La persona al centro della cura


 Massimiliano Marinelli

I mutamenti in atto nella nostra società impongono una rivisitazione del rapporto tra il cittadino e il professionista della salute al quale egli si è rivolto.
Il passaggio di un atteggiamento paternalistico verso un rapporto biomedico più tecnico orientato al trattamento della malattia si è rilevato insufficiente e ci si è rivolti recentemente verso un rapporto centrato sul paziente.
Oggi si tende ad utilizzare meno il termine paziente e sostituirlo con persona, poiché essere paziente non esaurisce i significati antropologici di persona ed è forte la consapevolezza che i diritti della salute e i valori che sono in gioco in un atto medico possano realizzarsi solo se si orienti la cura verso la persona.
Tuttavia, mettere realmente la persona al centro della cura ed uscire dal territorio dello slogan, per entrare nella pratica medica non è cosa facile, in quanto significa dismettere gli abituali strumenti tecnici e biomedici con i quali il medico è stato formato e allenato, per utilizzare quelli etici e narrativi, in modo da accedere alla prospettiva del paziente e concordare un piano di cura condiviso.
L’articolo intende illustrare le ragioni di tale cambiamento, prendere sul serio l’impegno di centrare la cura verso la persona e mostrare come un approccio narrativo possa essere opportuno nel tempo di cura della comunicazione.
Inoltre si presentano le affinità formative tra il Centro svedese di Cura orientata alla persona che per primo ha proposto tale approccio sistematico nella pratica clinica e il Master in Medicina Narrativa, Comunicazione ed Etica della Cura, attivato recentemente nella Facoltà di Medicina e Chirurgia.

Premessa

Il rapporto tra medico e paziente, o, meglio ancora, la relazione che si istaura tra il cittadino e il professionista della salute al quale si è rivolto da molto tempo ha abbandonato, sia il tono paternalistico che lo connotava, sia, seppure più recentemente, l’orientamento biomedico per indirizzarsi sul paziente.

Le ragioni per l’abbandono di un rapporto paternalistico sono note e fanno riferimento essenzialmente alla progressiva emancipazione del paziente e alla presenza nella società di un pluralismo culturale ed etico.

Il medico “paternalista” giustificava la sua azione, in scienza e coscienza, in base alla conoscenza scientifica che gli permetteva di sapere quale fosse la scelta migliore per il paziente e, indicando, in modo disinteressato, il bene per lui, si aspettava che il malato semplicemente lo accogliesse.

Dal momento in cui Kant alla domanda cos’è l’illuminismo risponde: “l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità[1]”, incoraggia ogni uomo a non farsi trattare come un minore, in quanto, attraverso l’uso della propria ragione, egli può assumere autonomamente le decisioni che lo riguardano.

Il riconoscimento di tale autonomia decisionale, seppure a stento e molto lentamente, è penetrata nel territorio della Medicina, divenuta anch’essa una terra rischiarata, ed ha assunto le vesti del principio di bioetica clinica di rispetto per l’autonomia del paziente[2] che obbliga il professionista della salute a richiedere il consenso informato prima di ogni atto medico.

La presenza nella società di un pluralismo culturale ed etico, inoltre, rende difficile per il medico sostenere di conoscere in una determinata situazione quale sia il bene del paziente, in quanto non può essere certo che la persona che gli sta di fronte possegga la medesima carta dei valori del medico stesso.

Soprattutto quando sono in gioco temi eticamente sensibili, come nel caso, ad esempio, delle direttive anticipate di trattamento, la soluzione migliore prospettata dal medico, potrebbe rappresentare solo ciò che lui, con le proprie credenze morali e religiose, avrebbe deciso nella medesima situazione, ma non realizzare la scelta più adatta al contesto etico del soggetto.

La complessità e il progresso delle scienze mediche che hanno concentrato l’attenzione sul trattamento delle malattie e su una organizzazione sanitaria sempre più complessa hanno, di fatto, costruito una modalità di relazione dove l’aspetto diagnostico terapeutico e procedurale è governato dai professionisti della salute, istaurano un rapporto tecnico, orientato alle possibilità terapeutiche e agli aspetti procedurali.

