita nell’amore e nell’onore, accusata ingiustamente, resa orfana del padre e spinta verso la morte dal proprio dolore: “Senza padre, maledetta,/Una cella a me s’aspetta!/Veggo sangue in ogni loco/Ei m’abbrucia…è ardente foco!/Il mio pianto, il mio dolore/Deh m’affrettino il morir”. Ugualmente in Nabucco la folgore divina spinge alla follia il re babilonese che osa considerarsi un dio sulla terra. Non è quindi per caso se Verdi è attratto nel 1847 da Macbeth, il dramma di Shakespeare dove la follia circola unitamente al terrore e alla sete di potere e che il maestro considera “una delle più grandi tragedie che vanti il teatro ed io ho cercato di farne estrarre tutte le posizioni con fedeltà, di farlo verseggiare bene e di farne un tessuto nuovo e di fare una musica attaccata, il più che poteva, alla parola”. Questo melodramma ha un grande protagonista maschile animato da una violenza e da una smodata ambizione, provocando in lui un tormento interiore che lo spinge a provare orrore per i propri delitti, che gli dà il coraggio di guardare negli abissi della sua crudeltà fino a ritrovare un’umana dignità nel momento di affrontare la morte. Al suo fianco vi è la straordinaria figura di Lady Macbeth, eroina verdiana del male che, all’esterno è fredda e spietata, mentre all’interno è moralmente marcia anche se, con demoniaco cinismo, riesce a nascondere le sue debolezze e il suo malessere interiore, lasciandolo sepolto nel profondo dell’inconscio. Lady Macbeth non soffre, come il marito, di incubi notturni, non ha ripensamenti e rimorsi, ma è spinta da una smisurata passione per il potere che ne fanno un personaggio illuminato dalla fredda luce della sua crudeltà. Alla fine però la sua follia esplode quando si consuma il dramma di una donna in preda al terrore e alla depressione fino a sprofondare nell’abisso della morte senza una traccia di pentimento e di redenzione: il suo folle sonnambulismo, che emerge dal fondo del suo inconscio, diventa l’incubo di un’assassina destinata a scontare la pena dei suoi delitti.

Con Luisa Miller (1849), un’opera tratta dal dramma Kabale und Liebe di Schiller su libretto di Salvatore Cammarano, Verdi disegna la prima eroina che soffre per amore in una “tragedia borghese”, nella quale Rodolfo, figlio del conte Walter, s’innamora di Luisa, figlia di un modesto musicista, ma che incontra l’opposizione del padre, perché vuole per lui nozze nobiliari. Il conte fa arrestare padre e figlia con una falsa accusa e concede loro la libertà in cambio di una lettera in cui Luisa dichiara di amare il crudele Wurm, un cortigiano che si presta a questo intrigo. Roso dalla gelosia, Rodolfo avvelena Luisa che in punto di morte rivela la verità e gli dice di non averlo mai tradito; allora il giovane uccide Wurm e beve a sua volta il veleno per seguire Luisa nella morte. Tutta l’opera è segnata dal legame di tenero affetto che unisce padre e figlia e che appare evidente nel finale, quando Luisa, prima di spirare, rivolge l’estremo saluto al padre: “Già mi serpeggia la morte in sen…Padre ricevi l’estremo addio…Benedici o padre…addio”. Il tema dell’amore infelice esce sublimato dall’ultimo dialogo tra i due amanti, i quali sentono che la loro unione potrà realizzarsi soltanto in cielo: “La man Rodolfo…sento mancarmi. Più non ti scerno…mi cinge un vel. Ah! vieni meco…ah! non lasciarmi: insieme accogliere ne deve il ciel”; a sua volta Rodolfo esclama: “Ah! tu persona il mio delitto/E il tuo perdono lassù fia scritto/Ambo congiunge un sol destin…Insieme accogliere ne deve il ciel”. L’opera, che anticipa in questo senso Rigoletto, si chiude con lo straziato addio del vecchio padre: “O figlia, o vita del cor paterno/Ci separiamo dunque in eterno?/Di mia vecchiezza promesso incauto/Sogno tu fosti, sogno crudel/Ah! mio non era un ben cotanto/Dal ciel discese, ritorna in Ciel!”.

