Note storiche sugli infermieri durante la Prima Guerra Mondiale

Giordano Cotichelli
Corso di Laurea in Infermieristica
Facoltà di Medicina e Chirurgia, Università Politecnica delle Marche

L’11 novembre 1918 con la resa della Germania finisce la Prima Guerra Mondiale. L’Italia già dal 4 aveva terminato le ostilità a seguito dell’armistizio firmato il giorno prima a Villa Giusti. Per il suo impatto, il numero totale delle vittime, l’impiego di micidiali e nuove armi (gas, carri armati, aeroplani, etc.) l’evento bellico, che durò quasi cinque anni, e coinvolse imperi e nazioni dei cinque continenti, è conosciuto generalmente come Grande Guerra. Le vittime in totale furono quasi 18 milioni. L’Italia mobilitò, solo per l’Esercito, 5.728.277 uomini, di cui 4.199.542 in zone di guerra. Si registrarono 680.071 morti, 990.000 feriti (16,57% dei mobilitati), e 462.812 invalidi [1]. Le perdite in termini di capitale umano, calcolandole sui morti e gli invalidi rappresentarono il 20% dei mobilitati. Fu definita la guerra che per la sua violenza avrebbe portato alla fine di tutte le guerre. Così non fu, e venne poi scelta come cesura storica per connotare l’inizio del ‘900 come secolo breve [2]. Un quadro generale drammatico e sconvolgente, veicolo, di conseguenza, di cambiamenti radicali a livello politico, sociale, economico e culturale e, come spesso accade in queste situazioni, anche a livello sanitario.

Fig. 1: Materiale sanitaria della 1^ G.M. press il Museo della Brigata Sassari (Cotichelli, 2018)

La Grande Guerra vide l’inedito uso dei gas, l’aumento della potenza distruttiva delle artiglierie, e la trasformazione delle trincee in veri e propri focolai epidemici (tifo petecchiale, colera, febbre da trincea, gangrena, tetano, tubercolosi). Per non parlare del piede da trincea, e delle ferite che si contaminavano con estrema facilità: all’addome, al torace, al cranio, agli arti [3]. La mortalità nell’esercito italiano per colera fu del 25% [4]. La sieroprofilassi di conseguenza divenne uno dei primi strumenti di intervento sanitario permettendo, nel corso del conflitto, di ridurre la morbosità di importanti malattie. Il tifo, ad esempio, passò dal 17,9% del 1915 all’1,3% del 1918 [5]. Gerhard Domagk, il medico tedesco che negli anni ’30 scoprirà i sulfamidici, mobilitato anch’egli al fronte rileverà che la mortalità per ferita e per infezione sia stimata in un rapporto di 1 a 3 [6]. I soldati impararono a bere l’acqua delle trincee potabilizzata con l’uso di quantità stabilite di cloro. Il metodo fu chiamato verdunizzazione, in relazione al suo primo impiego sul campo di battaglia franco-tedesco vicino alla citta di Verdun, che si protrasse per quasi tutto il 1916, con un numero stimato di perdite fra i 500.000 e un milione.

Fig. 2: Istruzioni per i portaferiti da un manuale di infermieristica del tempo (Cotichelli, Archivio personale)

