Il senso della neve.

Mi è sempre piaciuta, ma adesso mi sembra proprio puntuale. Tempestiva. Porta pulizia. Porta bianco. Costringe all’attenzione. Ai tempi lunghi.

                                                                                                (L.Ligabue)

Annunciata da lungo tempo, avvertita come una presenza sottile nell’aria, appena prima di mostrarsi. Desiderata e temuta. Finalmente arrivò, quasi inattesa, proprio quando ormai le sentenze dei meteorologi sembravano ogni giorno più simili alle promesse dei marinai. Si presentò così, con l’incertezza della prima volta, alla città quasi incredula,  affacciata a gomito sull’Adriatico, mentre gli orologi segnavano con lentezza la fine della giornata. E gli studenti dei corsi serali, in tutta fretta, anticiparono la fine delle lezioni, subito le auto parcheggiate fuori della scuola si allontanarono velocemente, perché, si sa, quando comincia ad “attaccare” c’è pericolo di rimanere bloccati.

Il porto di Ancona

Figura 62 – Il porto di Ancona

Leggera, immateriale, un fiocco dopo l’altro, innumerabili piccole lettere, quasi a tessere la trama di un discorso, con pazienza, indugiando su ciascun elemento del paesaggio antropologico, prestando attenzione ad ogni  minimo particolare. Fino a quando la parola neve ricoprì tutto, le strade, i marciapiedi, i tetti delle case e le auto in sosta, i giardini e la campagna,  fino al mare.  Esattamente un anno fa…

Neve che annulla i colori, e rende indifferenziati gli oggetti e i materiali, nasconde le forme, come una livella, fino quasi a farle scomparire. Neve sugli impegni di ogni giorno, sulla nostra ossessione di concludere, sempre, di non lasciare compiti interrotti, sulla prescrittività dei tempi tecnici e degli orologi, e sulla correttezza formale, autoreferenziale, delle procedure burocratiche. Neve sulla razionalità elevata a unica modalità di dominio sul mondo, e su questa attitudine a razionalizzare ad ogni costo, sugli alibi e sulla nostra straordinaria capacità di autoassoluzione. Neve su tutto ciò che non è autentico, sull’ipocrisia.

Uno spettacolo lento, lineare, senza interruzioni pubblicitarie, né interessi commerciali di alcun genere. Senza che si possa controllare attraverso un telecomando, senza vincoli umani,  con il suo ritmo regolare, un dono leggero di cristalli e di silenzio, che discende dall’alto, con un suono muto venuto da lontano. E con il colore della vita, di latte e di liquido seminale. Lo stesso colore freddo della vita che si spegne.

Leone del Duomo di Ancona

Figura 63 – Leone del Duomo di Ancona

La neve non ha un senso, così come i territori non edificati o i campi incolti, non un senso umano, partecipa semplicemente alla natura delle cose, e si mostra con l’evidenza di un dato. Sono le parole a costruire il mondo intorno a noi, ne tracciano i confini, e risuonano come un’eco, in forma silente, all’interno dei nostri schemi mentali, li plasmano nella struttura e nei contenuti, fino a costituire gli immaginari simbolici, sempre situati sullo sfondo, che orientano i pensieri e le azioni.

Sembra che gli Inuit (1)  conoscano molte parole per esprimere il senso della neve, ciascuna in grado di coglierne le sfumature più sottili, come il colore, o la consistenza,  espressioni di una sensibilità radicata dentro quell’esperienza vissuta in immersione continua (2), e che indubbiamente ignora i codici linguistici utilizzati per definire altri ambienti umani, come il traffico nevrotico nelle mattine metropolitane, o la follia dei centri commerciali. O la quiete dei paesaggi collinari, e la frescura delle querce nei pomeriggi d’estate.

La neve è uno spazio bianco, sintesi di tutti gli altri colori, è una festa, nel significato antropologico di una sospensione del tempo, lontanissima dagli stati d’ansia e dalla frenesia. Un invito al senso della pazienza e della cura, come a custodire qualcosa di prezioso, con la delicatezza di una madre, nell’attesa di un risveglio probabile.