Verdi tratteggia la figura del “diverso” in Rigoletto (1851), la prima opera della grande trilogia composta su libretto di Francesco Maria Piave ispirato al dramma Le Roi s’amuse di Victor Hugo, che Verdi considera “il più gran soggetto e forse il più gran dramma dei tempi moderni. Triboulet è creazione degna di Shakespeare!”. Bisogna considerare che il personaggio del “deforme”, presente nel teatro e nella narrativa di Hugo, è visto in chiave eroica: il gobbo Triboulet, il mostruoso campanaro Quasimodo di Notre Dame de Paris, lo sfregiato Gwynplaine in L’Uomo che ride sono eroi segnati in modo indelebile nel proprio corpo, ma si sentono impegnati a imporre nella società un loro ideale di giustizia, a difendere il popolo sofferente contro ‘arroganza dell’aristocrazia, a rivendicare un loro diritto di vivere e di amare. Victor Hugo, nella prefazione a Le Roi s’amuse tratteggia la figura del protagonista nei suoi aspetti psicologici, politici e sociologici: “Triboulet è deforme, Triboulet è malato, Triboulet è il buffone di corte; triplice infelicità che lo rende cattivo. Triboulet odia il re perché è il re, i gentiluomini perché sono gentiluomini, gli uomini perché non hanno tutti una gobba sulla schiena. Il suo passatempo è di mettere continuamente in urto tra loro i gentiluomini e il re, facendo spezzare il più debole contro il più forte. Deprava il re, lo corrompe, lo abbrutisce; lo spinge alla tirannide, all’ignoranza, al vizio”. Quando la maledizione di un padre, che vuole vendicare l’onore della figlia, cade sul buffone, Hugo si chiede: “Quella maledizione su chi è piombata? Su Triboulet buffone del re? No. Su Troboulet uomo e padre, che ha un cuore, che ha una figlia. Triboulet non ha al mondo che una figlia; la tiene nascosta a tutti gli occhi…Educa la sua bambina nell’innocenza, nella fede e nel pudore. La sua più grande paura è che ella cada nel male, perché lo sa, lui, il cattivo, quanto il male faccia soffrire. Ebbene! la maledizione raggiungerà Triboulet nell’unica cosa che egli ami al mondo: in sua figlia…una volta sedotta e perduta, egli preparerà una trappola al re per vendicarla, ed è sua figlia che vi cadrà…Vuole assassinare il re per vendicare la figlia, ed è la figlia che egli assassinerà”.

Verdi rimase affascinato da questo personaggio e, senza aver letto il testo di Hugo, riuscì a definirne la personalità, trovando il coraggio di portare sulla scena una storia che in Francia sarà censurata fino al 1882 e che vede sulla scena un re libertino, un essere deforme, un sicario spietato, una donna di malaffare. In Italia cominciò a circolare la voce che il maestro vorrebbe rappresentare un’opera di “ributtante immoralità ed oscena trivialità” e la censura si mise subito in allarme e Piave cercò di scrivere un libretto dove fossero smussati gli aspetti più crudi del dramma ma Verdi si ribellò, sostenendo che si può trasformare un dramma potente in una storia anonima e banale: “S’è evitato di fare Triboletto brutto e gobbo! Un gobbo che canta? Perché no!…Farà effetto? non lo so; ma se non lo so io non lo sa neppure chi ha proposto questa modificazione. Io trovo bellissimo rappresentare questo personaggio estremamente deforme e ridicolo, ed internamente appassionato e pieno d’amore. Scelsi appunto questo soggetto per tutte queste qualità, e questi tratti originali, se si tolgono, io non posso più farvi musica”. Ancora una volta il maestro dimostrerà di avere ragione, seguendo il suo straordinario senso del teatro e accettando di cambiare la collocazione della storia e i nomi dei personaggi: il re di Francia Francesco I diventa il Duca di Mantova, Triboulet si chiama Rigoletto e Gilda la figlia Bianca, il sicario Saltabadil si trasforma in Sparafucile e sua sorella Maguelonne in Maddalena; la scena finale si svolge nella taverna di Sparafucile e in riva al Mincio.