Tuttavia anche un rapporto sbilanciato dalla parte del medico e orientato esclusivamente al trattamento della malattia (disease) non appare più proponibile, in quanto il semplice trattamento della patologia che ha colpito il paziente non rende conto della ricchezza antropologica di una relazione di cura tra esseri umani.

Mettere l’accento sulla relazione di cura significa, infatti, ritenere che il fine ultimo della Medicina sia curare le persone e non solo trattare le malattie delle quali sono affette[3].

Per tali ragioni, quindi, la Medicina, consapevole di dover abbandonare il tono paternalistico e dei rischi nel mantenere un atteggiamento tecnicistico autoreferenziale, ha rindirizzato il rapporto centrandolo sul paziente, tuttavia, a fronte della quasi universale condivisione di tale orientamento, spesso non si è tenuto in considerazione il significato di tale cambiamento di rotta, continuando la normale prassi medica, dando al paziente esclusivamente un maggior ruolo decisionale, attraverso una informazione tecnicamente esatta.

In questo senso non si abbandona il territorio tecnico biomedico della preminenza delle ragioni del professionista della salute, ma ci si preoccupa di elencare tali ragioni al paziente, ritenendo che con la sua decisione libera ed informata si fosse compiuta quell’inversione di rotta che metteva il paziente al centro della relazione.

In questo travisamento del rapporto medico e paziente dove tutto procede attraverso i sentieri scientifici della spiegazione diagnostica dell’ente malattia individuato e dell’informazione tecnica del ventaglio di opzioni terapeutiche ed assistenziali, è forte il rischio di andare verso una deriva contrattuale dove la prestazione offerta è il surrogato della cura e dove il consenso informato scritto rappresenta il sugello di tale prestazione.

Il nuovo orientarsi verso il paziente, quindi, rimane compreso nel territorio scientifico del rapporto posizionato verso il medico e il trattamento della malattia, nel quale la relazione assume un ruolo contrattualistico

Orientarsi verso il paziente, invece, significa operare una vera rivoluzione nella quale l’attenzione non si rivolge solamente all’ente malattia che lo ha colpito, ma al paziente come persona, che intende far valere e far ascoltare la sua voce[4].

Anche per questi motivi, negli ultimi anni il rapporto tra curatore e paziente è stato reinterpretato verso la persona, con una fiorente bibliografia tra i due orientamenti[5], ritenendo che questo termine possa essere il più adeguato a connotare la relazione di cura e le nuove esigenze che tale approccio comporta.

I pazienti, infatti, sono persone e non dovrebbero essere ridotti solo alla loro malattia, ma piuttosto dovrebbero essere prese in considerazione la loro soggettività e integrazione in un dato ambiente, i loro punti di forza, la fragilità e vulnerabilità e i piani futuri personali[6].

La cura centrata sulla persona sottolinea, quindi, l’importanza di conoscere la persona dietro il paziente come un essere umano con ragione, volontà, sentimenti e bisogni, per coinvolgerlo come partner attivo nella sua cura e il trattamento.

L’articolo intende, quindi, in primo luogo riflettere sui rischi di una visione riduzionistica della medicina che non comprende la ricchezza del significato della persona, mostrare la necessità di un approccio narrativo capace di comprendere la prospettiva del paziente e confrontare un modello formativo istituito nella Facoltà di Medicina e Chirurgica dell’Università Politecnica delle Marche con le proposte operative di coloro che per primi, in Svezia, hanno proposto un orientamento sistematico della cura verso la persona.

Può essere utile, quindi, presentare brevemente l’esperienza svedese e successivamente avviare la riflessione.

Orientarsi verso la persona

L’approccio centrato verso la cura della persona è stato proposto in modo sistematico in Svezia e si è concretizzato in un’unità dedicata nel 2010 presso la Facoltà di Gothenburgh, focalizzando l’attenzione, in primo luogo, verso coloro che vivono con patologie croniche.

Attraverso sovvenzioni da parte del Governo svedese, il Personal centered Care Center, un nucleo di ricerca interdisciplinare, si è posto l’obiettivo generale di ricercare sistematicamente e in modo completo le prospettive e le modalità pratiche della persona con una malattia a lungo termine.

L’attenzione del Centro si è concentrata sulle patologie croniche e soprattutto sull’età anziana, in considerazione al notevole aumento di tale popolazione nel mondo occidentale con una conseguente maggiore domanda di risorse sanitarie[7].