In generale non è difficile immaginarsi come, in campo sanitario, un importante apparato di mezzi e uomini fu progressivamente mobilitato. Nel caso italiano, solo al fronte furono allestite 453 unità sanitarie di cui 233 ospedaletti da campo da 50 letti, 174 ospedali da campo con 100 e 46 fino a 200[1]. I feriti trasportabili erano classificati in: gravissimi, gravi trasportabili per intervento urgente, gravi trasportabili a breve distanza, trasportabili a lunga distanza e feriti leggeri. La Croce Rossa mobilitò 3.487 ufficiali, 8.400 infermiere, 14.650 sottufficiali e truppa, 349 cappellani, 4.122 borghesi aggregati che si fecero carico di assistere 1.205.754 militari per un totale di giornate di degenza di 21 milioni [7]. Le infermiere inviate al fronte furono 1.080 [8]. Il numero delle infermiere citate si riferisce alle volontarie della Croce Rossa, ma in realtà altre istituzioni assistenziali del tempo fornirono personale sanitario (Società di Soccorso, Croce Bianca, Croce d’Oro, Croce Verde, Dame della Misericordia, etc.) per arrivare ad un totale circa di 10.000 volontarie5. A queste vanno poi aggiunte le infermiere religiose, le infermiere professionali e gli infermieri inseriti come personale militare. Dati precisi in merito sono difficili da reperire. Il numero delle infermiere professionali era certamente esiguo dato che, all’inizio della Grande Guerra, in Italia erano presenti circa una trentina di scuole, le quali vedono però una bassa affluenza ai corsi ed una ulteriore minore numero di diplomate. Secondo alcuni autori [9] [10] [11] a Roma la Scuola San Giovanni nei primi sei anni di vita – agli inizi del XX secolo – diplomò appena 11 infermiere, a Firenze la Scuola Regina d’Italia presso l’Ospedale Santa Maria Nuova chiuse dopo pochi anni per mancanza di allieve e la Regina Elena di Roma dopo il primo ciclo diplomò appena 17 allieve. Le cause di questo erano diverse: un diffuso analfabetismo, una selezione rigida che vedeva quale soggetto delle scuole unicamente donne nubili del ceto medio, ed una visione organizzativa che non riusciva a definire la collocazione stessa delle diplomate nei contesti sanitari. In merito al personale militare, la cui consistenza è difficilmente quantificabile, in maniera specifica all’interno delle cifre generiche relative alla truppa e ai sottoufficiali, il quadro è complesso. Molto spesso la qualifica di infermiere, portantino o aiutante di sanità era “estesa” a militari aggregati alle unità di soccorso in rimpiazzo momentaneo, o in funzione di inserviente o, come molto spesso accade nei teatri di battaglia, in convalescenza, in attesa di rientrare al corpo. In questo si può comunque cercare di avere un quadro della situazione prendendo in considerazione alcuni dati Istat del tempo [12], che consentono di confrontare la numerosità infermieristica rilevata dai censimenti del 1911 e quelli del 1921.

Prima della guerra la presenza di infermieri in totale era di 18.084 (10.247 donne e 7.837 uomini), immediatamente dopo si registravano 27.264 unità (15.1977 donne e 12.067 uomini) con un incremento maschile del 53,9% contro un 48,3% femminile. Una crescita inedita, che va oltre i valori registrati nei decenni precedenti e che consente di ipotizzare una importante immissione in servizio di personale assistenziale, negli immediati anni del dopoguerra, sia per colmare i vuoti lasciati dall’evento, sia per rispondere ad un aumento della popolazione dei pazienti in relazione alle conseguenze della guerra (malattie mentali, disabilità, malattie trasmissibili, etc.). In molti casi il personale infermieristico, specie quello maschile, poteva rivendicare l’esperienza maturata al fronte, nelle retrovie, a volte mostrando anche eventuali attestati conseguiti. Lungo questo stesso ordine di pensiero, considerando le fonti Istat, si può notare anche una crescita importante del personale religioso all’interno delle strutture sanitarie passato da 3.597 (1911) a 12.134 (1921), ed anche in questo caso è ipotizzabile che, all’interno di quest’altra numerosità si possa ravvisare un insieme importante di infermiere religiose le quali, verosimilmente, erano state anch’esse impegnate e “formate” sui campi di battaglia. Alla fine si può pensare che l’assistenza infermieristica italiana durante la Prima Guerra Mondiale, possa aver coinvolto in varia misura oltre ventimila unità.

Fig. 3: Francobollo commemorativo della fucilazione di Edith Cavell.