Rigoletto, quando veste i panni del buffone di corte, è irridente, maligno, spietato, consapevole della propria abiezione (“Pari siamo!…io ho la lingua, egli ha il pugnale;/L’uomo son io che ride, ei quel che spegne…/O uomini! o natura!/Vil scellerato mi faceste voi!/Oh rabbia! esser difforme! esser buffone!…/Non dover non poter altro che ridere!/Il retaggio d’ogni uom m’è tolto…il pianto!…Odio a voi, cortigiani schernitori!/Quanta in mordervi ho gioia!/Se iniquo son, per cagion vostra è”). In casa egli si trasforma in un essere umano, in un padre amoroso (“Ma in altr’uomo qui mi cangio!”) di fronte alla figlia per la quale ha lasciato “Patria, aprenti, amici” per concentrare in lei tutti i suoi valori e affetti (“Culto, famiglia, patria,/Il mio universo è in te”) nel ricordo dell’unica donna che l’ha saputo amare (“Ella sentia, quell’angelo,/Pietà delle mie pene/Solo, difforme, povero/Per compassion mi amò./Moria…le zolle coprano/Lievi quel corpo amato”).

Dopo il rapimento della figlia, si scaglia con rabbia contro i cortigiani “vil razza dannata”, per poi tramutarsi in uno feroce desiderio di vendetta nei confronti del duca che ha sedotto la figlia:“Sì, vendetta tremenda vendetta…Di puniti già l’ora s’affretta./Che fatale per te tuonerà./Come fulmin scagliato da Dio/Il buffone colpirti saprà”. La pietà paterna è riservata per Gilda, mentre l’odio implacabile s’abbatte sul potente, ma Rigoletto, rappresentante di una classe di emarginati, non merita nemmeno di poter fare giustizia, vendicando l’onore della figlia. S’illude di avere sconfitto un potente, quando si trova dinanzi al presunto cadavere del duca: “Della vendetta alfin giunga l’istante!/Da trenta dì l’aspetto/ Di vivo sangue e lagrime piangendo/Sotto la larva del buffon…Ora mi guarda o mondo/Quest’è il buffone, ed un potente è questo!/Ei sta sotto i miei piedi!”. Chiusa dentro il sacco c’è invece l’amatissima figlia che, secondo le regole del teatro romantico, ha scelto la morte per salvare la vita all’uomo amato e che è stata “colta /dallo stral di mia giusta vendetta”. Ora una tremenda solitudine aspetta il buffone, al quale rimane unicamente lo spiraglio di speranza che gli indica la figlia morente: “Lassù in cielo vicina alla madre/in eterno per voi pregherò”.

Si arriva infine con la Traviata (1853) al capolavoro costruito intorno allo straordinario personaggio di Violetta, certamente il più affascinante ed emozionante di tutto il teatro verdiano. Dopo aver messo in un’opera un gobbo, un libertino, un assassino e una donna di strada, ora Verdi è attratto da una cortigiana che si redime in nome dell’amore per il quale sacrifica non solo le sue ricchezze ma la stessa vita tormentata dal “male del secolo”, quella tisi che allora non lasciava scampo soprattutto a chi conduce un’esistenza sregolata e dissennata. Il maestro, dopo aver letto il romanzo e il dramma di Alessandro Dumas figlio, restò fortemente impressionato da questa storia e incaricò Francesco Maria Piave di scrivere il libretto: “A Venezia faccio la Dame aux camélias che avrà per titolo, forse, Traviata. Un soggetto dell’epoca. Un altro forse non l’avrebbe fatto per i costumi, per i tempi e per altri goffi scrupoli…Io lo faccio con tutto il piacere. Tutti gridavano quando io proposi un gobbo da mettere in scena: Ebbene: io ero felice di scrivere il Rigoletto”.

Nella primavera del 1853 l’opera andò incontro a un clamoroso insuccesso, perché il pubblico rimase spiazzato dalla novità di un argomento contemporaneo, dalla prova scadente di alcuni cantanti, dalla presenza un prosperoso soprano non certo adatto a interpretare una giovane ammalata di tisi e destinata a more per consunzione. Scrive Verdi: “La Traviata ha fatto un fiascone e peggio, hanno riso. Eppure non ne sono turbato. Ho torto io o hanno torto loro. Per me credo che l’ultima parola sulla Traviata non sia quella di ieri sera. La rivedranno e vedremo!”. Ancora una volta il maestro non si sbagliava, perché l’opera fu ripresa nella primavera del 1854 nel Teatro San Benedetto di Venezia e fu un trionfo.

