La peste e le trasformazioni dell’assistenza tra XIV e XVII secolo

Giordano Cotichelli
Corso di Laurea in Infermieristica
Facoltà di Medicina e Chirurgia, Università Politecnica delle Marche

La città di Astrakan ai più ricorda il nome dell’omonima regione posta sulle rive del Mar Caspio, da cui provengono rinomate pellicce. Pochi sanno che, attorno al 1727, la popolazione del luogo fu protagonista atterrita di un evento epocale. Gli abitanti della città russa furono i testimoni dell’imponente migrazione del ratto grigio (rattus norvegicus) proveniente dall’Asia, che si presentò ai loro occhi come un immenso tappetto di pelliccia che fluttuava sulla superficie del fiume Volga, guadato da milioni di roditori. Un’invasione che, diversi autori [1] [2], hanno sottolineato come utile a porre una cesura nella storia delle epidemie dell’umanità, dato che il ratto in questione entrava in concorrenza vitale con quello nero (rattus rattus) presente da secoli in Europa e ospite della pulce (xenopsylla cheopis) vettore della Yersina pestis, l’agente eziologico della peste. In realtà la scomparsa delle epidemie di peste in Europa fu causata da più fattori sommati fra loro, quelli che fanno riferimento al concetto generale dei determinanti della salute e della malattia, e che hanno caratterizzato i cicli epidemici (variabili da due a venti anni) nei quattro secoli circa in cui la morte nera ha imperversato nel vecchio continente a partire dal 1347 fino all’epidemia di Marsiglia del 1720, ed oltre. Già nell’epoca classica si hanno testimonianze con la peste di Atene (430 a.C.), quella Antonina (166 d.C, più probabilmente riferita a vaiolo o morbillo), di Treboniano Gallo (252 d.C.) di Giustiniano (543 d.C.). La pandemia però che sconvolge il vecchio continente nel XIV secolo provocherà la morte di un terzo della popolazione del tempo (23.840.000) [1], con punte del 90% in alcuni aree. L’Italia risulta essere stata fra i paesi più colpiti con una media di mortalità del 50%, e con valori massimi del 60% e 70% a Firenze e Venezia [3] [4].

La popolazione europea già sconvolta dalla prima fase della guerra dei cento anni, e soprattutto da ondate importanti di carestie, vive uno dei suo momenti più tragici. Non viene risparmiato nessuno: servi e feudatari, clerici, magistrati, letterati e gli stessi medici. Quadri simili si ripeteranno, in parte, nelle epidemie del XVII secolo: Milano nel 1630, Napoli 1656, Londra 1665. Viene segnato l’inizio della fine del feudalesimo, del predominio letterario del latino, della stessa organizzazione urbana, così come si era sviluppata sino ad allora. La città dell’Alto Medioevo in cui trovavano una vita migliore i servi della gleba – die stadluft macht frei [5] – è diventata un dedalo di vie, stamberghe di legno e terra battuta, stanze scarsamente illuminate, umide, immerse in una sporcizia insanabile. Un ambiente adatto alla proliferazione dei pericolosi roditori neri. Il riverbero lessicale del tempo trova nel sostantivo topaia la sua giusta rappresentazione. La segregazione, l’isolamento tout court degli ammalati non è facile da attuare e l’insorgenza della malattia, alle volte, ha tempi fra le 24 e le 48 ore. Nasce la pratica della quarantena, per le navi che si presentano in rada, per i carri che si presentano presso le gabelle delle città; però non basta. Il morbo colpisce subitaneamente e quindi deve essere contenuto non solo all’esterno del perimetro urbano o nei lazzaretti, ma anche all’interno stesso delle diverse aree urbane, di palazzi, o di singoli appartamenti dove bisogna isolare malati, moribondi, sospetti di contagio e familiari. E’ quello che Michel Foucault [6] descrive con il termine di quadrillage nel suo studio effettuato sui regolamenti di alcune città appestate del XVII secolo; espressione di una riorganizzazione cittadina fortemente gerarchizzata, di un modello disciplinare che connoterà il passaggio, attraverso l’età moderna, verso quella contemporanea.