A  volte invece la neve si pone come un lenzuolo definitivo, a ribadire ulteriormente, in modo perentorio che qualcosa è già patrimonio dei ricordi, che la vita e la morte sono comunque due immagini raffigurate su una moneta unica.

In tutto questo essa, la neve, rivela il suo peso specifico enorme, seppure con una leggerezza veramente difficile da sostenere, fatta di fiocchi, ciascuno dei quali, pur inconsistente, racconta la propria storia, e ci mostra come ogni istante sia davvero un valore assoluto, come un dono indicibile, da non disperdere, perché quell’istante, quell’unico preciso istante, non ammette repliche.

Eppure la loro somma enorme dà origine a una Gestalt di altro genere, una potenza in grado di fermare le attività produttive di un’intera nazione, i trasporti e il normale corso delle pratiche sociali (3).

Per la neve chiudono le scuole, coriandoli di festa le giacche a vento di ragazze e di ragazzi sugli slittini, che colorano le discese imbiancate. Nei loro mondi incantati, forse ancora la magia del Natale, boschi improbabili popolati da regine delle nevi e personaggi fantastici, meravigliose architetture di ghiaccio nella notte illuminate da luci artificiali, o dalla luna piena, che si domandano come mai sembra quasi giorno .

Ma al senso magico si accompagnano le contingenze della vita materiale, la paura degli anziani di uscire di casa, il riacutizzarsi di malanni cronici, o l’incubo di procurarsi una frattura, un’auto bloccata, inutilizzabile, e la ricerca affannosa di catene introvabili, della misura giusta altrimenti si sfilano o possono spezzarsi,  le saracinesche abbassate dei negozi e la protezione civile allertata, la difficoltà di recarsi al lavoro. Chiudono  persino le cattedrali del sistema commerciale, McDonald’s e altri “superluoghi”,  situate a margine dei nuovi aggregati urbani, ma ormai esattamente al centro dei nostri immaginari, personali e collettivi.

Si ritrova così il senso di spazi e di tempi antichi, meno veicolati  dalle protesi tecnologiche, dove i  corpi si relazionano tra loro e nell’ambiente umano attraverso modalità più dirette. Ci si scopre a misurare le distanze con i passi invece che con il contachilometri. Tornano a riemergere frammenti di quel “capitale sociale” (4), quale rete di relazioni personali fondate sulla condivisione tacita e a-problematica di orizzonti di senso, a partire da una iniziale “fiducia di base” (5), che è stato fattore dominante al tempo delle aggregazioni umane organizzate sotto forma di comunità,  prima delle grandi rivoluzioni che hanno segnato l’avvento del moderno, e che ha costituito il tessuto economico e culturale di questa  “marchigianità”, delineatasi  a partire dalla civiltà rurale della mezzadria,  oggi superata dal carattere impersonale e intercambiabile della nuova logica del sociale.  Si riscopre così il senso dell’incontro, il valore dell’ascolto e della narrazione, l’aiuto reciproco così diffuso allora tra le famiglie contadine, che lo praticavano come necessità concreta e soprattutto come scambio simbolico; la relazione come “partecipazione dell’umano all’umano” (6) , al di là delle consuete formule linguistiche,  rituali vuoti e prescrittivi,  impermeabili come porte serrate.

