Il tema della follia nell’opera lirica

di Alberto Pellegrino

Il tema della follia è stato sempre presente nel mondo dello spettacolo fin dai tempi dell’antica Grecia, dove nasce e si afferma il teatro classico. Questo tema si sviluppa poi in modi diversi attraverso i secoli, dalla medioevale “festa dei folli” alla Commedia dell’arte, dal grande teatro moderno al teatro contemporaneo, come si vedrà in un prossimo contributo sul rapporto tra follia e teatro di prosa.

Quando nel Seicento nasce e si afferma il melodramma, prende corpo sul palcoscenico la cosiddetta “gran scena”, nella quale un cantante o una cantante devono confrontarsi con l’esecuzione di un’aria musicalmente molto elaborata, in cui è necessario dare prova delle proprie risorse vocali e capacità interpretative. L’aria ha quindi rappresentato per tutto il Seicento e il Settecento il momento della massima tensione espressiva, durante la quale il personaggio dà libero sfogo ai sentimenti più disparati, mettendo al primo posto la passione amorosa.

L’avvento del Romanticismo

Il massimo della drammaticità si raggiunge tuttavia nel corso del Romanticismo, quando s’invoca la piena libertà personale e creativa dell’artista, si rivaluta l’inconscio come sede delle idee e delle immagini più riposte da cui saper trarre l’ispirazione, riuscendo a percepire tutto quello che poteva sfuggire alle facoltà coscienti. E’ il trionfo delle passioni, l’esaltazione del sentimento che riesce ad avvicinarsi all’Assoluto, che si propone di cogliere quegli aspetti della realtà dinanzi ai quali la ragione è destinata a fallire. Pertanto la letteratura, le arti, la musica sono considerate come l’immediata filiazione e genuina espressione del sentimento. L’artista si sente un “diverso”, dotato di una sensibilità fuori del comune in continua lotta con la realtà che lo circonda, mentre la sofferenza, l’inquietudine, la religiosità tormentata sono avvertite come elementi propri di una moderna sensibilità, per cui alcuni aspetti della vita umana sono definiti “romantici”: la rappresentazione del dolore individuale e universale, l’effusione dei sentimenti, il pessimismo, la nostalgia per il passato, il sogno, il senso dell’infinito e quindi il contrasto tra illusione e realtà.

A partire dal primo Ottocento il tema della follia acquista una particolare rilevanza, anche se esso era già presente nel melodramma barocco, basti pensare all’Orlando furioso (1733) di Handel, che contiene la più celebre scena della pazzia del Settecento. In questo periodo anche nell’opera buffa si tiene conto della psicologia dei personaggi e dei loro sentimenti, tanto che la follia appare abbastanza spesso come finzione, smarrimento onirico, perdita d’identità, vera malattia mentale, come si riscontra nella Nina pazza per amore (1789), uno dei maggiori successi di Paisiello.

Il merito di questo approfondimento dei sentimenti deve essere attribuito ai poeti Apostolo Zeno e Metastasio, che ridanno dignità letteraria al libretto d’opera. Soprattutto a Metastasio, autore di 27 libretti sui quali vengono composte circa 900 opere, spetta il merito di avere ridotto il numero delle arie e dei cambiamenti di scena rispetto al teatro del Seicento, di aver dato maggiore importanza all’intreccio e alla personalità dei personaggi, di aver conferito una maggiore eleganza alla melodia del verso e alla qualità poetica del testo, tanto da costituire un punto di riferimento per molti librettisti dell’Ottocento.

