La diagnosi in Psichiatria

Prof. Bernardo Nardi

Bernardo Nardi
Docente di Psichiatria e Psicologia Clinica
Facoltà di Medicina e Chirurgia, Università Politecnica delle Marche

 

Sono descritti gli strumenti diagnostici che possono integrare ed arricchire la diagnosi e far intraprendere il corretto trattamento di un disturbo mentale. Vengono inoltre indicati alcuni punti di riferimento, veri punti cardinali, che possono funzionare da bussola per orientarsi nel difficile percorso della pratica clinica.

INTRODUZIONE
In ambito psichiatrico, l’approccio clinico si fonda sul colloquio, che è centrato sulla raccolta dei dati anamnestici significativi e sull’esame dello stato psichico.

L’anamnesi (dal greco anàmnesis: ricordo) è la storia della vita del soggetto raccontata allo psichiatra con le parole e dal punto di vista dell’interessato (e, se necessario, da persone che lo conoscono); essa raccoglie:

  • la storia di rilevanza clinica degli ascendenti e dei collaterali del soggetto (anamnesi familiare);
  • la storia della sua evoluzione in relazione ai principali eventi maturativi, quali l’andamento della gravidanza e le modalità del parto, l’acquisizione del linguaggio, della deambulazione spontanea e del controllo degli sfinteri, l’andamento scolastico, gli eventi puberali e il loro impatto, le abitudini alimentari e, più in generale, di vita, le relazioni significative, gli eventuali rapporti affettivi e il loro andamento nel tempo (anamnesi fisiologica);
  • la storia delle eventuali patologie pregresse di cui il soggetto ha sofferto (anamnesi patologica);
  • la storia del problema clinico presentato (anamnesi psicopatologica).

Oltre a raccogliere i dati concreti e reali relativi alla cronologia della formazione del sintomo e alla storia psichiatrica e medica, lo psichiatra utilizza il raccordo anamnestico per dedurre gli aspetti più significativi e specifici della personalità del soggetto, compresi i punti di forza e quelli di debolezza. Si tratta di qualcosa di intrinsecamente diverso dalla raccolta dell’anamnesi nella tradizione medica in generale: la differenza sta nel fatto che l’intervista psichiatrica non tiene conto soltanto dell’obiettività dei dati, ma deve anche esaminare il vissuto interno del soggetto. Recentemente, nuovi approcci metodologici, come quello cognitivista post-razionalista, hanno centrato l’attenzione proprio sull’importanza del valore soggettivo degli aspetti anamnestici raccolti. Infatti essi – “normali” o “patologici” che siano – non rimandano a quadri astratti impersonali ma esprimono piuttosto le modalità soggettive attraverso le quali l’individuo percepisce, riordina e riferisce attivamente a sé l’esperienza, dando ad essa, tra le infinite possibilità di scelta, un determinato senso. Tuttavia, proprio questo senso, frutto del riordinamento soggettivo della realtà percepita, viene vissuto come qualcosa di unico e di obbligato e viene raccontato nell’anamnesi come se fosse vero, universalmente valido e condivisibile da tutti. È importante pertanto raccogliere l’anamnesi tenendo presente che i sintomi riferiti non hanno un particolare significato di per sé: avere un disturbo d’ansia, una depressione dell’umore o un delirio non ha il medesimo significato per tutti gli individui, né coincide con il modo di vivere o di immaginare l’ansia, la depressione o il delirio dell’esaminatore.

L’esame psichico consiste nella descrizione delle funzioni psichiche del soggetto. Viene effettuato durante il colloquio psichiatrico, integrando le informazioni acquisite durante la raccolta dell’anamnesi. Deve essere eseguito e descritto in modo ordinato e sistematico, prendendo in considerazione i seguenti elementi:

  • aspetto generale e comportamento: cura della persona, igiene, abbigliamento, postura, attività psicomotoria (gestualità, manierismi, tic, iperattività, comportamento stereotipato, agitazione, aggressività, andatura, agilità, ecoprassia, irrequietezza, rallentamento psicomotorio, ecc.), atteggiamento nei confronti dell’esaminatore (collaborante, attento, interessato, amichevole, deduttivo, difensivo, perplesso, apatico, ostile, oppositivo, evasivo, ecc.) ed espressioni facciali (facies);
  • atteggiamento verso gli altri (figure significative e non significative), con particolare riferimento allo stile relazionale ed affettivo;
  • eloquio: fluidità, correttezza delle associazioni e dei legami grammaticali, sintattici e logici, velocità, ritmo del discorso (rilievo di rallentamenti o accelerazioni). L’esame del linguaggio va tarato rispetto alle possibilità espressive connesse al livello culturale o alle situazioni socio-ambientali;
  • funzioni fisiologiche principali: alimentazione, ciclo sonno-veglia, funzioni sessuali ed assetto motivazionale e volitivo di base (come il soggetto difende i suoi spazi vitali, come è disposto a prendersi cura o a farsi prendere in cura rispetto agli altri, quali comportamenti agonistici attua, come è improntata la sua volontà);
  • funzioni senso-percettive: sensazioni, percezioni;
  • funzioni affettive: emozioni, sentimenti, ansia, aggressività, tono dell’umore;
  • funzioni cognitivo-intellettive: vigilanza, attenzione, apprendimento, memoria, funzioni simboliche fasiche, prassiche e gnosiche, ragionamento, giudizio, critica;
  • vigilanza (con particolare riferimento al ciclo sonno/veglia) e coscienza (valutandone gli stati nel loro andamento e nei possibili cambiamenti, sia rapidi che lenti);
  • pensiero (nei suoi aspetti sia di forma che di contenuto);
  • psicomotricità.

In una intervista psichiatrica risulta inoltre di fondamentale importanza riconoscere la simulazione e la dissimulazione; è necessario valutare attentamente come vengono presentati i dati, se c’è congruenza tra i contenuti verbali e non verbali, specie in rapporto con i quadri psicopatologici nei quali si possono osservare.

La diagnosi clinica viene fatta, in modo ormai standardizzato a livello internazionale, utilizzando un approccio descrittivo, previsto dal Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (“Diagnostic and Statistic Manuale of Mentali Disorders”), elaborato dall’American Psychiatric Association (APA), attualmente alla quinta edizione (DSM-5).

Per il DSM-5, “un disturbo mentale è una sindrome caratterizzata da un’alterazione clinicamente significativa della sfera cognitiva, della regolazione delle emozioni o del comportamento di un individuo, che riflette una disfunzione nei processi psicologici, biologici o evolutivi che sottendono il funzionamento mentale. I disturbi mentali sono solitamente associati a un livello significativo di disagio o disabilità in ambito sociale, lavorativo o in altre aree importanti. Una reazione prevedibile o culturalmente approvata a un fattore stressante o a una perdita comuni, come la morte di una persona cara, non è un disturbo mentale. Comportamenti socialmente devianti (per es., politici, religiosi o sessuali) e conflitti che insorgono primariamente tra l’individuo e la società non sono disturbi mentali, a meno che la devianza o il conflitto non sia il risultato di una disfunzione a carico dell’individuo”.

Il manuale è stato costruito in base ai seguenti criteri:

  1. nosologico: i disturbi mentali sono definiti in base a quadri sintomatologici descritti a prescindere dal vissuto del singolo e sono raggruppati utilizzando criteri standard;
  2. statistico: la presenza o meno di un disturbo mentale e la distinzione tra questo e un livello normale di funzionamento viene definito attraverso i concetti statistici di frequenza, intensità, moda, mediana, varianza, correlazione; per tale fatto viene richiesto un cut-off, un numero minimo di sintomi presenti per ogni disturbo ( ad es., presenza di tre o più caratteristiche presenti in quel quadro) e un periodo minimo di presenza dei sintomi; esistono infine dei criteri di esclusione relativi all’età di insorgenza del disturbo e alla diagnosi differenziale rispetto a disturbi che presentano gli stessi sintomi;
  3. ateorico: la diagnosi viene fatta a prescindere da qualsiasi approccio teorico (comportamentista, cognitivista, psicoanalitico, relazionale, gestaltico, ecc.);
  4. assiale: i disturbi mentali sono raggruppati su 5 assi, al fine di ottenere una diagnosi esauriente e standardizzata (Tabella 1).
  5. Asse Aspetto diagnostico
    I Disturbi clinici e altre alterazioni che possono essere oggetto di attenzione clinica; sono tutti caratterizzati dal fatto di essere temporanei, insorgendo in un determinato momento della vita e non sono “strutturali”, legati alla personalità dell’individuo
    II Disturbi di personalità e ritardo mentale; si tratta in questo caso di disturbi stabili, strutturali, non restituibili a una condizione “pre-morbosa”; si possono associare ad un disturbo di Asse I, al quale fanno da contesto
    III Condizioni mediche acute e disordini fisici che possono essere associati al disturbo mentale riscontrato
    IV Condizioni psicosociali e ambientali che contribuiscono al disturbo mentale riscontrato
    V Valutazione globale del funzionamento, in base alla capacità di gestione psichico-comportamentale e socio-relazionale dell’individuo, tenendo conto dei comportamenti sintomatici e degli stili di gestione delle emozioni o di altri aspetti della vita psichica

