La storia come costruzione continua: itinerari, sulle memorie e oltre, intorno al castello del Cassero.

Una distesa di colline verdi a due passi dal mare, rese così dolci dai secoli di lavoro, il lavoro dell’uomo e dell’animale, accomunati nella fatica di vivere. A guardarle così nemmeno sembra di vedere tutto il sangue e il sudore depositati in quelle forme, un po’ come per il giardino nello Zibaldone del Leopardi, uno spettacolo di armonia apparente che nasconde sofferenze inaudite, grida di dolore inespresso, sopraffazione, morte.

torre maestra castelo Cassero Ancona

Figura 15 – Torre merlata

Da solo il territorio non ha un senso, o ne ha infiniti possibili, infiniti valori e attributi potenziali, ma non un senso umano. E’ l’uomo che nomina le cose, le distingue, le strappa una ad una, faticosamente, dal deserto e dal caos e solo così è possibile la vita per lui, una vita dotata di senso in quel nuovo habitat che è la cultura, la sua seconda pelle sovrapposta a quella naturale. Tanto che questa sovrastruttura, così come è stata definita, si pone a sua volta come struttura portante, in grado di distanziare l’uomo da qualsiasi altra specie vivente. L’autocoscienza, individuale e collettiva, e la facoltà metacognitiva che ci caratterizzano (almeno sembra) in esclusiva sono alla base di questa differenza ontologica radicale, a partire dalla mediazione simbolica  che attraversa ogni nostra relazione con la vita e con le cose, dai gesti più materiali e apparentemente immediati, come il mangiare e l’accoppiarsi, fino alle elaborazioni più astratte quali la logica formale o la matematica pura, laddove i simboli parlano di se stessi, senza alcun referente concreto.

orre maestra e parte di edificio castello Cassero Ancona

Figura 16 – Torre maestra e parte di edificio

E al di fuori della cultura, socialmente costruita, non esiste uomo, anche se paradossalmente proprio lui ne è l’artefice, prodotto e produttore allo stesso tempo del mondo e di se stesso. Da questa aporia si esce solo considerando  entrambe le dimensioni della dialettica societaria: l’uomo si esterna, trasforma, fabbrica oggetti, costituisce istituzioni e universi simbolici; i quali a loro volta si staccano, acquistano autonomia, diventano altro, entità aliene che poi tornano a ricadere proprio su colui che le ha prodotte, ne formano gli schemi mentali, obbligandolo quasi a ritenere che siano quelle, e solo quelle, le strutture della realtà. Tutto ciò si realizza simultaneamente, in una sequenza più logica che cronologica, un groviglio di azioni e di fatti cui tutti partecipano in continuazione, ogni momento, fornendo il loro apporto attivo o passivo, in chiave consensuale o di rifiuto, al processo di socializzazione.

Ingresso castello Cassero Ancona

Figura 17 – Ingresso

Fin qui la dialettica societaria, il rapporto controverso fra individuo e collettività, che tuttavia non si attua in una dimensione eterea, bensì in un contesto di oikos e di chronos (Bernardi); ogni manifestazione umana accade qui e ora, in un luogo preciso e in un tempo determinato, come la data impressa in calce ad una lettera, ad evidenziare un evento unico e irripetibile.

ingresso visto dalla corte interna castello Cassero Ancona

Figura 18 – Ingresso visto dalla corte interna

Il susseguirsi di questi momenti ci dà la storia e, analogamente alla società e alla cultura, non c’è uomo senza storia, nel senso che non esiste come essere fuori del tempo, come categoria astratta e immutabile, neanche muovendo da una sua concezione trascendentale, nè a maggior ragione per chi lo definisca in chiave costruttivistica. Egli comunque si attua nella storia, è lì che nasce e si sviluppa, che si salva o si deteriora; prima e dopo c’è qualcosa di altro, non l’uomo, con le sue vicende vissute e raccontate; e la storia è soprattutto narrazione, è il luogo delle rappresentazioni, delle definizioni linguistiche vincenti. Sono gli individui e gli aggregati più forti, i più fortunati, abili, violenti, i più dotati di risorse socialmente spendibili,  che impongono le proprie storie, le celebrano attraverso cerimoniali prescrittivi, rituali di appartenenza (o di esclusione) e di sottomissione; e così occupano, trasformano i territori, fondano legislazioni, universi simbolici, costruiscono chiese, fortificazioni, dimore di signori e di servi.