Il Romanticismo vede l’affermazione del romanzo “gotico”, del romanzo “storico”, dei grandi romanzi francesi e inglesi con autori come Victor Hugo e Walter Scott. In questo periodo nasce anche il teatro romantico con Goethe, Schiller, Victor Hugo, Alfred De Musset e George Byron. Viene praticamente riscoperto e rivalutato in tutta la sua grandezza Shakespeare, di cui i romantici apprezzano la straordinaria forza fantastica, la varietà di travolgenti passioni, la capacità di un attento dosaggio del tragico e del comico, la riscoperta del peso degli eventi e del destino sulle vicende umane. Quasi tutti gli autori del melodramma romantico saranno per questo affascinati dalle opere del genio teatrale inglese. Il melodramma diventa così un grande crogiuolo nel quale confluiscono e si fondono gli influssi dei romanzi storici, dei romanzi popolari alla Dumas e del feuilleton alla Sue, del teatro scespiriano e del teatro elisabettiano con i suoi intrecci tenebrosi e sanguinari, con i suoi personaggi animati da sentimenti esasperati e violenti.

Il melodramma romantico

Il melodramma diventa il veicolo popolare dell’ideologia romantica con l’esaltazione della libertà e dell’indipendenza dell’individuo, la presenza di eroi senza macchia, essere umani crudeli e portatori di sentimenti perversi, di eroine perseguitate dalle famiglie e condannate a vivere amori infelici, a volte portate dagli eventi a precipitare nella disperazione della follia. I protagonisti (soprattutto quelli femminili) sono figure molto concrete che esprimono i sentimenti del dolore, dell’infelicità, dell’ira e del rancore, della malvagità e della vendetta e sono coinvolti nell’eterno conflitto tra il Bene e il Male.

La musica diventa la forma di espressione privilegiata dei sentimenti proprio perché essa è la più “immateriale” delle arti, si serve di un linguaggio universale che consente di mettere in scena le passioni e gli stati d‘animo, gli ideali e le visioni spirituali di compositori e librettisti. Nessuna arte umana come la musica riesce a esprimere l’ineffabile, superando i limiti che incontrano le immagini e le parole. La musica riesce a dar voce all’inesprimibile, a rappresentare l’interiorità dell’autore che finisce per sacrificare se stesso, annientando nell’opera la propria personalità. I sentimenti e le emozioni diventano il mezzo privilegiato per accedere ai segreti più intimi del mondo, dell’umanità e della divinità. Lo spirito romantico trova proprio nella musica la sua manifestazione più potente, che si concretizza in una ricerca sempre più attenta e raffinata dei suoni e dell’uso degli strumenti, nel definitivo abbandono dei linguaggi precedenti per puntare a un linguaggio più originale e più aderente agli stati affettivi dei personaggi. “La grande opera del romanticismo in musica è la dissoluzione degli schemi formali classici e la sostituzione a essi di una forma che non conosce schemi preconcetti, ma si plasma direttamente sull’intuizione della fantasia” (Massimo Mila). Di pari passo con la musica, si assiste a un’evoluzione della librettistica affidata ad autori che hanno una loro dignità letteraria, a partire da Felice Romani per arrivare ad Arrigo Boito. Con il Romanticismo nasce una drammaturgia musicale basata su trame che s’ispirano sia al romanzo sia al teatro, che presentano un intreccio avvincente e scorrevole, che puntano all’essenziale dell’azione per coinvolgere gli spettatori nella comprensione della vicenda.

Il melodramma dell’Ottocento non è più considerato uno svago musicale di tipo mondano come avveniva nel Settecento, perché lo spettatore va a teatro per partecipare intensamente a quanto avviene sulla scena, per entrare in sintonia con le sofferenze e le passioni dei personaggi. Ma le vicende dei melodrammi, oltre alle eccezioni rappresentate da alcune opere semiserie (Rossini, il Bellini della Sonnambula, il Donizetti dell’Elisir d’amore), sono caratterizzate da sentimenti “forti” come l’amore per la libertà e per la patria, lo scontro con l’autorità paterna o politica, l’ineluttabilità del destino. Esse sono soprattutto incentrate sull’idea che l’amore sia l’unico sentimento portante della vita umana, per cui tutto quello che la ostacola diventa inganno, malvagità e sopruso. Questa costante infelicità dei protagonisti rende accettabile per lo spettatore la morte dell’eroe o dell’eroina, con la conseguente abolizione del lieto fine che era stato una costante per tutto il Seicento e il Settecento.