Tabella 1 – I cinque Assi diagnostici del DSM

GLI STRUMENTI DEL MESTIERE
Come integrare la valutazione (assessment) del soggetto
In psichiatria la valutazione del soggetto (assessment), di tipo nosologico e psicopatologico, viene fatta, come si è detto, utilizzando criteri diagnostici standardizzati (DSM-5) dopo aver effettuato un approfondito colloquio clinico, con una accurata ricognizione anamnestica, personale e relazionale. Per una maggiore accuratezza, il colloquio può essere integrato da una serie di accertamenti aggiuntivi, di tipo psicometrico, laboratoristico (ad esempio, esami emato-chimici) e strumentale (ad esempio, di neuroimaging, di elettroencefalografia, ecc.), nonché, come si dirà, da valutazioni psicodiagnostiche.

Le indagini laboratoristiche e strumentali vengono utilizzate solitamente per individuare (nel cosiddetto “screening”) eventuali patologie organiche che possono associarsi ai disturbi psico-comportamentali o che, in alcuni casi, li possono determinare.

Le recenti metodiche computerizzate di visualizzazione del parenchima cerebrale, attraverso mappe che evidenziano l’attività metabolica, bioelettrica o il flusso ematico delle varie strutture cortico-sottocorticali, consentono di approfondire la conoscenza dei correlati biologici delle modificazioni psico-comportamentali, normali o patologiche (TAC, Risonanza Magnetica, specie se funzionale, elettroencefalografia, ecc.). Esse hanno quindi aperto nuovi orizzonti conoscitivi concernenti le basi anatomo-funzionali dei processi psichici, che sono oggetto di studio dell’approccio cognitivo, inclusi i processi di apprendimento e le attivazioni emozionali in risposta alle interazioni con l’ambiente e alle perturbazioni della coerenza interna derivanti da queste interazioni.

La testistica psicodiagnostica si basa su test (cioè su “prove”), che consistono in situazioni sperimentali (non spontanee, come avviene invece nel caso delle osservazioni etologiche) standardizzate, che fanno da stimolo ad un comportamento, il quale viene valutato per comparazione statistica con quello osservato in soggetti posti nella medesima condizione.

Essa consente la valutazione e la diagnostica psicologica, psicopatologica e personologica, attraverso l’uso di un’ampia gamma di test (questionari, batterie e tecniche psicometriche e proiettive, esami neuropsicologici, inventari di personalità). Il tipo di tecniche e di strumenti usati viene scelto in base al contesto ed allo scopo della valutazione, all’età ed alle caratteristiche del soggetto valutato, nonché all’orientamento teorico ed alla formazione specialistica del valutatore.

In generale, la diagnostica psicologica copre uno spettro più ampio di quello nosologico e psicopatologico. Infatti, oltre a rilevare l’eventuale presenza di una sintomatologia psicopatologica, consente di valutare aspetti e processi della personalità, atteggiamenti individuali, modalità relazionali, livello e tipologia delle funzioni cognitive, nonché la struttura della personalità, inclusi bisogni, interessi, aspirazioni e valori di un individuo.

I test per la psicodiagnosi sono essenzialmente di due tipi:

Test di efficienza
Includono test di intelligenza, di cultura, di attitudine globale, di funzione o di attitudini particolari (senso-percettive, di lateralizzazione emisferica, della dimensione temporale, dell’organizzazione spaziale, della memoria, dei fattori verbali, numerici, meccanici, ecc.). I test di livello hanno una base psicometrica e sono utilizzati per valutare il livello e la tipologia delle capacità cognitive. Vengono usati soprattutto nella valutazione delle attitudini personali, sia in ambito educativo che in quello della selezione professionale e, nella pratica clinica, per indagare l’eventuale presenza di disturbi cognitivi. Tra i più usati sono la Wechsler Adult Intelligence Scale, WAIS o la Wechsler Intelligence Scale for Children, WISC e le Matrici di Raven.