E’ doveroso ricordare che il personale sanitario si trovava a lavorare in condizioni estreme e rimaneva esso stesso vittima dei bombardamenti o delle malattie trasmissibili. In relazione a questo, fra le infermiere della CRI che persero la vita, 42 vennero decorate con medaglie al valore, 90 con croci di guerra e 15 con encomi solenni [13]. Una delle testimonianze più note dell’impegno delle infermiere durante la Prima Guerra mondiale è quella relativa al martirio della britannica Edith Cavell, fucilata in Belgio il 12 ottobre 1915 per spionaggio. Per identiche ragioni – spionaggio – i militari francesi ed inglesi fucilarono anch’essi delle infermiere tedesche: Margaret Schmidt, Ottilie Moss [14] (o Voss) ed una presunta “Mrs Phaad”. In merito le fonti a disposizione sono contraddittorie. Alcune citano in maniera molto scarna l’avvenimento senza alcuna enfasi patriottica, altre mettono in discussione sia l’esistenza sia la professione stessa delle vittime, suggerendo, come chiave interpretativa, un fallito tentativo propagandistico tedesco per controbilanciare la fucilazione di Edith Cavell. Insomma, anche i media del tempo, al pari dei social attuali, attiravano pubblico a colpi di notizie sensazionali ed altrettanto sensazionali fake. Reale invece la presenza di una “Sorella Erika” [15], infermiera tedesca sepolta nel cimitero di guerra di Gallipoli. Significativo su tutti, il caso italiano di Margherita Kaiser Parodi, nota come la crocerossina di Redipuglia; il sacrario alle vittime militari della Grande Guerra. Giovane infermiera ventunenne, premiata con medaglia di bronzo al valor militare nel 1917, trovò la morte a guerra finita, presso l’Ospedale Territoriale di Firenze, il 1 dicembre 1918, vittima, fra le tante, dell’epidemia influenzale – nota come spagnola – che si sommò alle sciagure belliche.

L’elencazione delle singole storie, il riportare alla luce personaggi, contesti e drammi mostra la peculiarità che, all’interno del difficile quadro organizzativo della sanità in tempo di guerra, investì la professione infermieristica. Gli elementi salienti riguardano, come visto, l’inedito protagonismo femminile, durante un evento epocale, sui campi di battaglia, nelle corsie, e in molti settori della società stessa nel sostituire gli uomini chiamati alle armi. Un fenomeno noto con il termine di femminilizzazione che avrà le sue ripercussioni negli anni immediatamente successivi nella modernizzazione della professione infermieristica. Altro elemento di rilievo riguarda la necessità di un aumento numerico del personale sanitario, in grado di far fronte ai nuovi scenari assistenziali, resi in buona parte evidenti dalla guerra e che possono essere sintetizzati dal concetto di un’assistenza sanitaria di massa con caratteristiche qualitative e quantitative inedite. Un fatto che comporta la presenza di maggiore personale sanitario in generale, ed infermieristico in particolare. Più infermieri quindi e con una preparazione migliore di quella adottata fino ad allora.

Gli esiti della guerra dunque conducono il paese a porsi in maniera stringente il problema della formazione infermieristica, con oltre mezzo secolo di distacco dalle scelte già fatte in altre nazioni, come ad esempio Regno Unito e Stati Uniti. Ciò nonostante, a ragion del vero, va rilevato come anche nei paesi citati, il livello di preparazione infermieristica non fosse all’altezza. Ad esempio in uno studio del tempo commissionato dalla Rockfeller Foundation e finalizzato all’analisi dello stato della formazione della professione negli USA. Tale studio era il Goldmark Report, dal nome della sociologa Josephine Goldmark che ne venne messa a capo e guidò un gruppo di ricercatrici e professoresse universitarie di Scienze Infermieristiche come M. Adelaide Nutting, Annie Goodrich e Lilian Wald.