La particolare importanza che assumono le scene della pazzia nell’opera lirica

L’esaltazione delle passioni, spesso incontrollabili e persino ossessive, trova a volte sfogo nella follia che occupa nel melodramma un ruolo di primo piano, per cui in alcune scene operistiche circola qualcosa di morboso, di nevrotico, di delirante che finisce per diventare il trionfo dell’irrazionalità assoluta. Questo fascio di passioni estreme e violente confluiscono nella scena della pazzia che rappresenta un momento culminante e persino autonomo all’interno del melodramma romantico, diventando l’occasione per gli interpreti (soprattutto femminili) di dare libero sfogo al virtuosismo puro. Infatti la follia, intesa come distacco dalla realtà, giustifica da parte degli autori l’assunzione di un linguaggio vocale basato su passaggi d’agilità e su ornamenti, come il “gorgheggio” e la “fiorettatura”, che danno la misura di una forte emozione del tutto eccezionale. Fanciulle in preda al delirio e a incubi paurosi, personaggi soggetti a sogni carichi di tristi presagi, donne colpevoli di terribili delitti entrano in competizione di bravura con l’orchestra oppure con singoli strumenti, permettendo ai compositori di sprigionare tutta la loro “anima romantica”. Nasce così una particolare affinità tra la voce umana e alcuni strumenti come il clarino, il flauto, l’oboe, perché i musicisti abbandonano in questo caso lo stile spianato, usato in passaggi di tipo “realistico”, per adottate uno stile fiorito che rappresenta meglio il distacco dalla realtà determinato dalla pazzia, dando libero sfogo a un canto concitato e impetuoso.

Il tema della follia in Vincenzo Bellini

Vincenzo Bellini (1801-1835) è il primo dei grandi musicisti romantici ad affrontare il tema della “diversità” nell’opera semi-seria La Sonnabula (1831), composta su libretto di Felice Romani tratto dalla comedie-vaudeville La sonnambule di Eugene Scribe. L’opera ha come protagonista Amina, promessa sposa del giovane Alvino, che viene corteggiata dal conte Rodolfo. La fanciulla è affetta da sonnambulismo e, avvolta in una veste bianca, è solita camminare addormentata, per cui entra nella stanza del conte, sognando lo svolgimento della sua cerimonia nuziale (“Oh come è lieto il popolo”). Sorpresa e risvegliata dal fidanzato, è accusata di tradimento e, nonostante lei si proclami innocente, tutto il villaggio la ritiene colpevole. Alvino decide allora di sposare la giovane Lisa, quando ecco comparire Amina che esce dormendo dalla finestra del mulino e cammina sull’orlo del tetto. Tutti gli invitati al matrimonio trattengono il respiro, ma Amina non precipita nel vuoto e nel sonno invoca la felicità per Alvino. Quindi estrae dal petto un mazzetto appassito di fiori che le aveva donato il fidanzato (“Ah, non credea mirarti”) e sogna di nuovo lo svolgimento della cerimonia nuziale. Questa volta Alvino asseconda il suo sogno e le restituisce l’anello. La fanciulla si risveglia fra le sue braccia e, dopo un primo smarrimento, esprime tutta la gioia per il suo amore ritrovato.

Il tema della follia è presente ne I Puritani (1835), l’ultimo melodramma composto da Bellini su libretto di Carlo Pepoli e tratto dal dramma Tetes Rondes et Cavaliers di Ancelot-Xavier, a sua volta ispirato al romanzo I Puritani di Scozia di Walter Scott. Il momento culminante di questa vicenda, ambientata durante la guerra tra Cromwell e gli Stuart, è rappresentato dalla “scena della pazzia” provocata da una cocente delusione d’amore. Si tratta di un’elegia del dolore di chiara ispirazione romantica che nessun compositore aveva scritto prima; siamo di fronte a un canto sublime della disperazione accompagnato sommessamente dai violini. La bella Elvira è felice (“Sai com’arde in petto mio”), perché sta per sposare il nobile Arturo, quando questi scopre che la donna prigioniera nel castello è Enrichetta, vedova di Carlo I e figlia di Enrico Stuart. Decide di farla fuggire, facendole indossare il velo da sposa di Elvira.