 corte interna castello Cassero Ancona

Figura 19 – Corte interna

Una distesa di colline verdi a due passi dal mare, e su una di queste un castello, piccolo, circondato da poche case e dai poderi coltivati a mezzadria da più di cinquecento anni, fino a qualche decennio fa. Nei secoli ha dominato sul lavoro di ogni giorno, pesante e monotono, di tanta “gente della terra, ma senza terra” (Sebastianelli 1989, p.7), quasi a rappresentare emblematicamente un potere che sovrasta e sorveglia in silenzio, dall’alto. Chi scrive discende da quelle generazioni nate e vissute all’ombra del castello del Cassero; restano quasi come un’eco immagini e suggestioni depositate pesantemente nell’ “inconscio”, come qualcosa che si è perso e verso il quale rimane un’attrazione arcana, profondissima. Ecco allora le rappresentazioni dell’infanzia, coerenti con le caratteristiche psichiche di quell’età, che adesso quasi sfuggono alla memoria, o almeno subiscono il filtro necessario della rivisitazione in chiave adulta, legate ai luoghi, come le case coloniche frequentate, o il podere  da dove si vedevano in lontananza i merli e le torri, oppure la cantina padronale, curata dal nonno mai conosciuto, nella grotta del castello. E poi le storie, sempre rielaborate da quegli occhi, storie di padroni e di sfruttati, di sfollati e di bombardamenti, di lotte politiche nel dopoguerra, ma anche di visioni notturne, di situazioni e personaggi legati alle credenze popolari così lontani dagli scenari urbani attuali. Cosicchè quando Sofia (intorno ai 5 anni), domandava se ci fossero le principesse in quel castello, si trovava immersa proprio dentro quello stesso modo di concepire il mondo e forse sarà rimasta delusa nel trovare solo un cortile deserto e delle pietre.

corte interna (parte superiore) castello Cassero Ancona

Figura 20 – Corte interna, parte superiore

Si cresce così in fretta; gli immaginari infantili legati a rappresentazioni magiche, animistiche, ad elaborazioni fantastiche e avventurose cedono il passo agli approcci più realistici, convenzionali, dell’età adulta. Allo stesso modo in cui la cultura della mezzadria, improntata ad una commistione di elementi magico – religiosi, innestati su di un impianto pagano preesistente, il suo micro-cosmo chiuso e statico, immutabile per secoli, ha lasciato il posto alle visioni di una modernità dominata dalla scienza e dalla tecnologia, dal trionfo e dalla crisi della ragione. Lo stesso passaggio, a volte fin troppo rapido: da una fase “sognante”, vissuta sotto la protezione di un “cosmo sacro”, dove tutto è già dato e rivelato (per parafrasare il vescovo de La voce della luna di Fellini), al “disincantamento del mondo” (Weber), un “mondo diventato adulto” (Bonhoeffer), senza fondamenti ritenuti assoluti e cupole protettive, a caratterizzare un’età matura che mette a nudo la complessità del reale, scoprendoci fragili e allo stesso tempo carichi di enormi responsabilità proprio quando, individualmente e filogeneticamente, avremmo più bisogno di certezze.

E allora la storia ci spaventa, così imprevista, sfuggente; l’uomo da sempre ha provato a fermarla, controllarne l’incedere incessante attraverso vari espedienti, come quello di tentare di cristallizzarla all’interno di involucri, quali istituzioni, riti, liturgie. La costruzione sociale stessa in fondo può dirsi, ogni volta, un’impresa tendente a incanalare la storia, nell’illusione di attribuire definitivamente un nome ad ogni cosa, stabilire status immutabili e relativi ruoli adeguati, regole fisse e certe, cosmogonie e Weltanschauungen di riferimento, per tutti e per sempre. Anche i rituali ciclici perseguono in qualche modo questa finalità, come ci insegna Mircea Eliade: la vita sociale delle culture arcaiche ricalca i paradigmi cosmici, ritenuti universali, e i riti ricorrenti ne rinnovano periodicamente il corso, rimodellandola ogni volta ad essi. Così la storia non fa più paura, quasi non esiste, o almeno risulta neutralizzata nella sua portata sconvolgente. La modernità ha scelto invece di consegnarsi al libero corso degli eventi, la modernità ebraico-cristiana che si è però staccata, attraverso il processo di secolarizzazione, dal suo fondamento religioso, conservandone solo gli effetti.