In tale setting così eterogeneo in quanto situazioni, desideri e resilienze, il concetto dell’ “assistenza centrata sulla persona” è apparsa la più appropriata in quanto la parola paziente tendeva a oggettivare e ridurre la persona a un semplice destinatario di servizi medici[8]

Il Centro è partito dall’assunto che l’approccio orientato alla malattia come entità (disease-oriented) rappresenta, oggi, la modalità prevalente di gestione della medicina moderna.

A questo approccio il Centro contrappone il comportamento e l’attitudine del professionista della salute quando un paziente è considerato come una persona che è consapevole e ha dei sentimenti. La persona ha altre caratteristiche come un senso di autostima, dignità, individualità, autocoscienza e auto-direzione[9] e ha il diritto di essere trattato in accordo con tali peculiarità[10].

L’approccio orientato verso la malattia, tuttavia, dedica poco posto alla dimensione sociale ed esistenziale ai pensieri e alle idee sul loro vissuto di malattia (illness).

Mentre il professionista della salute che orienta la cura verso la persona prende inizio dal paziente, legittimandone l’esperienza di malattia, apprende dal paziente e offre delle speranze realistiche[11].

Orientare la cura verso la persona, quindi, rappresenta l’antitesi della biomedicina riduzionistica e ribadisce che il paziente non può essere ridotto alla sola malattia.

Le affermazioni del gruppo svedese che ha orientato la cura verso la persona sono preziose perché introducono, sia la tendenza tipica della Medicina attuale di non occuparsi della dimensione esistenziale del malato, sia i rischi derivanti dall’atteggiamento riduzionistico qualora si pensi che sia sufficiente trattare le malattie per curare le persone.

La deriva riduzionistica della Medicina

Tra i molteplici rischi del riduzionismo medico, si segnala, sin da ora, quello di perdere il senso della grandezza della professione medica che, lasciata alla prese con i dati derivati da esami, immagini, test e i numeri necessari per determinare il peso di una singola malattia all’interno di un ospedale, diviene solo cosa per contabili.

Si ritiene che sia urgente recuperare tale senso della grandezza di una professione, che ha il privilegio di aver cura di persone che si trovano nelle strette della sofferenza e nelle situazioni più critiche alle quali un essere umano può giungere.

D’altra parte, è facile comprendere come la tentazione riduzionistica sia molto seduttiva, in quanto è stato proprio un pensiero oggettivante riduzionistico a rendere possibile il progresso scientifico e la nascita della Medicina tecnologica che noi tutti conosciamo.

Essa, infatti, è potuta entrare di diritto nel novero delle Scienze, attraverso essenzialmente l’oggettivazione del corpo umano e la costituzione della malattia come ente.

Con oggettivazione del corpo si intende che la Medicina introduce nel corpo umano quello stesso sguardo proprio delle scienze naturali dove il corpo non è altro che uno degli altri oggetti che si trovano nel campo della visione scientifica della Medicina stessa.

Si tratta quindi di uno sguardo oggettivo sul corpo fisico: korper, come lo ha denominato Husserl quando afferma la distinzione tra il corpo oggettivato dalla scienza che si offre all’indagine medica e Leib: il corpo organico come è vissuto nella concretezza dell’esistenza :

Tra i corpi di questa natura colti in modo appartentivo io trovo poi il mio corpo nella sua particolarità unica, cioè come l’unico a non essere mero corpo fisico (Korper) ma proprio corpo organico (Leib), oggetto unico entro il mio strato astrattivo del mondo; al mio corpo ascrivo il campo dell’esperienza sensibile[12].

Il corpo fisico è dunque una cosa, un oggetto da scomporre, ricomporre, del quale spiegare gli eventi patogenetici e di cui monitorare i parametri.

Merlau Ponty, attraverso una profonda riflessione fenomenologica della percezione, ci ha mostrato come il corpo in prima persona al singolare: il corpo che io sono, non possa essere completamente spiegato sotto il mio sguardo, ma rimanga al margine di tutte le mie percezioni e, in quanto veicolo dell’essere al mondo, significhi unirsi ad un ambiente definito[13].