Fig. 1: Doktor Schnabel von Rom , (Il Dottore con il becco da Roma) in un disegno del 1656

La realtà dei fatti mostra come la peste abbia la capacità di porre in rilievo non solo le deficienze organizzative delle città, ma l’incapacità dell’uomo di riuscire a porre rimedi utili a contenere il diffondersi della malattia. Chiunque cercasse un’immagine rappresentativa della Medicina ai tempi della peste, troverebbe quella abbastanza conosciuta che rappresenta il vestiario tipico dei medici del tempo (Fig. 1) coperti nella totalità del loro corpo da un lungo mantello, portatori di guanti, cappello a larghe falde e occhiali protettivi posti su una maschera di cuoio (o cartapesta) caratterizzata da un lungo becco prominente. Le rappresentazioni dei carnevali odierni la riportano spesso in auge. Quasi l’immagine, non a torto, di un moderno DPI per prevenire il contagio, dove la barriera frapposta dall’abbigliamento diventava lo strumento atto ad evitare il contatto con qualsiasi cosa fosse all’esterno di sé stessi, in maniera indiscriminata, e la maschera usata non aveva alcuna delle caratteristiche della più avanzata e moderna FFP3 attuale, con l’unico “filtro” possibile caratterizzato dal pomum ambrae: una palla di stoffa o di filaccia imbevuta di essenze e profumi di vario tipo ritenuti funzionali a tenere lontano i miasmi contagiosi della malattia come il vestiario teneva lontano i suoi umori.

Fig. 2: I quattro cavalieri dell’Apocalisse di Albrecht Dürer, copia presente presso la Staatliche Kunsthalle di Karlsruhe.

Prima ancora della medicina riusciranno i cambiamenti socio-economici a sconfiggere, o quanto meno a circoscrivere il morbo. Con l’inizio del secolo dei lumi ci saranno il miglioramento delle condizioni di vita, il passaggio ad ambienti più salubri e l’aumento delle case fatte in pietra, meno funzionali delle baracche di legno al proliferare dei topi. I gatti non verranno più considerati responsabili della divulgazione del morbo, e messi al rogo; e questo giocherà a sfavore dei roditori. Sul piano delle politiche sanitarie, si è detto, tende a prevalere un modello disciplinare che cerca di contenere la malattia più con l’uso della forza che non della diretta conoscenza. I poveri portati in auge dal cristianesimo dell’Alto Medio Evo, cominciano ad essere visti con sospetto. Specie in tempi di carestie, a fronte di movimenti migratori, che gettano il sospetto sui derelitti, di essere la fonte di diffusione del morbo. In parte è vero, ma in realtà sono uno degli ultimi tasselli alla base di quella che viene considerata la teoria degli horsemen effect [3], dei Cavalieri dell’apocalisse (Fig. 2), dove il quarto cavaliere (la peste) in questo caso cavalca a fianco della guerra, della urbanizzazione e del proliferare dei traffici commerciali. Il risultato è l’avvio della caccia al povero, allo straniero, al diverso; a qualsiasi soggetto possa apparire come colui che la memoria manzoniana puntualmente ha connotato come l’untore del male. Si avviano le espulsioni dalle città, la ghettizzazione per soggetti particolari, come gli ebrei, la caccia alle streghe. La conseguenza immediata è un indebolimento delle reti sociali. Donne e uomini che esercitavano sul territorio una certa pratica assistenziale e curativa, come le praticone o i medegùn, i beneandanti o le erbuarie, e altre ancora, scompaiono, colpite a loro volta dal morbo, o da un decreto di espulsione o dal fuoco purificatore dell’inquisizione. Uno dei tre ambiti propri dei sistemi di cura, così come li connota Kleinman [7], quello folk, viene meno, mentre quello popular, gestito all’interno delle mura domestiche, con il sapere tramandato da una discendenza all’altra, si rompe nel contagio che miete vittime anche nel familiare stesso che cerca di portare assistenza al proprio caro. Non c’è posto per i caregiver ai tempi della peste e quando si muore, parafrasando il poeta De André, si muore soli.

