Il silenzio

Gelida messaggera della notte,
sei ritornata limpida ai balconi
delle case distrutte, a illuminare
le tombe ignote, i derelitti resti
della terra fumante. Qui riposa
il nostro sogno. E solitaria volgi
verso il nord, dove ogni cosa corre
senza luce alla morte, e tu resisti.
Salvatore Quasimodo 

 Di queste case non è rimasto
che qualche brandello di muro.
Di tanti che mi corrispondevano
non è rimasto neppure tanto.
Ma nel cuore nessuna croce manca.
E’ il mio cuore il paese più straziato.
Giuseppe Ungaretti

Questi appunti si soffermano brevemente su alcune fotografie. Mai scattate. Come se il tempo si fermasse, per un istante interminabile. Quasi irreale. In silenzio.

E’ vero, siamo sempre più homines videntes(*),  immersi in un mondo di  immagini, spacciate per oggettive e invece necessariamente ingannevoli, parziali, relative, decontestualizzate, a rappresentare un punto di vista, sintetico e suggestivo, che siamo soliti chiamare realtà.

Un tempo dominavano le parole, particelle elementari di un logos sequenziale, sicuramente anch’esse strumento di manipolazioni e di equivoci linguistici. Oggi sembrano sostituite dallo spettacolo (interessato) di immagini chiassose. E anche le parole diventano spesso fiumi scomposti, un ballarò (1) sempre più vuoto di senso. Questi  appunti sono un invito a coltivare, per un istante, il pudore del silenzio.

Ho insegnato a L’Aquila per alcuni anni, quattro nella Facoltà di scienze motorie e uno in quella di lettere e filosofia. Ho incontrato studenti, condiviso emozioni, raccontato storie, seguito tesi e inseguito chissà quali sogni, ammirato paesaggi mozzafiato, rincorso, perennemente in ritardo, la frenesia di decine di impegni impossibili.

Di tutto questo resta ora il silenzio, interrogativo, quasi l’ equivalente laico di una preghiera.

Per secoli i filosofi si sono posti la questione del male, attribuito alla responsabilità umana, mossa dall’aggressività e da un eccesso di amore di sé, o pienezza di sé, dalla follia dell’ingordigia. Fu proprio un evento come questo (il terremoto di Lisbona, 1755), a porre in discussione quel principio, e ad aprire le porte verso altre teodicee (2) , a partire appunto da un dato al di fuori di ogni facoltà previsionale e di ogni possibilità di controllo umano.

Proprio come oggi ancora innumerevoli eventi e situazioni, che sfuggono ai tentativi di spiegazione delle scienze e alla capacità delle tecnologie di operare modificazioni sostanziali.

C’è sempre qualcosa che ci sfugge.  I cicli della vita,  come acqua mai uguale a se stessa, e le migliaia e migliaia di libri, e di idee, che invecchiano in fretta, mostrano chiaramente l’inconsistenza delle nostre certezze. Come un amore perduto. O gli scenari che si trasformano, e noi attori di passaggio, condannati a costruire e ricostruire, senza soluzione di continuità. Architetture simboliche, e materiali,  destinate comunque a essere sostituite da altre e nuove forme.

Cosicchè, di tanto in tanto, Grensituationen  (3) improvvise mettono in crisi la normalità apparente di fenomenologie a noi familiari, evidenziano questo mutamento necessario. Interi mondi che si sgretolano, un pezzo dopo l’altro, come iceberg, in progressione lenta, o con la violenza sismica di un attimo.

Questi appunti sono anche un invito a coltivare  il gusto dell’istantaneo. Il valore unico di ogni istante vissuto, il senso del limite e della finitezza e il seme della solidarietà umana, come riconoscimento profondo della nostra essenza in una dimensione comune (4).

E la bellezza, terrificante, di tutto questo.

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