E comunque la storia non si può fermare; i tentativi, di cui si diceva, di cristallizzarla o adattarla in senso ciclico appaiono vanificati dall’evidenza dei fatti. Anche la modernità liquida in cui siamo immersi sembra destinata a finire per essere parte della storia: da un lato una complessità irriducibile, la pluralità dei mondi vitali cui siamo simultaneamente esposti, un crogiuolo di infiniti sensi possibili, reali o virtuali che siano, e dall’altro una caduta di senso, la tendenza ad uniformare il mondo intorno ad un’assenza di valori, a generalizzare, annullare ogni specificità qualitativa in nome di un simbolismo vuoto e astratto, di cui il denaro è il principale soggetto. Ma anche questo è parte della storia, la storia che cambia i territori e i quadri di riferimento teorici, che consuma le umanità, una dopo l’altra, così come le mura degli edifici e i nostri visi, e ci vede nascere e invecchiare.

Cosicchè l’ontogenesi ripete il percorso evolutivo della specie, e la vicenda personale si intreccia con quella più imponente dei gruppi, delle comunità, piccole e grandi, fino ad arrivare al succedersi delle civiltà che hanno attraversato il pianeta. Tutto questo, al di là delle ideologie e delle ipostatizzazioni, ci appare come un insieme di corpi in movimento, uomini reali che vivono e interagiscono concretamente; la storia si trova dentro quei  gesti e quelle parole e allo stesso tempo assiste, come da un aereo, al nostro transito, racconta di una serie innumerabile di soggetti, eventi unici e imprevedibili. “La storia siamo noi”, cantava De Gregori evocando suggestivamente immagini di protagonisti anonimi, insignificanti, eppure portatori di una rilevanza infinita nella loro dimensione irripetibile, lasciando tuttavia in ombra l’altro aspetto della dialettica societaria, quello che ci vede costretti a recitare, con la consolazione di qualche margine interpretativo, parti già scritte, dettate da strutture sovrastanti. Torna ancora il rapporto micro-mega, tra individuo e collettività, quotidianità “incosciente” e grandi sistemi, cultura materiale e vita economica, fino al capitalismo ( Braudel). Il castello del Cassero, in questo senso, si presta adeguatamente a fungere da trait d’union, tra la contingenza di ogni giorno e la cosiddetta Storia ufficiale, illuminata da riflettori virtuali e impressa sui libri, quella che oggi viene evidenziata materialmente dai flash e dalla presenza delle telecamere; niente di tutto questo, invece, per le piccole vicende della gente comune, salvo qualche sporadica notazione dettata da interesse etnografico o rievocativo. E  allora da un lato queste storie, ce ne sarebbero a milioni da raccontare, fatte di elementi e di scenari multiformi: la povertà materiale, ma anche linguistica e culturale, entrambe favorite da chi detiene il potere, i rapporti con i padroni, quelli interni alle famiglie, la sottomissione delle donne e l’infanzia negata, e poi il lavoro, la fatica a volte disumana e comunque ingiusta, perchè distribuita in maniera diseguale, come le ricchezze e le opportunità. E poi, ancora, la solidarietà e l’amicizia, le veglie nelle stalle delle case coloniche durante le sere d’inverno; le tradizioni e i valori, i rituali di una religiosità nella sostanza pagana; l’architettura popolare, gli attrezzi e gli usi del lavoro agricolo e delle attività domestiche, i cibi e i vestiti. Tutti aspetti sempre al centro di una tensione continua tra imposizioni eteronome, tali da determinare i modi di essere, le forme, le credenze di destinatari spesso inconsapevoli e d’altro canto il tentativo di salvare un qualche margine di cultura indipendente; al punto che a volte risulta problematico operare una distinzione netta tra le due matrici. Come ad esempio riguardo al radicamento del senso religioso: fino a che punto cioè sia da attribuirsi a motivazioni di tipo spontaneo e quanto invece all’azione massiccia di evangelizzazione operata dalla Chiesa nelle campagne durante il Medioevo e a seguito del Concilio Tridentino, con l’ affermazione dell’istituzione parrocchiale quale centro della vita nei suoi momenti cruciali (nascita, matrimonio, morte) e come riferimento (attraverso il suono delle campane) per i ritmi lavorativi e le festività.