Il rapporto mise in evidenza, tre anni dopo, l’inadeguatezza dei programmi di studio, dell’organizzazione degli orari di tirocinio e di lezione, la necessaria separazione fra la dirigenza della scuola e quella ospedaliera e la costruzione di una formazione proiettate all’ambito universitario [16]. Problemi presenti anche nel contesto italiano e sintetizzabili nella necessità di non procrastinare più una regolamentazione della formazione infermieristica. Infatti in data 8 aprile 1918 venne nominata con Decreto ministeriale una “Commissione per lo studio della riforma infermiera”, presieduta dall’On. Bartolini, che in più occasioni, durante il conflitto, aveva sollevato le problematiche dell’organizzazione sanitaria italiana. Successivamente, il 3 settembre 1919, veniva posta l’attenzione sulla valutazione dello stato della professione infermieristica e le proposte per porvi rimedio che confermavano quanto già detto da autorevoli personalità del tempo, come Anna Fraentzel Celli che negli anni immediatamente precedenti la Grande Guerra metteva in evidenza le molte carenze presenti nella professione relative a salari, orari di lavoro, formazione e, su tutte, la presenza di un diffuso analfabetismo. Non è un caso che il R.D. n. 615 del 16 agosto del 1909 (sulla regolamentazione dei manicomi) imponeva all’art. 23, quale requisito per gli infermieri, la capacità di saper leggere e scrivere.

Alla fine, negli anni immediatamente successivi la Prima Guerra Mondiale, si struttureranno gli interventi che condurranno alla prima legge sulle Scuole Convitto: la RDL 1382 del 1925, quasi una sintesi ed una prima risposta alle criticità evidenziate dalla guerra legate alla formazione del personale, alla sua composizione numerica, alla necessaria modernizzazione per rispondere ad una sanità ancor più di massa. Nota dolente alla fine però fu quella dell’esclusione, dalla formazione superiore, del personale maschile. La prima legge sulle scuole convitto in Italia è certo il prodotto di un protagonismo femminile che si è sviluppato durante gli anni della guerra, ma è anche il frutto di una visione gerarchica e segregazionista, relativa alla professione, figlia anche del regime fascista che si sta strutturando in quegli anni. Dovrà passare quasi mezzo secolo, con la legge 124 del 25 febbraio del 1971, per consentire anche agli uomini di poter accedere alle scuole e diventare Infermieri Professionali.

La_grande_guerra_-_Sordi_Gassman

Fig. 4: Locandina del film “La Grande Guerra”

La femminilizzazione della società trovava un suo ambito specifico, ma ristretto, di espressione nella professione infermieristica, con il prodursi però dell’esclusione, come detto, degli uomini da livelli professionali superiori, e con il rafforzamento di conseguenza, di stereotipi legati alla figura femminile infermieristica. Su tutti, restando in tema, basti pensare al binomio uomo-soldato e donna -infermiera che l’iconografia del tempo, e quella successiva, contribuirà ad alimentare. Anche legata alla stessa narrazione epica e romantica dei racconti di guerra. Su tutti, il romanzo di un giovane statunitense, aggregato all’esercito italiano quale autista di ambulanze, che si innamorerà di una bella infermiera e con lei scapperà in Svizzera (ricercato per diserzione dai comandi militari). E’ la storia dei protagonisti di “Addio alle armi” di Hemingway, opera prima e quasi autobiografica del grande scrittore. Purtroppo però, la Prima Guerra Mondiale, come tutte le guerre, nasconde sotto il suo velo di epica e misticismo eroico, il volto orribile della distruzione e dell’infamia. Ne parleranno altri importanti artisti come Erich Maria Remarque nel suo “Niente di Nuovo sul Fronte Occidentale”, raccontando di una generazione spazzata via dal Moloch in uniforme. O come Renè Clair, il regista francese del film, del 1937, dal titolo significativo: “La grande illusione”. Pellicola che parla delle tragedie del passato, cercando di ammonire verso quelle imminenti – allora – di un altro conflitto, che poi sarà la Seconda Guerra Mondiale.