L’ultima notte di neve è un pensiero dal peso insostenibile, difficile persino da concepire.  Il senso della neve risiede propriamente nella sua possibilità di dissoluzione, una  attitudine  intrinseca, come un destino, che si compie vivendo (7), attraverso la narrazione e la scrittura di sé nello  spazio bianco di un foglio. Che potrebbe rimanere vuoto anche per una vita intera, votato alla purezza di un’aspettativa sempre aperta, chiuso in una perenne anticamera,  per la paura di avviare un discorso.  Così la neve nel tempo esatto in cui si manifesta, nella sua evidenza attuale, non sembra esprimere  anche la propria finitezza, quasi a illudersi di poter resistere a tutto, quasi potesse restare neve per sempre. Tenace, resiliente  come la vita, che è legata alla consistenza fragile di connessioni sottilissime eppure presente e adatta fin quando esiste, fino all’ultima goccia. Sospesa in  equilibrio sul filo di un rasoio,  a volte unico appiglio, tagliente e doloroso. Aggrappata ad una zolla di terra, o alle terminazioni di protesi artificiali, legata alla necessaria regolarità di un battito cardiaco,  in sintonia forse con inesprimibili ritmi cosmici, o più semplicemente con se stessa, la vita, segnata dal trascorrere ineludibile di un orologio biologico, che restringe progressivamente gli spazi, consuma le opportunità. E adesso anche questa neve sembra delineare  il ramo discendente della propria parabola, fino a tornare ai primi fiocchi , in un processo regressivo, di sottrazione. Uno dopo l’altro, fino all’ultimo, tutto il mondo racchiuso in un unico piccolo ultimo cristallo, che resiste anche a fronte di ogni evidenza. Fino al punto in cui anche le parole della medicina scientifica arrivano a significare una cura che è soltanto un mantello leggero, non più finalizzata ad un obiettivo di guarigione, ma con un senso  profondo di “porgere la mano”, “accompagnare”,  quando anche il mondo diventa così piccolo, e tutte le cose sembrano perdere consistenza,  la vita stessa si riduce a semplici segnali in codice, visualizzati sul monitor di un macchinario estraneo. Sensazione leggera di un’esistenza che ci sfiora. E finalmente,  così come era comparsa,  anche la neve smette di scendere.

La neve di febbraio non tornerà mai più, non più nella stessa forma, e comunque non sarà più la stessa neve.

Già la vediamo nelle formazioni compatte di cumuli ghiacciati, o negli acquitrini, ai margini delle strade, per poi tornare a scorrere, come acqua sporca di terra e di polvere, nutrimento prezioso per altra vita, a reintegrare ancora il flusso ininterrotto di un movimento dialettico, sequenziale. Probabilmente verranno altri giorni di neve, a imbiancare gli stessi scenari, ma  saranno occhi diversi che ne osserveranno il passaggio, narrazioni di attori modificati dalle proprie stesse storie . Altre parole, a delineare mondi nuovi, universi simbolici per una vita che è ciclica e altrettanto liquida allo stesso tempo, cioè rigida e ricorsiva nella sua normatività più profonda, così come assolutamente plastica nelle fenomenologie multiformi che è disposta ad assumere per continuare ad esistere.

Stamattina il sole ha spalancato le finestre, già da tempo si è tornati a percorrere le strade sgombre, immersi nella ben nota frenesia di traffici e di rumori familiari. Da lontano le strade risalgono, piccole e bianche, sulla collina che distingue, con il proprio confine,  il mondo sensibile da quanto appare situato oltre, ancora sconosciuto. E tutto è così pieno di luce.

Questi appunti sono dedicati a  Cesarina, mia madre, che si è spenta nell’ultimo giorno di neve, dopo due settimane di attese in ospedale, valutazioni di esami diagnostici e difficili decisioni mediche, auto bloccate su strade impraticabili e catene spezzate lungo i tragitti.  Non posso dimenticare la signora Eugenia Stanciu, che nella sua pratica di assistenza quotidiana ci ha mostrato in cosa consiste il senso più profondo della cura.