La giovane comincia allora a mostrare i segni della follia: crede di essere in chiesa e giura eterno amore ad Arturo, mentre tutti imprecano contro il traditore dell’onore e della patria. La mente di Elvira è a volte limpida e a tratti offuscata dalla pazzia, per cui crede di essere in chiesa e scorge Arturo nelle persone che le si avvicinano (“Cinta di fiori”). Nella scena madre Elvira pronuncia frasi sconnesse e invoca il suo amore lontano, poi crede di doversi recare alla cerimonia nuziale (“Qui la voce sua soave”), ma è ricondotta nelle sue stanze. Dalla loggia del castello si sente una canzone d’amore: è quella che un tempo Arturo cantava a Elvira e, quando il giovane si unisce al canto, la sua fidanzata lo raggiunge. Arturo si getta ai suoi piedi, le spiega l’equivoco della falsa sposa, le conferma il suo amore, ma in quel momento sopraggiungono dei soldati per catturare Arturo che è stato condannato a morte. A questo punto Elvira, che ha riacquistato la ragione, decide di morire con lui, ma giunge la notizia che Cromwell ha sconfitto gli Stuart ed ha concesso l’amnistia a tutti i condannati, per cui i due giovani potranno sposarsi.

Il tema della follia in Gaetano Donizetti

Gaetano Donizetti (1797-1848) è il compositore che affronta in maniera più ampia il tema della follia. Dopo un primo periodo (1818-1830) ancora legato al melodramma classico, questo autore sprigiona il massimo della sua creatività con una serie di capolavori romantici a cominciare da Anna Bolena (1830), dove viene rappresentato il dramma di questa donna divisa tra il dovere di regina al fianco di Enrico VIII e il richiamo del suo antico amore per Lord Percy. Imprigionata e condannata a morte, Anna cade in uno stato di disperazione che rasenta molto da vicino la follia, sconvolta da una specie di delirio per la perdita della corona regale e della vita stessa.

Nell’opera Il Furioso all’isola di San Domingo (1833), composta su libretto di Jacopo Ferretti ispirato a un episodio del Don Chisciotte di Cervantes, il personaggio in preda alla follia è questa volta un uomo, Cardenio, che ha perduto la ragione a causa del tradimento della moglie. Con la mente sconvolta dalla pazzia, egli si è rifugiato in un’isola lontana, dove sbarca la moglie che vuole farsi perdonare. Con la collaborazione degli isolani, Cardenio riacquista la ragione e concede il perdono alla moglie pentita.

L’opera più celebre di Donizetti è Lucia di Lammermoor (1835), scritta su un libretto di Salvatore Cammarano ispirato al romanzo The Bride of Lammermoor di Walter Scott. La storia è incentrata sull’odio che divide le due famiglie degli Ashton e dei Ravenswood, a cui appartengono rispettivamente Lucia e Edgardo che si amano e che hanno giurato segretamente di unirsi in matrimonio. Enrico, fratello della giovane, l’ha invece promessa in sposa al nobile Arturo per ragioni puramente politiche, per cui costringe una Lucia smarrita e disperata a firmare il contratto di nozze. Nel pieno dei festeggiamenti, irrompe nella sala Edgardo che accusa Lucia di aver tradito il loro giuramento, la maledice, quindi si scaglia con la spada sguainata contro Enrico e Arturo, mai i tre vengono separati. Mentre continua la festa, nelle sue stanze Lucia uccide Lord Arturo ed entra nel salone in preda a una follia che la condurrà alla morte.