I questionari sono di vario tipo, lunghezza (numero di domande o “item”) e struttura (solitamente sono a risposta multipla o su una Scala Likert, prevedendo risposte in una scala di 5-6 possibilità di risposta che va da molto a nulla, da vero a falso). Grazie alla loro flessibilità operativa, i questionari sono ampiamente utilizzati per esplorare un grande numero di settori clinici, legati alle competenze e al funzionamento individuale, relazionale e sociale. Le “scale psicopatologiche” sono solitamente questionari auto o etero-somministrati, con un numero di domande (“item”) molto variabile, che rilevano la presenza, la frequenza e l’intensità di sintomatologie di interesse psicopatologico, sia isolate che sotto forma di sindromi. Il Mini-Mental Test e la Symptom Checklist-90 (SCL-90) sono usati per un primo screening di massa o per un rapido monitoraggio “ad ampio spettro” dell’eventuale sintomatologia presentata da un soggetto in un contesto psichiatrico o di consultazione. Altre scale sono utilizzate per quantificare, in modo standardizzato, la sintomatologia dei diversi disturbi psichici. Quelle più impiegate nella pratica clinica per la depressione e l’ansia sono, rispettivamente, la Hamilton Depression Rating Scale (HAM-D) e la Hamilton Anxiety Rating Scale (HAM-A); per indagare i sintomi psicotici sono impiegate prevalentemente la Brief Psichiatric Rating Scale (BPRS) e la Positive and Negative Symptoms Scale (PANSS).

Test di personalità
I test di personalità sono strumenti clinici utilizzati per valutare dimensioni, tratti, costrutti relativi alla personalità. Ne esistono molteplici tipi e categorie, diversificati sia in base al tipo di paradigma personologico che li ha generati (e sulla cui matrice teorica quindi si basano, più o meno implicitamente), sia al tipo di parametro valutato: ad esempio, tratti o costrutti specifici (relativi prevalentemente alla sfera cognitiva), o valutazioni globali.
I test di personalità possono essere obiettivi o proiettivi.
I test obiettivi di personalità consistono in questionari volti a determinare i diversi fattori della personalità – caratteristiche e reazioni individuali – che vengono validati mediante criteri quantitativi esterni rispetto al test. Gli inventari di personalità indagano i vari aspetti (“tratti”) della personalità, lungo un range che va dalla normalità alla patologia. Il Minnesota Multiphasic Personality Inventory (MMPI-2), comunemente usato nella pratica clinica, indaga la personalità ma consente di valutare, mediante le sue scale cliniche, anche un ampio spettro di disturbi psicopatologici; è composto da 567 item a cui il candidato deve rispondere vero o falso a seconda se l’affermazione sia per lui prevalentemente vera o prevalentemente falsa. Le domande consentono di ricostruire sia scale di validità, che permettono di verificare se il soggetto ha compilato il questionario con sincerità e accuratezza, sia scale cliniche, che indagano, anche da un punto di vista psicopatologico, le dimensioni più significative della personalità (Tabella 2).

Scala Aspetti indagati
L

(Lie, Menzogna)

Frasi i cui comportamenti illustrati per la quasi totalità delle persone sono veri o falsi, reali o ideali; se, per essere giudicati più positivamente, si falsifica o meno la risposta
F

(Frequency, Frequenza)

Possibilità o meno di esagerare i sintomi, con risposte casuali, simulazioni di malattia o aspetti anticonformisti; risposte date senza fare attenzione alle domande, per stanchezza o scarso interesse
K

(Correction, Correzione)

·         presenza o meno di un atteggiamento di difesa nei confronti del questionario e tendenza a non fare trasparire alcuni problemi
Fb

(Frequency back, Frequenza posteriore)

Mantenimento o meno dell’attenzione durante la compilazione
VRIN

(Variable Response Inconsistency, Variabile di incoerenza nella risposta)

Tendenza o meno a dare risposte non coerenti, mostrando un’immagine di sé non credibile
TRIN

(True Response Inconsistency, Incoerenza nelle risposte “vero”)

Tendenza o meno analoga, come la VRIN
Hs

(Hypocondrias, Ipocondria)

Presenza o meno di problemi fisici caratteristici degli ipocondriaci
D

(Depression, Depressione)

Presenza o meno di sintomi di tipo depressivo
Hy

(Hysteria, Isteria di conversione)

Tendenza o meno a somatizzare alcune emozioni e disagi di tipo psichico
Pd

(Psychopathic Deviate, Deviazione psicopatica)

Carenza o meno di controllare le risposte emotive e di interiorizzare le regole sociali
Mf

(Masculinity-Femminility, Mascolinità-Femminilità)

Insieme di tutti gli aspetti (interessi, atteggiamenti, etc.) tendenzialmente mascolini o femminili

 

Pa

(Paranoia, Paranoia)

Presenza o meno di sintomi di tipo paranoide (ideazioni deliranti, manie di grandezza, etc.)