Esso è il mezzo per comunicare con il mondo e non è mai un oggetto, non è mai completamente costituito, proprio perché è ciò grazie a cui vi sono degli oggetti.[14]

Lo statuto del corpo proprio, inoltre, dipende da una problematica più vasta che ha, come posta in gioco, lo statuto ontologico di questo essere che noi siamo e che viene al mondo nel modo della corporeità[15] e che, quindi, a tale livello deve essere inserito e compreso.

Dimostrare interesse solo alla dimensione del corpo oggetto, dal quale estrarre elementi diagnostici e verificare i risultati terapeutici, invalida tale statuto e annulla ogni legame ontologico tra corporeità e mondo.

Il rischio dell’atteggiamento riduzionistico si compie quando lo sguardo medico si trattiene sul Korper, senza allargarsi sul leib: sul corpo-che-io-sono, alle prese con la quotidianità della malattia, con i suoi limiti e con i continui compromessi che deve intrattenere con un mondo divenuto rapidamente ostile.

L’altro concetto che ha condotto la Medicina a progressi senza precedenti e che, proprio per questo soggiace alla seduzione riduzionistica è la concezione della malattia come entità.

la concezione della malattia come un ente che invade ed è localizzata in varie parti del corpo[16] porta con sé l’idea che quando una persona è ammalata esista una malattia che deve essere scoperta[17], essendo l’identificazione di quell’ente il primo e fondamentale passo per poterlo sconfiggere.

La diagnosi diviene, innanzitutto, un esercizio intellettuale che tende a ricercare, identificare ed estrarre dalla persona quegli elementi che, collegati assieme, completano il puzzle, disegnando, infine, la forma inequivocabile di un ente del quale la comunità scientifica fornisce un nome, che il medico pronuncia quando emette la diagnosi.

Si tratta, quindi, di separare la malattia dal malato che la contiene, il quale come individuo oppone la sua particolarità alla invarianza della patologia. Il malato diviene il contenitore della patologia che può manifestarsi, più o meno compiutamente, a seconda delle particolari caratteristiche del paziente. Esiste una separazione concettuale tra malato e malattia: la malattia in quanto entità è altro dal malato e, talvolta, è proprio il paziente, con la sua soggettività, a renderne difficoltosa la individuazione. La soggettività del malato, in qualche modo, deve essere rimossa[18].

Kleinman, nel suo lavoro, che può essere considerato un vero e proprio elemento narrativo in itinere che approderà in una medicina basata sulla narrazione[19], contrappone alla parola disease, intesa come costruzione biomedica della malattia e come il problema principale del medico riconfigurato nelle categorie biologiche,[20] il termine illness che rappresenta l’esperienza della malattia come è vissuta dal malato.

Illness rappresenta, quindi, la dimensione qualitativa come è esperita e come è resa significativa dalla persona malata. Ciò include l’esperienza dei propri sintomi e dei cambiamenti corporei, ma anche l’esperienza di ricevere trattamenti e cure e delle attitudini sociali attraverso cui si dipana la storia di una malattia.

Illness ha a che fare con la disabilità, il dolore e l’essere alle prese con la propria mortalità

L’oggettivazione del corpo umano e la costruzione biomedica di una malattia come entità, quindi, rappresentano momenti concettuali fondamentali che hanno permesso alla Scienza di colonizzare i territori della Medicina e hanno condotto ad un progresso senza precedenti, in termini di conoscenza e di trattamento delle malattie umane.

Essi introducono il rischio riduzionistico, qualora si pensi che il medico possa operare esclusivamente nei territori del Korper e del disease, senza avventurarsi e mettersi in relazione con il corpo vissuto e l’illness.

Orientare la cura verso la persona che è il corpo che vive (leib) e che esperisce nella propria vita corporea la malattia (illness) rappresenta, quindi, il principale rimedio contro la tentazione riduzionistica e contro la perdita del senso della grandezza della professione medica, perché ci riporta alla radice del fine della nostra professione e alla motivazione originaria che ci ha condotto ad intraprendere una tale vita professionale.

Tuttavia, seppure ci siano ottime ragioni per orientarci verso la persona, non è chiaro quali siano gli strumenti operativi per realizzare tale approccio.

L’apparato medico occupato a decifrare il corpo umano, a diagnosticare l’ente malattia e a disporre, attraverso l’onere della prova scientifica (evidence base medicine), dell’armamentario necessario per sconfiggerla non ha in se stesso gli strumenti necessari per occuparsi degli elementi soggettivi, sociali esistenziali del malato.