Violetta è una bellissima cortigiana abituata a vivere nel lusso e ad abbandonarsi liberamente al piacere (“Sempre libera degg’io/Trasvolar di gioia in gioia/Perché ignoto al viver mio/Nulla passi del piacer”), sola in “quel popoloso deserto che appellano Parigi” lei vuole gioire fino a quando “di voluttà nei vortici finire” la propria vita. Le cose cambiano, quando incontra l’amore nella persona del giovane Alfredo, per lui abbandona lusso e amanti, per lui si ritira in una casa di campagna, disposta a vendere i suoi beni per cambiare definitivamente la propria esistenza. A risvegliarla dal sogno d’amore è il padre di Alfredo, Giorgio Germont, rigido rappresentante della morale borghese e difensore dell’onore familiare, che chiede a Violetta di lasciare Alfredo per consentire il matrimonio della figlia, anche se ha scoperto disinteresse e la profondità dei suoi sentimenti di Violetta che accetta di compiere questo sacrificio (“Così alla misera- ch’è un dì caduta,/di più risorgere – speranza è muta!/Se pur benefico – le indulga Iddio,/l’uomo implacabile – per lei sarà./Dite alla giovine – si bella e pura/ch’avvi una vittima – della sventura,/cui resta un unico – raggio di bene/che a lei il sacrifica – e che morrà”). Prima di lasciare il suo amante, la giovane gli dedica il più celebre canto d’amore di tutti i tempi, quel breve Amami Alfredo che diventa la cifra distintiva dell’intera opera, completato dall’altro brano straordinario Alfredo, Alfredo di questo cuore che chiude il secondo atto. Si arriva così allo stupendo atto terzo, che si apre con lo struggente Addio del passato bei sogni ridenti di una Violetta ormai in fin di vita, stroncata dalla solitudine, dalla miseria e dalla tisi; l’unica speranza è poter rivedere Alfredo, essendo consapevole che la malattia le concede poche ore (“Come sono mutata! /Ma il Dottore a sperar pure m’esorta! /Ah! con tal morbo ogni speranza è morta”).

Con il solito intuito drammaturgico, Verdi contrappone alla tragedia di una giovane agonizzante il coro delle maschere del Carnevale che impazza per le vie di Parigi. Da quel momento tutto si consuma rapidamente con l’arrivo di Alfredo e Violetta che rivolge un ultimo e appassionato rimpianto alla vita che le sfugge: “Gran Dio! Morir sì giovane, /Io che ho penato tanto! /Morir si presso a tergere/Il mio sì lungo pianto! /Ah dunque fu delirio/la credila speranza;!Invano di costanza/Armato avrò il mio cor!”. Verdi poche volte ha raggiunto toni così intimi e vibranti nella rappresentazione della sofferenza come in questa opera che veramente si presenta come un sublime poema dell’amore e della morte; in essa viene esaltato l’incanto della poesia che conferisce intensità sentimentale al nascere di un profondo sentimento amoroso, che esalta il valore di un nobile sacrificio, che infine fonde il ricordo di momenti felici con la vanità di ogni speranza nel futuro, con il desolato rimpianto per la vita che si dilegua e con lo smarrimento per l’ineluttabile destino che incalza.