 

Pt

(Psychastenia, Psicastenia)

Presenza o meno di rituali fobici e di comportamenti ossessivo-compulsivi, fino ad una ideazione delirante
Sc

(Schizophrenia, Schizofrenia)

Presenza o meno di esperienze di tipo insolito, tipiche degli schizofrenici
Ma

(Hypomania, Mania)

Presenza o meno di stati ipomaniacali (idee di grandezza, alto livello di attività, etc.)
Si

(Social Introversion, Introversione sociale)

Presenza o meno di difficoltà nei rapporti con gli altri

Tabella 2 – Principali scale di validità e cliniche dell’MMPI-2

Tra gli altri inventari si segnalano il California Personality Inventory (CPI) ed il Millon Adolescent Personality Inventory (MAPI). Le Scale di Personalità sono di dimensioni ridotte e consentono un “focus di analisi” su specifiche dimensioni, tratti o costrutti di personalità. Tra le più note sono il 16 Personality Factors (16PF) di Cattell; l’Eysenck Personality Questionnaire (EPQ); il Myers-Briggs Type Indicator (MBTI). Nell’ambito costruttivista è stato messo a punto il Test per lo studio dei Costrutti Personali, che indaga il sistema di significati con cui il soggetto costruisce le sue rappresentazioni valoriali, conative e relazionali. Nel modello costruttivista post-razionalista, il nostro gruppo ha messo a punto il Mini Questionario sulle Organizzazioni Personali (MQOP), che esplora l’Organizzazione di Personalità (OP) del soggetto (l’espressione di come un individuo assimila e si riferisce l’esperienza, individuando e gestendo gli stressor secondari appresi a partire dall’attaccamento, costruendo la propria tavolozza emozionale e i correlati cognitivi dai quali ricava il senso di sé) attraverso la risposta a 20 item, che fanno riferimento a 4 scale, una per ogni OP (Scala Controllante, Distaccata, Contestualizzata, Normativa).

Test proiettivi
Nei test proiettivi la personalità viene ricavata proponendo al soggetto un materiale poco differenziato, ambiguo, sfumato nei significati. Questi test si prestano pertanto ad espressioni creative ideo-affettive, attraverso le quali il soggetto “proietta” aspetti non consapevoli della sua personalità, che vanno interpretati sotto il profilo qualitativo. Nonostante la loro apparente “destrutturazione”, sono solitamente accompagnati da modalità ben definite e standardizzate di codifica e di analisi delle risposte fornite (siglatura), e da specifici criteri di valutazione, basati su ricerche empiriche. Tra i più noti ed utilizzati test proiettivi sono il test di Rorschach (che consiste nella presentazione di 10 tavole contenenti macchie simmetriche di inchiostro: 5 monocromatiche, 2 bicolori e 3 colorate; l’interpretazione non si basa solo sul contenuto, ma anche se si fanno commenti particolari, se ci si sofferma sugli aspetti generali o sui dettagli della figura, se la risposta è più o meno originale, se il tempo impiegato a dare la risposta è lungo, per un cosiddetto effetto “shock”), il Thematic Apperception Test (TAT) ed il Children Apperception Test (CAT), costituiti da tavole che presentano differenti situazioni di vita, con uno o più personaggi e con diversi gradi di strutturazione dell’immagine presentata. Nell’ambito post-razionalista, il nostro gruppo ha validato il Post-Rationalist Projective Reactive (PRPR), che è un reattivo di 20 tavole, raffiguranti personaggi e situazioni, che indaga, attraverso le storie e le attivazioni che il soggetto ricava da esse, anche il livello tacito con cui si riferisce l’esperienza nell’ambito della propria Organizzazione di Personalità (OP). Il PRPR consente di discriminare sia il livello conoscitivo tacito che quello esplicito, pur essendo essi quasi simultanei e complementari. Il primo concerne senso-percezioni, stati d’animo, tonalità emotive, immagini; il secondo la spiegazione che il soggetto si dà (tipo: mi sono arrabbiato, ho avuto una reazione esagerata, ecc.). Il PRPR, rispetto ad altri test, si caratterizza proprio per l’attenzione che pone al livello dell’immediatezza dell’esperienza e, quindi, delle emozioni. Infatti, viene presentato come test sulle emozioni e sui vissuti soggettivi e nelle istruzioni si chiede al soggetto di costruire una breve storia per ciascuna tavola, in base a ciò che immagina per quella situazione e, tenendo conto della specifica scena osservata, di immaginare anche un prima e un dopo rispetto a quella situazione. Come accade nella realizzazione di un film, si invita il soggetto ad assumere sia il ruolo del regista (non del critico o di un valutatore), sia di calarsi, da protagonista, nel “qui e ora” della storia che deve costruire, a partire dalla immagine stimolo che osserva.