Come poter ascoltare la sua reale voce e non recepire solo il linguaggio scientifico che la sua malattia esprime?

Come comunicare con lui in modo da legittimare le sue idee e le interpretazioni di ciò che gli sta accadendo?

Come percepire il peso del vissuto della malattia per farlo entrare nell’agenda comune della cura?

Come concordare un piano di cura nel quale ci sia una reciprocità tra le agende del medico e quella del paziente, in modo che possa sentirsi veramente partecipe?

Queste domande da una parte conducono l’orientamento della cura alla persona nel territorio della comunicazione e della relazione di cura e dall’altra introducono il difficile tema di trovare strumenti comunicativi capaci di promuovere tale relazione.

La Medicina Narrativa

Negli ultimi anni è nato e si è sviluppato un nuovo approccio alla Medicina che, pur integrandosi con la visione scientifica oggettivante, promette di poter rispondere adeguatamente alle domande sollevate precedentemente.

Si tratta della Medicina Narrativa che è stata definita dalla Consensus Conference italiana del 2015 un “metodologia d’intervento clinico assistenziale che considera la narrazione come un strumento fondamentale di acquisizione e comprensione della pluralità di prospettive che intervengono nell’evento malattia, finalizzata ad un’adeguata rilevazione della storia della malattia che, mediante la co-costruzione di una possibile trama alternativa, consenta la definizione e la realizzazione di un percorso di cura efficace, appropriato e condiviso (storia di cura)[21]”.

Al di là della definizione, della quale si accoglie volentieri la valenza metodologica e strumentale, la Medicina Narrativa, in primo luogo, intende riscoprire Il senso narrativo della Medicina stessa.

Mettere al centro della riflessione il senso narrativo della Medicina vuol dire, quindi, investigare, in primo luogo se la Medicina possegga una certa narratività e, successivamente, come possa o intenda percepirla, soppesandone il significato e ricercando infine i luoghi e i modi dell’esercizio narrativo.

E’ dalla comprensione della sua dimensione narrativa che potranno scaturire le forme e lo modalità di comunicazione con il paziente.

E’ dallo sviluppo del suo senso narrativo, per troppo tempo atrofizzato da disuso, in considerazione della soverchiante preponderanza di dati, di tassi, di percentuali, di bilanci, che sarà possibile nella pratica clinica orientare una relazione di cura verso la persona.

Il Master di Medicina Narrativa, Comunicazione ed etica della cura e il centro svedese per la cura orientata alla persona.

L’approccio narrativo, quindi, sembra il più appropriato per riuscire ad orientare la cura verso la persona disponendo degli strumenti narrativi necessari per parlare con il paziente e recepirne il vissuto della malattia .

Può essere utile allora presentare brevemente l’approccio che è proposto nel Master di Medicina Narrativa. Comunicazione ed Etica della Cura e le modalità pratiche di riferimento del Centro svedese.

Il Master, attivato dalla Facoltà di Medicina e Chirurgia della Politecnica delle Marche è alla sua seconda edizione e si avvale, da quest’anno accademico, della presenza istituzionale dell’Università degli Studi di Macerata.

Il punto di partenza dal quale deriva il processo formativo è la necessità di costruire e sviluppare una relazione di cura autentica con la persona che si rivolge al professionista della salute.

L’orientamento della cura verso la persona avviene attraverso una formazione specifica in comunicazione in sanità nella quale gioca un ruolo preminente la determinazione dell’agenda del paziente e la messa in dialettica di tale agenda con quella del professionista della salute, al fine di raggiungere la concordanza sul piano di cura.

Con il termine “agenda del paziente” si intende che il paziente non si presenta alla visita come un corpo in terza persona, offerto passivamente alla decifrazione diagnostica dell’ente malattia, ma è in prima persona del singolare: un io che vive nel mondo, in un contesto particolare che lo indirizza verso idee ed interpretazioni su ciò che sta accadendogli, con aspettative, desideri ed emozioni.

La storia del paziente e il vissuto della malattia lo portano, quindi, dinnanzi al medico con delle motivazioni particolari, con delle incertezze e dei dubbi ai quali vorrebbe risposta, con un carico di sentimenti di cui chiederebbe un’umana comprensione, con delle aspettative da non disattendere, con dei desideri segreti da intercettare.