Fig. 3: Domenico Gargiulo, “Piazza Mercatello durante la peste” Napoli, Museo San Martino, particolare.

Resta la dimensione professional, quella medica e quella infermieristica, che vede ridursi in maniera drammatica il numero dei professionisti a causa del contagio. E’ un doppio trauma, sul piano umano e su quello scientifico che, rimette in discussione in maniera forte le conoscenze mediche e assistenziali del tempo che non riescono ad essere all’altezza delle sfide della malattia. La Medicina lentamente si riprenderà e subirà un’evoluzione tale, attraverso lo sviluppo del metodo scientifico che la porterà ai traguardi conosciuti del progresso umano. L’infermieristica, più arte che scienza vera e propria, continuerà ad essere un insieme di pratiche e saperi che lentamente cercheranno di ristrutturarsi, nella nascita di nuovi ordini assistenziali, nell’organizzazione del personale religioso degli ospedali, nella pubblicazione dei primi manuali. Per contro la rottura delle reti sociali, l’espulsione e in certi casi l’internamento in massa dei poveri, impongono l’assunzione di nuovi paradigmi assistenziali. Nei momenti più acuti degli eventi epidemici, quegli stessi poveri o gli stranieri, o in qualche caso i galeotti, vengono arruolati a forza come infermieri di fortuna per assistere ai doveri di ordine pubblico sotto la tutela dell’autorità municipale. Ancora il Manzoni giunge in soccorso ricordandoci il loro nome peculiare: monatti, figure tragiche destinate ai compiti più ingrati. Fra le tante rappresentazioni in merito, significativa è quella data da Domenico Gargiulo, artista partenopeo che li raffigura nel suo quadro “Piazza Mercatello durante la peste”, riferito all’epidemia del 1656 di Napoli. Qui i monatti sono rappresentati per lo più seminudi (Fig. 3), con appena una benda cenciosa che ricopre il naso al fine di creare una barriera “ai miasmi maleodoranti e pericolosi che possono appiccicare il morbo” [8]. Quella dei monatti è una figura significativa dato che mostra una dimensione dell’assistenza che, giocoforza, si abbassa di livello, assume un ruolo più infimo che umile, più rozzo che manuale. E’ verosimile affermare che in molti casi, passata l’ondata epidemica, molti dei diseredati arruolati a forza come infermieri-monatti, abbiano continuato il loro lavoro all’interno dei lazzaretti, forti sia dell’immunizzazione acquisita sia delle conoscenze pratiche e della tempra morale sviluppata. Nella sostanza si struttura la figura dell’infermiere guardiano che arriverà fino alle soglie del XX secolo e che rappresenterà la risposta più immediata ad un’istituzionalizzazione della malattia più disciplinare, come si è detto, che non scientifica.

Superato il trauma medioevale, a cavallo fra XVI e XVII secolo, importanti figure assistenziali si fanno avanti: da San Filippo Neri a San Vincenzo de Paoli, da San Giovanni di Dio a San Camillo del Lellis. Espressioni diverse di un sapere che si riorganizza e risponde a bisogni ed ambiti differenti: dall’assistenza ai bambini abbandonati, ai poveri, agli infermi in generale, all’organizzazione vera e propria di professionisti infermieri che apporteranno il loro contributo nell’assistenza interna dei grandi nosocomi. Nella peste di Milano si ricorda [9] il contributo di 40 Camilliani di cui ben 17 moriranno durante il servizio. A tutto ciò si aggiunge l’inizio di una manualistica di settore che offre elementi teorici e pratici dell’assistenza. Proprio in uno dei primi testi editi a cura di Fra Francesco dal Bosco [10], c’è una parte in cui si parla dei vari tipi di petecchie: “le quali come che sempre indicano la malaqualità della febre […]. E se si presenteranno come negre, picciolissime, e numerosissime costituiscono il terzo grado, e tal febre sarà quasi irremediabile, e tali si vedono in tempo di peste”.