Remissione, recovery, cambiamento

Una volta fatta la diagnosi clinica, integrata eventualmente dalle indagini sopra descritte, occorre porsi alcune domande. Come mettere a fuoco l’andamento di un disturbo mentale, formulare una prognosi, chiarirsi le idee sui suoi esiti, valutare il rischio di ricadute precoci o di recidive a distanza?

Esistono a questo proposito tre criteri fondamentali, che si basano su presupposti teorici diversi e che quindi non si escludono reciprocamente ma possono essere integrati tra loro.

Il concetto di “guarigione”, come per ogni branca della medicina, fa riferimento alla cessazione della sintomatologia che aveva caratterizzato il quadro clinico, riportando il soggetto al suo normale funzionamento (“restitutio ad integrum”).

Il concetto di recovery (“recupero”, dall’antico anglo-francese “recover” = riprendere coscienza) ha una maggiore ampiezza di significato rispetto a quello di “guarigione” (è riprendersi e recuperare forza e salute, ma è anche capacità di ampliare la propria coscienza di sé, riutilizzando le proprie risorse e progredendo verso un modo più adattivo di vivere l’esperienza); esso richiede quindi di valutare i fenomeni clinici non tanto in funzione dell’esito,  quanto  in rapporto ai processi che li producono (come si è detto, il sostantivo latino “processus”, derivato dal verbo “procedere”, indica proprio l’azione di avanzare). Il concetto di recovery fa quindi riferimento sia alla remissione valutabile dei sintomi e della disabilità, sia alla dimensione personale del recupero della propria esistenza nelle sue potenzialità e aspettative. Dunque, recovery è scoprire che la variabilità e persino la fragilità degli stati interni può dare senso alla propria vita e aiutare a valorizzarla.

Il concetto di “cambiamento” clinico è molto più che una remissione sintomatologica; non è semplicemente una guarigione, intesa come “restitutio ad integrum”; non è nemmeno un recupero da una condizione di difficoltà, disabilità e svantaggio, sia pure verso una di migliore funzionamento e di maggior benessere. È un processo di crescita che coinvolge l’individuo come persona, nella sua globalità affettiva, cognitiva e relazionale. Questo processo di crescita può avvenire solo all’interno di una co-evoluzione ed una co-esplorazione del mondo interno in cui medico e soggetto si coinvolgono consapevolmente, costruendo un’alleanza empatica che possa mettere a fuoco il mondo interno nelle sue modalità – tacite ed esplicite – di riferirsi l’esperienza e, operando in questo modo, possa farlo evolvere nel profondo verso un migliore adattamento. Un cambiamento reale coincide anzitutto con il raggiungere un modo diverso di prendersi cura di sé. È un far nascere qualcosa di nuovo nel rapporto con sé e con il mondo. I nuovi strumenti con cui si può esplorare e riferire gli stati interni rende sopportabili e gestibili (“un peso che si è allenati a reggere”) quelle categorie di esperienze critiche che prima non lo erano. La maggiore demarcazione tra mondo interno e mondo esterno (= mondo interno degli altri, anch’esso espressione di soggettività uniche) consente di non attribuire automaticamente a sé gli atteggiamenti ed i comportamenti delle figure significative, così come permette di non leggere gli stati psichici di queste figure in diretta connessione con i propri stati e con i propri bisogni e aspettative. Come si è già evidenziato, il cambiamento non coincide con il semplice aumento di consapevolezza: anzi, quest’aumento, di per sé, può anche acuire il problema, se il soggetto non dispone degli strumenti idonei a gestire il disagio che è all’origine del suo scompenso clinico. Infatti, la consapevolezza a livello esplicito di un sintomo da sola non basta per intraprendere un percorso adattivo. In realtà questa condizione, che sembra un “dato di fatto” ineludibile, in terapia può cominciare ad apparire il punto di arrivo di un percorso abituale di autoriferimento dell’esperienza, che può essere cambiato proprio perché non è l’unico possibile, mentre invece è solo l’unico che quella persona ha imparato a percorrere e a sentire come parte integrante del suo modo di essere al mondo.