Note

  • Popolazioni che abitano le regioni del Polo Nord.
  • Vedasi la teoria del relativismo linguistico di Wohrf, di cui si indica un saggio in bibliografia, accanto ad un testo di Pullum che ne avrebbe falsificato la teoria sottoponendo a critica proprio l’esempio della molteplicità dei modi di dire “neve” nella lingua degli Inuit.
  • Nella seconda Grande Guerra, così come era accaduto all’esercito napoleonico più di un secolo prima, la neve del Generale Inverno accompagnò la ritirata dei soldati italiani, “centomila gavette di ghiaccio. “La visibilità divenne nulla, come ciechi i marciatori continuarono a camminare affondando fino al ginocchio, piangendo, bestemmiando, con estrema fatica avanzando di trecento metri in mezz’ora. Come ad ogni notte ciascuno credeva di morire di sfinimento sulla neve, qualcuno veramente s’abbatteva e veniva ingoiato dalla mostruosa nemica, ma la colonna proseguì nel nero cuore della notte” (da G. Bedeschi, in bibliografia). Erano partiti in 229 mila, di cui circa 43 mila tornarono feriti o congelati, a piedi, o sulle tradotte stracariche di orrore e di disperazione. Quasi 80 mila vite restarono in quella neve.
  • “Il capitale sociale, inteso come patrimonio di atteggiamenti e credenze condivisi da una determinata comunità, costituisce uno dei prerequisiti della cooperazione e dell’attività organizzata. Il crescente interesse che il capitale sociale suscita in sociologi, economisti, politologi, antropologi ne mette in luce il suo carattere multidisciplinare. Dal canto suo, la sociologia enfatizza le caratteristiche dell’organizzazione sociale come la fiducia, le norme di reciprocità e le reti di impegno civico” (S. Di Giacomo,  http://www.oikonomia.it/pages/2006/2006_giugno/pdf/studi_6.pdf )
  • Il riferimento è alla prima fase teorizzata da E.Erikson, cfr. M.Paci, in bibliografia
  • Ferrarotti, cit. in bibliografia, p.136
  • M. Heidegger, cit. in bibliografia, la nozione di “essere per la morte”

Appunti bibliografici

  • Whorf, Linguaggio, pensiero e realtà, Bollati Boringhieri, Torino 1970
  • K. Pullum,The Great Eskimo Vocabulary Hoax and Other Irreverent Essays on the Study of Language, University of Chicago Press, Chicago 1991
  • Stauder, La memoria e l’attesa, Quattroventi, Urbino 1999
  • Heidegger, Essere e tempo, Longanesi, Milano 2005
  • Bauman, Vite di corsa. Come salvarsi dalla tirannia dell’effimero, il Mulino, Bologna 2009
  • Bauman, Voglia di comunità, Laterza, Bari-Roma 2001
  • Ferrarotti, Introduzione alla sociologia, Editori Riuniti, Roma 1997
  • Augé, Nonluoghi, elèuthera, Milano 1993
  • Triani, L’ingorgo, Elèuthera, Milano 2010
  • Pallante, La decrescita felice, Editori Riuniti, Roma 2007
  • Putnam, Capitale sociale e individualismo, il Mulino, Bologna 2004
  • Erikson, Infanzia e società, Armando, Roma 1982
  • Paci, Alle origini della imprenditorialità e della fiducia interpersonale nelle aree ad economia diffusa, in <<Sociologia del lavoro>> n.73, Angeli, Milano 1999

Narrativa

  • Fermine, Neve, Bompiani, Milano 1999
  • Ligabue, La neve se ne frega, Feltrinelli, Milano 2004
  • Høeg, Il senso di Smilla per la neve, Mondadori, Milano 1994
  • Cermeño, Neve e poi neve e poi neve, Piemme, Milano 1995
  • C.Andersen, La regina delle nevi (pubbl. orig. Sneedronningen, 1844)
  • Bedeschi, Centomila gavette di ghiaccio, Mursia, Milano 1963

 

La poesia Marchigianità di P.Volponi

Filmografia:

  • Lo spazio bianco, regia di F. Comencini, 2009
  • La tigre e la neve, regia di R. Benigni, 2005

Le canzoni

  • Caruso di L. Dalla
  • La cura di F. Battiato
  • Viola d’inverno di R. Vecchioni

Il tema del Lacrimosa di W.A. Mozart,  nelle esecuzioni dirette da H.von Karajan e da C.Abbado

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