Questa è la “scena della pazzia” più famosa nella produzione operistica di tutti i tempi, banco di prova per la bravura delle cantanti liriche, perché essa richiede una grande tecnica virtuosistica a causa delle estreme difficoltà della tessitura vocale, poiché la carica melodica oscilla continuamente tra il recitativo, la mezz’aria e l’aria vera e propria. Completamente fuori di sé, Lucia ricorda i suoi incontri segreti con Edgardo e immagina di celebrare le sue nozze attraverso una serie di arie di straordinaria intensità (Il dolce suono mi colpi di sua voce, Sparsa è di rose, Ah! L’inno suona di nozze!, Ardon gli incensi), che si concludono con la morte della fanciulla (Spargi d’amaro pianto). In preda al delirio Lucia immagina di realizzare il suo sogno d’amore, mettendo in atto una folle rivolta contro chi pretende di imporre la ragione della politica contro un giuramento d’amore fatto secondo una libera scelta. In nessun altro melodramma troviamo che una sconvolgente passione amorosa possa così repentinamente trasformarsi in una irreparabile tragedia: “Questo modo immateriale, eppure intensamente emotivo di descrivere la disperazione di un essere che l’amore ha condotto all’omicidio e alla follia, sboccia nell’allucinazione allorché gli echi e i richiami che vengono nella mente sconvolta di Lucia si dissolvono nel canto senza parole di arditissimi passaggi vocalizzati iterati dal suono vitreo e flebile di un flauto anch’esso impegnato in spasmodici virtuosismi” (Rodolfo Celletti).

Se vogliamo trovare un legame di questo personaggio femminile con il mondo teatrale, si può sottolineare che esiste un forte parallelismo tra Lucia e l’Ofelia di Amleto: ambedue devono subire il potere repressivo del loro fratello; sono usate come marionette per scopi politici al di fuori del loro volere e dei loro interessi; sono respinte dall’uomo che amano e finiscono per trovare la loro libertà nella follia.

Il melodramma semiserio Linda di Chamonix (1842), composto su libretto di Gaetano Rossi, ha come protagonista una ragazza figlia di mezzadri della Savoia, la quale è invitata nel suo castello dal marchese di Boisfleury per ricevere una buona educazione, ma i genitori, messi in guardia sui pericoli che essa può correre, la spediscono a Parigi per cercare lavoro in compagnia di alcuni giovani amici. Della ragazza si è nel frattempo innamorato il Visconte Carlo di Sirval, nipote del marchese, che la ospita a Parigi spacciandosi per un pittore che vorrebbe sposarla, ma il visconte cede alle pressioni della madre, decisa a fargli sposare una ricca dama. Questa notizia sconvolge Linda a tal punto da farle perdere la ragione. Tutti i giovani ritornano a Chamonix, dove si precipita anche il Visconte Carlo che ha rifiutato le nozze e ha convinto la madre a fargli sposare Linda, ma la giovane è sempre in preda alla follia e non riconosce nessuno. Sarà il visconte a farle riacquistare la ragione grazie a una canzone che era solito cantare con lei, per cui tutto si conclude felicemente con le nozze dei due giovani.

Si possono individuare in questa opera dei parallelismi con I Puritani: la causa scatenante della follia è un amore tradito; la ragione viene ritrovata attraverso l’espediente di una canzone d’amore; il lieto fine chiude la vicenda in controtendenza con gli altri melodrammi romantici.

Il tema della follia in Giuseppe Verdi

Il terzo grande del melodramma è Giuseppe Verdi (1813-1901) che domina la scena dell’opera europea dai primi successi degli anni Quaranta fino ai capolavori della maturità rappresentati da Otello e Falstaff. Egli rinnova il melodramma rispetto al passato, perché introduce personaggi femminili divorati dall’odio e dalla vendetta (Lady Macbeth); inoltre dà un’impronta diversa al tema della follia, accentuando l’aggressività e la passionalità delle parti per soprano, poiché in questi personaggi femminili la pazzia è un incubo che perseguita persino nel sonno, paura e ossessione, sfogo e catarsi per i propri peccati.