Punto di vista oggettivo e soggettivo
Come si è detto, la psichiatria e la psicologia descrittive hanno il fine di categorizzare i fenomeni, compresi quelli psicopatologici, cercando di definirli in maniera sufficientemente oggettiva, chiara ed univoca. Questo inquadramento di una funzione psichica o di un disturbo mentale in categorie definite ha il vantaggio di fornire criteri condivisi, ma è carente nel dare strumenti di comprensione del funzionamento mentale, normale o patologico che sia.

D’altra parte, la stessa “medicina basata su prove di efficacia” (“Evidence-Based Medicine, EBM), che poggia sul principio della valutazione dei migliori risultati della ricerca disponibili e sulla verifica della forza delle evidenze dei rischi e benefici dei trattamenti – evidenze utili al processo decisionale clinico nei campi della terapia, prevenzione e miglioramento della qualità dei servizi sanitari – , non può ignorare il fatto che molti aspetti dell’assistenza sanitaria dipendono da fattori individuali, come il giudizio di qualità e valore della vita, che sono solo in parte quantificabili con metodi scientifici.

A questo proposito, l’approccio processuale attento alla soggettività, sviluppato dal costruttivismo post-razionalista, integra e arricchisce gli approcci descrittivi, centrando l’attenzione sullo studio dei processi individuali di adattamento che portano alla costruzione della vita psichica nella sua complessità. Esso è infatti specificamente attento alla persona, sana o malata che sia.

Infatti, da un lato, il mondo psichico è osservabile e descrivibile in maniera sufficientemente univoca e condivisa, con la possibilità di ricercare gli aspetti che sono indagabili con metodiche comuni in tutti gli individui (ad esempio, organizzazione anatomica del cervello, funzionamento dei neurotrasmettitori, misurazione dell’efficienza di una funzione psichica, descrizione e quantificazione di un disturbo psicopatologico o della risposta a un trattamento); dall’altro lato, la psiche riflette un modo unico di recepire l’esperienza, elaborandola secondo dei parametri di base inconsapevoli, trasformandola così in senso di identità personale.

Se si tiene conto della necessità di studiare gli aspetti soggettivi della coscienza, ne deriva che il medico non si può porre semplicemente come un “esperto” che esplora – attraverso conoscenze e “interpretazioni” valide per tutti – il mondo interno dell’altro; al contrario, come un “esploratore”, deve anche ricavare il mondo interno dell’altro – che è l’unico “esperto” di sé, in quanto è l’unico a contatto diretto con esso – attraverso ciò che l’altro gli comunica.

Una bussola per navigare
A questo punto possiamo provare a indicare alcuni punti di riferimento che possono funzionare da bussola per orientarsi nel difficile percorso della pratica clinica, sulla base di quattro punti cardinali, ai quali è utile fare riferimento.

Il primo punto cardinale, in termini di gestione della salute mentale, è tenere presente che qualsiasi problema clinico affrontato nella pratica medica ha anche, necessariamente, un risvolto psicologico se non psichiatrico. Avendo a che fare con una persona, e non semplicemente con una patologia d’organo, il medico avrà a che fare anche con come quell’individuo vive e soffre per il problema che presenta. Un disturbo psico-comportamentale non è mai un fenomeno “isolato” e a sé stante; è sempre qualcosa che ha una genesi complessa, biologica, psicologica ed anche relazionale. Va inquadrato nel suo insieme, non tralasciando le modalità di comunicare e di funzionare delle figure significative che formano la rete primaria di relazioni del soggetto. Il sintomo (una fobia, una somatizzazione) può essere la spia di un disagio meno evidente o persino nascosto, che può avere, ad esempio, il “vantaggio” di regolare, sia pure in modo disfunzionale, la relazione con le figure significative, l’esposizione alle difficoltà, ai pericoli e alle aspettative del mondo “esterno”. Esso non rappresenta quasi mai, quindi, l’elemento da sopprimere, ma la spia da cui partire per inquadrare le difficoltà di adattamento del soggetto, nel suo confronto con il mondo.