Con l’arrivo del secolo dei lumi la peste inizierà ad essere sempre più un evento di portata ridotta – in Europa – e i saperi scientifici e culturali che dal suo trauma medioevale avevano preso il via (basti pensare al Rinascimento stesso) contribuiranno a costruire nuovi modelli e strumenti sociali e sanitari utili al benessere della collettività. Qualche focolaio, in Europa, continuerà a manifestarsi. Un esempio su tutti quello del 1815, che registra un’epidemia di peste a Noja (oggi Noicattaro, in provincia di Bari) [11] dove, nel resoconto del tempo, oltre un’interessante descrizione di tutte le misure sanitarie prese per contenere il male – non molto diverse da quelle dei secoli passati – si registra l’infausto destino di un infermiere – Giuseppe Pietrasanta – che, contratto il morbo, volle curarsi maldestramente auto-praticandosi un salasso che però, gli si rivelò fatale [11]. Fra il XIX e il XX secolo la peste tornerà a manifestarsi violentemente in Asia, in particolare in Cina e India. In questi contesti i lavori – separati – di due medici, Alexandre Yersin e Shibasaburo Kitasato, porteranno all’identificazione del microrganismo responsabile. Uno degli ultimi focolai importanti in Europa fu registrato infine nel 1920 a Parigi fra i cenciaioli, mentre oggi, nel resto del mondo si manifesta periodicamente in aree depresse o colpite da carestie o guerre, testimonianza attuale che, se i progressi della scienza medica sono riusciti a vincere sulla malattia, in molti contesti, nei confronti dei determinanti sociali ed economici della salute e della malattia, le azioni adottate sembrano non molto lontane, negli esiti, da quelle di medioevale memoria. Per la dimensione assistenziale infine, la prospettiva storica di lunga durata che si è presa in considerazione mostra come la professione infermieristica inizia già in epoca medioevale una sua propria segmentazione interna dove a fronte di figure preparate (i Camilliani, ad esempio) sia presente nei luoghi di cura personale scarsamente formato, utile ad assolvere compiti ingrati e pericolosi, mentre sul territorio la rottura delle reti sociali e la scomparsa di figure assistenziali di riferimento, crea un vuoto cui solo negli ultimi decenni si è iniziato a rispondere. In merito, la figura attuale, in fase di sviluppo, dell’infermiere di famiglia è sicuramente suggestiva, forzatamente correlata alle pandemie medioevali, ma funzionale a chiudere un quadro assistenziale globale di riferimento che nell’obiettivo di rispondere ai bisogni attuali conserva il monito che gli arriva dal passato.

Riferimenti bibliografici

  1. Nikiforuk A. (2008). Il quarto cavaliere. Breve storia di epidemie, pestilenze e virus, Mondadori, Milano.
  2. Le Goff J, Sournia JC. (1986). Per una storia delle malattie (Vol. 18). Edizioni Dedalo, Bari.
  3. Valente A. (2014). Dalla stagnazione alla crescita: teorie sulla rottura della “trappola malthusiana”, Eprint tesi di Laurea in Storia dell’Economia, LUISS “Guido Carli”, Roma.
  4. Cosmacini G. (1987). Storia della medicina e della sanità in Italia: dalla peste europea alla guerra mondiale, 1348-1918. Laterza.
  5. Pirenne H. (2012). Storia economica e sociale del Medioevo. Newton Compton Editori, Roma.
  6. Foucault M. (1976) Sorvegliare e punire. Einaudi editore, Torino, pag. 209
  7. Kleinman A. (1978) Concepts and a model for the comparison of medical systems as cultural systems. Social Science & Medicine. Part B: Medical Anthropology, 12, 85-93.
  8. Cipolla, C. M. (2004). Cristofano e la peste. Il mulino, Bologna.
  9. AA.VV. (1932) Rassegna Manzoniana, in La Civiltà Cattolica, Vol. IV, Anno 83°, pag. 67, Roma.
  10. Dal Bosco F. (1664) La prattica dell’infermiero, Gio. Battista Merlo, Verona, pag. 90.
  11. Morea V. (1817). Storia della peste di Noja di Vitangelo Morea. tipografia di Angelo Trani, Napoli.
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