Il romanzo Dame aux camélias ebbe come modello letterario Manon Lescaut di Prevost, ma fu soprattutto ispirato ad Alessandro Dumas figlio dalla e dalla sua personale esperienza perché il giovane scrittore conosce nel 1844 Alphonsine Duplessis, la vera “Dama delle camelie”, e diventa uno degli amanti di questa giovane “alta, esilissima, i capelli scuri e la carnagione rosea e bianca”. Nata in campagna da un mercante di tessuti, Alphonsine era giunta a Parigi a quindici anni, aveva trovato lavoro come commessa, ma nello stesso tempo frequentava artisti e studenti. Aiutata da una grazia e da una naturale eleganza, era passata a frequentare ambienti più elevati, ad avere amanti di rango che le consentivano di possedere abiti sfarzosi, un lussuoso appartamento, carrozze e cavalli. A causa del suo fragile corpo, minato dalla tisi, si concedeva dei periodi di cura per recuperare una salute messa in pericolo da una vita irregolare ma, recuperate le forze, lei tornava a tuffarsi nel suo mondo. La relazione con Dumas fu tempestosa e infelice, perché lui non poteva assicurarle l’agiatezza desiderata, per cui Alphonsine seguitava ad avere altri amanti. Nel 1845 si arrivò alla rottura di ogni rapporto e la giovane si recò a Londra dove sposò il conte di Perrigaux, ma ben presto fece ritorno a Parigi, passando da una stazione termale all’altra nel tentativo di recuperare una salute ormai compromessa dallo stato avanzato della malattia, per cui Alphonsine muore nel 1847 nel suo appartamento parigino a soli ventitré anni. Dumas pubblica nel 1848 il romanzo che diviene subito un best-seller; nel 1849 scrive il dramma che andrà in scena solo nel 1852 a causa della censura. Nel 1853 Verdi, con impressionante tempismo, porta sulla scena la Traviata e nello sviluppo dal romanzo, al dramma e al melodramma la vicenda si trasforma progressivamente in una grande opera d’arte. Dumas è poco più di un modesto professionista, ma il suo romanzo è molto più interessante del dramma, perché in esso si avverte l’autenticità di un’esperienza personale, un approfondimento psicologico e sentimentale del personaggio, però il melodramma di Verdi è indubbiamente più grande delle due opere letterarie.

In fondo la storia della Duplessis è quella di una cortigiana che muore in giovane età a causa della tisi, una malattia che l’aveva portata a una ricerca rabbiosa del piacere e che ne aveva accelerato la fine. Dumas aveva idealizzato il personaggio di Margherita che appare una persona diversa e più nobile del modello reale. Egli ricorre, infatti, a un realismo tipico del post-romanticismo, rivendicando l’autenticità del documento e ricorrendo (come faranno poi i naturalisti) all’impersonalità del narratore-testimone, perché Dumas dice di voler “raccontare una storia che non ha che un merito: quello di essere vera”, distaccandosi da quelle violente emozioni vissute in prima persona, mentre nel dramma, portato al successo da due mostri sacri come Sarah Bernard ed Eleonora Duse, sono accentuati i contenuti “lacrimogeni” tipici del teatro borghese minore.

Quando Margherita si trasforma in Violetta Valery, diventa ancora più nobile, non più una cortigiana che si è smarrita nei labirinti della città tentacolare, ma una giovane redenta dall’amore. La Violetta, già idealizzata da Piave, diviene nelle mani di Verdi una persona intensamente umana e nello stesso tempo eroica, assumendo la forma perfetta del Mito grazie a un capolavoro immortale. “Verdi ha dato alla Dama delle Camelie lo stile che le mancava. Dico questo non perché mi sembri così trascurabile il dramma di Alexandre Dumas figlio, ma perché quando un’opera drammatica tocca i sentimenti popolari, ha bisogno di musica” (Marcel Proust). Si assiste con Violetta alla nascita di un grande mito di Amore e Morte, pari per grandezza al mito maschile di Don Giovanni, un mito che finisce per rendersi indipendente dal testo fondatore e dal suo inventore, tanto che lo stesso Dumas ripudierà la sua Dama delle Camelie, perché “non più un’opera teatrale, è una leggenda” e così essa rimane ancora oggi. Come è possibile non amare Violetta?

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

  • Luigi Baldacci, Tutti i libretti di Verdi, Garzanti, 1975
  • Mario Lavagetto, Quei modesti romanzi. Il libretto nel melodramma di Verdi, Garzanti, 1979
  • Massimo Mila, L’arte di Verdi, Einaudi, 1980
  • Gabriele Baldini, Abitare la battaglia. La storia di Giuseppe Verdi, Garzanti, 1983
  • Julian Budden, Le opere di Verdi, tre volumi, EDT/Musica, 1985
  • Pietro Mioli, Il teatro di Verdi, Rizzoli, 1997
  • Massimo Mila, Verdi, Milano, Rizzoli, 2000.
  • Giorgio Melchiori, Shakespeare all’opera. I drammi nella librettistica italiana, Bulzoni, 2006
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