Il secondo punto cardinale consiste nel tenere presente che fare attenzione a come una persona vive il suo problema e se lo riferisce è la base per ogni atto medico, che richiede sia competenze tecnico-scientifiche sia umane, per inquadrare il processo clinico nella storia personale del soggetto. Il prendersi cura va oltre la formulazione diagnostica, perché accompagna e motiva il soggetto nella misura in cui si sente accolto e considerato per ciò che è.

Il terzo punto cardinale è che, nella valutazione di un disturbo mentale, va esplorato non solo quello che emerge verbalmente, come espressione delle funzioni cognitive dell’individuo, ma l’assetto emotivo. Infatti, il modo di spiegare e raccontare ciò che si prova è collegato ad un livello più profondo e meno consapevole che esprime come, sul piano senso-percettivo e su quello emozionale, viene vissuta l’esperienza in presa diretta. Ad esempio, il soggetto può essere consapevole di ciò che lo fa star male senza sapere che il suo disagio ha a che fare con i coloriti soggettivi emersi nella storia personale. In altre parole, un soggetto può “comprendere” a livello cognitivo solo ciò che è “compatibile” a livello inconscio con le sue emozioni critiche che ne hanno orientato il suo modo di sentire e vivere quanto gli accade.

Il quarto punto cardinale è che il soggetto non va “fotografato” ma “filmato”. La normalità e la patologia non sono condizioni statiche ma dinamiche, che possono evolvere sia verso un miglioramento che un peggioramento. Pertanto, un disagio preclinico sottovalutato può sfociare in un quadro clinico grave o conclamato; un disturbo d’ansia o dell’umore che esordisce nell’infanzia o nell’adolescenza può regredire, ma può anche mutare in sintomi più gravi e invalidanti. Come una persona vive il suo disagio ci dà quindi un segnale prognostico affidabile della sua “gravità”, molto più di un parametro “oggettivo”, ma riduttivo, ritenuto uno standard uguale per tutti.

Quindi, un disturbo mentale, nel suo potenziale evolutivo che può compromettere il funzionamento personale, occupazionale e relazionale, va anzitutto diagnosticato in base ai criteri di classificazione in uso (a partire dal DSM-V); ma poi va arricchito e integrato cogliendo quegli aspetti soggettivi che consentono al medico di comprendere che effetto fa a quella persona avere quel tipo di disturbo; come lo colloca all’interno della sua storia personale; quali sono le sue aspettative nei confronti del medico stesso e delle cure che propone.

Un medico che è attento all’unicità della persona che cura – come sapevano fare i “dottori di famiglia” di un tempo – migliora la relazione col suo assistito, appare più “autorevole” nelle indicazioni che dà, è capace di gestire le dinamiche relazionali connesse con la patologia senza apparire né uno che giudica dall’alto, né uno di parte e, quindi, parziale.

CONCLUSIONE
Tenendo conto dei “punti cardinali” sopra ricordati, si può considerare correttamente se e quando è il caso di prendere in considerazione gli strumenti diagnostici che possono integrare e arricchire la diagnosi e intraprendere il trattamento di un disturbo mentale.
Ovviamente, un medico di base non deve “fare lo psichiatra”, così non deve pensare di fare lo “psicologo” che prescrive, legge e interpreta un test psicodiagnostico, né il neuroradiologo che sceglie una metodica di neuroimaging per esplorare come funzionano determinate strutture neuronali. In ogni caso, invece, il medico deve tenere presente il senso profondo della sua professione, che consente l’incontro non solo con una patologia, ma con una persona sofferente che può comunque “curare” (nel senso letterale di prendersi cura) e accompagnare nel difficile e a volte accidentato percorso della vita.

Per approfondire

1) American Psychiatric Association: Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali, V Edizione (DSM-V).  Raffaello Cortina, Milano, 2013.
2) Bellantuono C., Nardi B., Mircoli G., Santone G.: Manuale Essenziale di Psichiatria. Il pensiero Scientifico, Roma, 2009.
3) Nardi B.: Organizzazioni di Personalità: Normalità e Patologia Psichica. Accademia dei Cognitivi della Marca, Ancona, 2017.

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