Il dramma lirico Nabucco (1842) è la terza opera di Verdi, composta su libretto di Temistocle Solera tratto dal dramma Nabuccodonosor di Bourgeois-Cornue. Si tratta di un lavoro dalle forti tinte tragiche che dà grande popolarità al suo autore grazie allo straordinario successo del coro Va pensiero sull’ali dorate, nel quale assume un grande valore morale l’esilio del popolo ebraico in Babilonia. Il protagonista è il re Nabuccodonosor che, ritornato in patria vittorioso dopo aver sottomesso Israele, dà prova di uno smisurato orgoglio gridando “Non sono più re, son Dio”. Subito avviene la reazione della Divinità che con un fulmine gli fa cadere dal capo la corona e fa uscire di senno il blasfemo che, in preda al delirio, piange, cade al suolo e si sente incalzato da terribili fantasmi. Abigaille, la schiava adottata come figlia dal re, approfitta per raccogliere la corona e proclamarsi regina, spodestando e condannando a morte Fenena, la figlia legittima di Nabucco. Il re, coperto di stracci e in preda alla pazzia, viene fatto imprigionare da Abigaille e in preda ad un incubo vede la propria figlia condotta al patibolo. Sconvolto dal dolore, Nabucco ritrova la ragione e la forza per riconquistare il trono, per liberare la figlia e per promettere la libertà agli Ebrei in un patto consolidato dalle nozze tra Fenena e l’israelita Ismaele, mentre Abigaille si toglierà la vita. In questo caso la follia assume l’aspetto di una punizione divina destinata a colpire un re che vuole farsi Dio, ma essa diventa anche lo strumento per fargli ritrovare la smarrita strada della saggezza regale.

Giuseppe Verdi con il Macbeth (1847) realizza finalmente il suo desiderio di comporre un’opera ispirata al grande genio di Shakespeare, autore di questo dramma barbarico e medioevale, magico (la presenza determinante delle streghe) e sanguinario, che stimola la creatività di Verdi e del suo librettista Francesco Maria Piave.

Macbeth e sua moglie sono talmente assetati di potere che non indietreggiano nemmeno di fronte all’assassinio del re di Scozia Duncano. Nonostante Macbeth mostri di aver perduto la pace interiore, sospinto dal cinismo della moglie, al primo delitto ne fa seguire altri per consolidare il trono. Macbeth, per placare la sua inquietudine, cerca rifugio e conforto nelle profezie delle streghe che lo assicurano sulla forza del suo potere, mentre i fantasmi di otto re di Scozia gli predicono un’imminente sconfitta. Ormai i suoi nemici assediano il regno ed esigono la punizione per i delitti commessi, per cui Macbeth si prepara a un’estrema difesa chiuso nel suo castello, dove Lady Macbeth, sopraffatta dai rimorsi, vaga come una sonnambula ormai in preda alla follia: è ossessionata dai ricordi; confessa i suoi delitti e quelli del marito; cerca inutilmente di lavare le sue mani che vede coperte di sangue, (“Di sangue umano/Sa qui sempre….Arabia intera/Rimondar sì picciol mano/Co’ suoi balsami non può”). Mentre una dama annuncia la morte della regina, Macbeth riecheggia Shakespeare consapevole di dover affrontare l’ultimo duello che lo condurrà a sua volta alla morte (La vita…che importa?…/E’ il racconto di un povero idiota;/Vento e suono che nulla denota”).

In questa breve e magistrale “Scena del Sonnambulismo”, la presenza di una Lady visionaria e sospesa in una fissità irreale si contrappone alla presenza realistica della dama di corte e del medico, i quali osservano con incredula attenzione il consumarsi del dramma della follia di una donna che abbandona la sua crudeltà e la sua determinazione per sprofondare in una depressione che rivela l’origine psicotica della sua sete di potere e la sua congenita incapacità di vivere. Sopraffatta dalla fragilità della propria psiche, la regina rivive una specie di flash-back che rappresenta il suo inesorabile cammino verso la morte, per cui suscita “pietà e terrore” questa dea dell’odio annientata dalla sua stessa ferocia.