È a tutto ciò, che porta con sé all’attenzione del medico e che vorrebbe fosse prestato ascolto, che fa riferimento il termine agenda del paziente.

Il percorso formativo inserisce l’approccio narrativo necessario per entrare in sintonia con l’agenda del paziente in una struttura comunicativa rigorosa e ben rodata: la Calgary Cambridge[22] che divide una visita ideale in differenti sessioni da condurre, ognuna delle quali prevede obiettivi da raggiungere. La struttura Calgary Cambridge prevede l’insegnamento di circa 70 skills, tutti basati su evidenze scientifiche, per riuscire a comunicare in maniera efficace ed efficiente con il paziente.

Attraverso tale piattaforma il discente può comprendere facilmente a che sessione si trova nella visita, quali sono gli obiettivi da perseguire in tale punto e quali abilità utilizzare per raggiungerli.

L’approccio narrativo inserito in una struttura che ne facilita la sequenzialità, indicando gli obiettivi da raggiugere e associato all’insegnamento di particolari abilità tecniche, tuttavia, non appare sufficiente a mantenere la promessa di orientare la cura verso la persona.

È necessario ritornare al primato dell’etica in modo che, partendo da quell’ethos umanitario[23] che connota tanto la motivazione quanto la natura di ogni professionista della salute, innesti ogni atto medico in una atmosfera etica, in quanto è proprio della cura agire eticamente.

Si ritiene che la tecnica comunicativa e la buona intenzione di approcciarsi al paziente narrativamente non possano mantenersi nel tempo, senza una formazione nell’etica della cura che appare la più appropriata in una relazione orientata alla persona.

Con etica della cura si intende una prospettiva etica e una pratica di cura[24] che promuove la mutua interdipendenza che connota il genere umano, non espropria l’emotività dall’atto medico e pone un giudizio di valore fondamentale alla relazione e alla situazione, ritenendo il non abbandonare mai un principio di riferimento.

Di fronte all’apparente contrasto tra l’etica della cura e i principi e le obbligazioni derivanti dalla bioetica clinica e dall’etica della giustizia, si propone la stessa integrazione che avviene tra la medicina che si fonda sulle prove scientifiche e quella che si fonda sulla narrazione.

L’atto medico, infatti, dovrebbe essere guidato da principi scientifici e da obbligazioni, ma, nella sua applicazione nella situazione e nella relazione di cura, non è sempre governato e diretto da tali principi e obbligazioni[25].

Non è necessario quindi rigettare i principi della bioetica o quanto emerge dalle norme deontologiche o giuridiche, ma bilanciarle nella relazione di cura[26] in modo da prendere la decisione più saggia nella situazione[27].

Se il Master tenta centrare la cura verso la persona in un percorso formativo che utilizzi la comunicazione come luogo per l’approccio narrativo, nell’alveo dell’etica della cura, il Centro svedese prevede un approccio sistematico nella pratica clinica.

Applicazione pratica dell’orientamento della cura verso la persona

A Gothenburg la PCC è scandita attraverso tre pratiche: la raccolta narrativa di una dettagliata descrizione del paziente, una partnership stipulata tra il curatore e il paziente e la documentazione della partnership nella cartella del paziente[28].

Può essere utile riassumere la proposta svedese, per confrontarla con il percorso formativo del Master e verificarne la fattibilità nella pratica clinica.

Step 1: avvio della partnership: la narrazione del paziente

Un approccio alla cura centrato sulla persona inserisce le opinioni della persona sulla sua situazione e sulla propria condizione di vita sempre al centro delle cure.

La narrativa del paziente rappresenta il resoconto personale della sua malattia, dei sintomi e il loro impatto sulla sua vita.

Attraverso l’ascolto della narrativa, si intende cogliere la sofferenza della persona in un contesto quotidiano, in contrasto con le cartelle cliniche mediche che riflettono il processo di diagnosi e del trattamento della malattia.

Nell’esperienza svedese, la narrativa del paziente costituisce il punto di inizio per centrare la cura verso la persona e pone le basi per la partnership.