Da un lato, dunque, questa miriade di frammenti di vita, investimenti affettivi e sofferenze, infiniti silenzi destinati a non uscire mai alla luce delle narrazioni ufficiali, i quali hanno circondato nei secoli il castello del Cassero, “piccola pietra della storia” (Sebastianelli 1992), e dall’altro le vicende del potere centrale di cui esso è espressione diretta e ravvicinata. Sebbene non si tratti di un presidio di rilevanza fondamentale, le sue origini sono legate ad un evento di primo piano per la storia della civiltà europea, vale a dire la fine della residenza papale ad Avignone e il ritorno di Gregorio XI a Roma nel 1377, con la restituzione di quest’ultima al ruolo, spiritualmente e politicamente rilevante, di fulcro della Cristianità cattolica. Ebbene la nave che trasporta il Pontefice è anconetana, come pure l’eqipaggio e il comandante, l’ammiraglio Niccolò Torriglioni, al quale, per l’impresa compiuta, vengono concessi dallo stesso Papa il titolo di conte e la facoltà di erigere un castello. Queste le origini del Cassero (che ne spiegano anche il nome mutuato dalla terminologia marinara),  “un castello minore in una provincia minore” (Brunelli,Spigarelli),  mai uscito dalla sua connotazione prettamente rurale, che lo vede pienamente inserito, quasi “assorbito” nel contesto agricolo circostante, estrema espressione di una regione che è periferia e terra di confine insieme, “che forse per il suo modo di essere costruita in piccoli circoli collinari fa girare la testa un po’ a tutti”, come scriveva Paolo Volponi nel tracciare un ritratto della “marchigianità”; laddove si evidenziano varietà di personaggi e di situazioni, fantasia, ma anche senso pratico, attitudine a rileggere i segni del passato in chiave attuale.

Dunque i “ruderi sono vivi” (Brunelli, Spigarelli), ma forse in un senso diverso rispetto a quanto l’affermazione potrebbe lasciare intendere, a partire innanzitutto dal considerare che la storia, qualsiasi storia, passa, mai necessariamente uguale, travolge tutto, quasi anche se stessa.

Dice Socrate nel Fedro di Platone “la scrittura è in una strana condizione, simile veramente a quella della pittura. I prodotti cioè della pittura ci stanno davanti come se vivessero: ma se li interroghi, tengono un maestoso silenzio. Nello stesso modo si comportano le parole scritte: crederesti che potessero parlare quasi che avessero in mente qualcosa; ma se tu, volendo imparare, chiedi loro qualcosa di ciò che dicono esse ti manifestano una cosa sola e sempre la stessa. E una volta che sia messo in iscritto, ogni discorso arriva alle mani di tutti, tanto di chi l’intende tanto di chi non ci ha nulla a che fare; nè sa a chi gli convenga parlare e a chi no. Prevaricato e offeso oltre ragione esso ha sempre bisogno che il padre gli venga in aiuto, perchè esso da solo non può difendersi nè aiutarsi”. Ciò che resta è testimonianza di storie passate, le racconta, ma, analogamente alla forma scritta, si presenta come qualcosa di non interattivo, inerte e inerme di fronte a chi legge. Ma su quelle reliquie si innestano nuove storie, in primo luogo ad un livello ermeneutico, attraverso gli occhi che cambiano, sempre diversi, sia per il singolo che per le collettività che via via si succedono. In secondo luogo per l’utilizzo che la storia presente e futura, trasformando ciò che resta, può farne. Con la speranza che non si perda mai la memoria delle origini; e soprattutto nella consapevolezza che ciò che rimane non sono le nostre produzioni in sè, le costruzioni mentali e materiali di cui siamo socialmente o individualmente capaci, ma l’uso e le letture che le generazioni successive faranno delle nostre eredità.

Nel segno della vita che continua, in autonomia e spesso ispirata a quella weberiana “eterogenesi dei fini” secondo cui gli effetti esulano dalle intenzionalità originarie, percorrono strade diverse, impreviste, sebbene in un rapporto di confronto ineludibile con le tracce lasciate in precedenza.

Quasi d’obbligo il riferimento a Gibran: “…Perchè la vita non ritorna indietro e non si ferma a ieri. Tu sei l’arco che lancia i figli verso il domani”.

 

BIBLIOGRAFIA
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– F.Braudel, Civiltà materiale, Economia e Capitalismo, Einaudi, Torino 1982.
– F.Crespi, Le vie della sociologia, il Mulino, Bologna 1998.
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– G.Campana, M.Fratesi (a cura di), Camerata Picena 1944. L’anno del fronte, Comune di Camerata Picena – Scuola media “A.Manzoni”.
– M.Fratesi (a cura di), Storia di una comunità. Camerata Picena dalle origini ai nostri giorni, Comune di Camerata Picena 2001.
– S.Sebastianelli (a cura di), Il castello del Cassero. Piccola pietra della storia. Simbolo e testimonianza del ritorno del Papato a Roma, Comune di Camerata Picena 1992 (in particolare C.Brunelli, M.Spigarelli, Quei ruderi sono vivi)
– S.Sebastianelli, Senza pentimenti, Salemi, Roma 1989.
– S.Sebastianelli, Storie per la storia. Quattordici racconti e una poesia, Roma 1988.
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