Il Macbeth verdiano è un’opera dominata dalla paura e dal terrore, da una corsa sfrenata verso la violenza criminale, che finirà per far precipitare in un abisso di follia i due protagonisti. Verdi ci spinge a contemplare la paura che ci portiamo dentro, quella paura dell’ignoto che meglio rappresenta l’incapacità di affrontare il reale; giunti tuttavia sulla soglia dell’abisso, l’autore ci risveglia dall’incubo e ci invita a guardare di nuovo al mondo reale, dove il delitto viene punito e la giustizia finisce per trionfare. Soprattutto colpisce la trasformazione di Lady Macbeth che, da donna diabolica ispiratrice di orrendi delitti, diventa nella “scena del sonnambulismo” una larva dagli occhi sbarrati che dà libero sfogo alla sua follia. Freud ha visto in questo personaggio la stessa componente violenta e feroce presente nel marito, per cui il senso di colpa e il rimorso, che alla fine attanagliano la regina, trovano un logico sfogo nella malattia mentale.

Nonostante la sua forza, il suo coraggio, la sua tenace volontà di compiere il male, Lady Macbeth si rivela alla fine una donna debole e indifesa, vittima della completa distruzione della sua psiche. Nella regina tuttavia non esiste traccia di pentimento e il suo sonnambulismo rappresenta l’ultimo incubo (dopo quelli della gloria e del potere), l’estrema follia morale che non è soltanto un momento catartico, ma rappresenta anche la pena del contrappasso e del castigo.

L’amore di Verdi per Shakespeare (“E’ un poeta di mia predilezione, che ho avuto fra le mani dalla mia prima gioventù e che leggo e rileggo continuamente”) si traduce nei suoi due ultimi capolavori Otello e Falstaff. In Otello (1887), composto su uno straordinario libretto di Arrigo Boito, ritorna pressante il tema della follia che si materializza nel Moro di Venezia, divorato da una forma patologica di gelosia che lo porta ad assassinare un’innocente e a distruggere se stesso. A sua volta Jago, che diventa l’incarnazione della malvagità, è affetto da una forma di invidia altrettanto patologica e da un odio irrazionale che lo spinge a tramare diabolicamente per distruggere tre esistenze umane. Da parte sua Desdemona è impegnata a svolgere il suo ruolo di donna affabile e intelligente, di consorte rispettosa e ubbidiente nei confronti del marito, ma la sua identità si sgretola sotto i colpi della follia di Otello, per cui il personaggio precipita anch’esso in uno stato di alienazione nelle ultime tre scene che si svolgono nell’intimità della camera nuziale, quando si preannunzia e si compie l’inevitabile tragedia. Desdemona, che si sta preparando per la notte in attesa del marito che ha promesso di raggiungerla, è al centro di una scena densa di pathos, perché il pubblico sa che tra poco Desdemona sarà assassinata. Nell’attesa lei canta la “canzone del salice” che un’ancella di sua madre era solita farle ascoltare da bambina: questo canto pieno di struggente malinconia non è solo un triste ricordo, ma anche un doloroso presentimento, perché la donna sente la sua esistenza avviarsi verso un tragico epilogo, annunciato anche dal canto dell’Ave Maria. Tutto questo nel segno di una paura interiore, di uno smarrimento, di un senso di morte incombente che richiamano antiche e ancestrali premonizioni, le quali rendono particolarmente fragile la psicologia di questo personaggio femminile che accetta con rassegnazione, senza nessuna forma di ribellione o di difesa, il suo destino incombente, vittima delle fantasticherie di un uomo che ha trasformato il sentimento amoroso in un incubo selvaggio e irrefrenabile. Sull’amore finiscono per prevalere l’irrazionalità e la morbosa immaginazione di Otello che, in preda ad una cieca gelosia, trasforma la moglie fedele in un’adultera peccatrice che va assolutamente annientata. Desdemona è ormai una donna psicologicamente distrutta, in preda all’ansia e alla tristezza, per cui la triste canzone del passato diventa un doloroso annuncio di morte.

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