Il semplice invito a mettere sul piatto della relazione il racconto, invia un messaggio al paziente che le sue esperienze, i sentimenti, le credenze e le preferenze sono considerazioni importanti. È a questo punto che l’attenzione si sposta dalla malattia alla persona con la malattia (valutandone i bisogni e le risorse).

In tutta la pratica sanitaria la narrazione della storia del paziente è un atto terapeuticamente centrale, perché, in tal modo, egli trova le parole per descrivere il disordine e le sue preoccupazioni, dà forma e tenta un controllo sul caos scaturito dalla malattia[29].

I dati biologici o le immagini radiologiche elementi importanti, ma come base per un piano di cura e per il trattamento sono complementari alle esperienze narrate del paziente della sua condizione.

Il gruppo svedese ha notato come, a fronte dello sviluppo delle tecniche diagnostiche e terapeutiche, ci sia poca considerazione per i sentimenti, per le credenze dei pazienti e per le loro preferenze, per valutare e utilizzare le risorse dei pazienti per l’autogestione della malattia con tutti i rischi che ne derivano[30], mentre i pazienti avrebbero tutto il diritto di vivere secondo le loro preferenze, piuttosto che adattarsi ai punti di vista sanitari e commerciali[31]

Step 2: operare in partnership: la costruzione di una decisione condivisa

La comunicazione narrativa implica la condivisione di esperienze, imparando gli uni dagli altri.

Dire e ascoltare è un modo di costruire una comprensione comune dell’esperienza della malattia, che, unitamente ai segni e ai sintomi, fornisce una solida base per discutere e pianificare le cure e i trattamenti con il paziente[32]

La costruzione della partnership si attua attraverso la condivisione di informazioni, la presenza di deliberazioni e di un processo decisionale condiviso.

E’ un dato di fatto che, nonostante la disponibilità di trattamenti efficaci e sicuri in patologie croniche, molti pazienti non raggiungano le dosi raccomandate o non abbiano cure ottimali.

Per tali ragioni e ,in considerazione della natura progressiva di questo tipo di malattia, è importante che i professionisti e i pazienti (spesso compresi i parenti) sviluppino un’alleanza, per raggiungere gli obiettivi concordati.

Alla diagnosi, il team, incluso il paziente, dovrebbe valutare tutti gli aspetti della gestione, tenendo conto delle opzioni di trattamento che sono adatte allo stile di vita, alle preferenze, alle credenze ed ai valori che il paziente riconosce come propri.

Step 3: salvaguardia della partnership: documentare la narrativa

Documentare le preferenze, le credenze e i valori dei pazienti, così come il coinvolgimento nel processo decisionale di cura e del trattamento nella cartella, dona legittimità alle prospettive dei pazienti, alle l’interazione tra paziente e curatore, rende trasparente e facilita il processo di cura.

Il centro svedese che orienta la cura verso la persona, per le importanti ragioni esposte, ritiene che la registrazione di tali informazioni dovrebbe essere considerata obbligatoria, alla stessa stregua dei risultati clinici e di laboratorio.

Conclusioni

Ci sembra che siano del tutto evidenti le assonanze tra il percorso formativo del Master e la figura del professionista della salute svedese che è chiamato a stipulare un’alleanza terapeutica con il paziente attraverso l’accesso alla sua narrativa, costruendo un processo decisionale condiviso e documentando quanto è avvenuto nella relazione di cura.

In entrambi gli approcci troviamo almeno la comunanza dei seguenti punti:

a si prende sul serio l’alleanza terapeutica con la persona;[33]

b il processo di cura rappresenta il bene comune che gli alleati sono chiamati a ricercare e che permette, quindi, una reciprocità, seppure nelle asimmetrie costitutive dei rapporti;

c la narrazione è lo strumento, antiriduzionistico, per accedere all’agenda del paziente e poter stabilire una partnership, aperta alle prospettive di entrambi;.

d la comunicazione diviene il luogo e lo spazio per ricercare la concordanza sul piano terapeutico e assistenziale.

Si potrebbe dire che il Master forma appunto una figura eticamente motivata, capace di un approccio narrativo, abile nella comunicazione, disposta a ricercare una concordanza, pronta ad orientare nella pratica clinica la cura verso la persona.

Quanto alla fattibilità italiana dell’esperienza svedese che è sostenuta con fondi governativi, si ritiene che sia una sfida da accogliere e che sia possibile portarla a termine con successo.

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