Forse fra tutti, a rendere esplicito il portato umano e storiografico della Grande Guerra, è il romanzo di Dalton Trumbo: “E Johnny prese il fucile”, dove un reduce di guerra, grande invalido, costretto al letto e capace di comunicare con l’esterno, solo attraverso i movimenti del capo, riuscirà a farsi testimone della denuncia degli orrori bellici grazie alla relazione che, lentamente, un’infermiera riuscirà a stabilire con lui. La comunicazione, la prossimità, la volontà di riconoscere l’altro da sé come portatore di un bisogno cui rispondere, diventano gli strumenti che – tramite la figura dell’infermiera di Trumbo – riconducono e si riconciliano con un’umanità ferita e violentata. Lasciando qualche speranza alla fine, figlia anche della scienza assistenziale la quale, ancora nella narrazione della guerra – ma legata a fatti realmente accaduti – conducono ad un grido di solidarietà che i soldati al fronte, nel primo natale di guerra del 1914, mostreranno nel voler fraternizzare durante la tregua stabilita per raccogliere morti e feriti. Ne parla un’altra pellicola, del 2005: “Joyeux Noël”, che riesce amabilmente a ricostruire e ad amplificare un grido di pace per il futuro, figlio anche di quello che quotidianamente, ogni sanitario, porta con sé. Un grido anche per il presente rivolto, ad un secolo di distanza dalla fine della Grande Guerra, verso coloro che continuano a rimanere vittime dei tanti, troppi, conflitti in atto, pensando, grazie ad un ultimo riferimento cinematografico, ai protagonisti del film di Monicelli “La Grande Guerra” (Fig.4), interpretati da Vittorio Gassman ed Alberto Sordi, che rappresentano due poveracci qualunque, stritolati dalla macchina bellica, in quella che non è una storia di infermieri, ma è la storia di tutti noi.

Riferimenti bibliografici

  1. Ferrajoli F. (1968) Il servizio sanitario militare nella Guerra 1915 – 1918, in Giornale di Medicina Militare, novembre – dicembre 1968, Anno 118, fascicolo 6, pag. 501 – 516;
  2. Hobsbawm, E. J. (2004). Il secolo breve (Vol. 47), Rizzoli, Milano;
  3. Cappellari L, Trevisani E. (2006) 1915-1918: guerra e sanità militare. Un confronto con i giorni nostri, Atti del convegno 11 novembre, Arcispedale S. Anna, Ferrara;
  4. De Napoli D. (1989), La sanità militare in Italia durante la I guerra mondiale, Apes, Roma;
  5. Casarini A. (1929), La medicina militare nella leggenda e nella storia. Saggio storico sui servizi sanitari negli eserciti, Roma;
  6. Cosmacini, G. (2014). Guerra e medicina: dall’antichità a oggi. Laterza & Figli Spa, Bari;
  7. Cerutti E. (2017) Bresciani alla Grande Guerra. Una storia nazionale”, Franco Angeli, Milano, pag. 430
  8. Cipolla C. (2013) Storia della Croce rossa Italiana, dalla nascita al 1914”, vol. 1, Franco Angeli, Milano, pag. 751;
  9. Dimonte, V. (2007). Da Servente a Infermiere. Una storia dell’assistenza infermieristica in Italia, Cespi editore, Torino;
  10. Sironi, C. (2012). L’infermiere in Italia: storia di una professione. Carocci Faber, Roma;
  11. Cazzola M, Chillin G. (2008) L’infermiere e la legge, Maggioli Editore, 2008, pp. 158;
  12. Cotichelli G. (2017) L’infermiere nell’Italia liberale, in Giornale di storia Contemporanea, A. 20, n. 1, Gruppo Periodici Pellegrini, Cosenza;
  13. Calzolari E. (2014) La Croce Rossa Italiana nella Grande Guerra 1915-1918 in Il Caduceo, Rivista di aggiornamento scientifico e cultura medica, Volume 16, n.3, 2014, pag. 27 – 34;
  14. New York Times, 25 October 1915, pag. 3, Crozier-De Rosa, S. (2017). Shame and the Anti-Feminist Backlash: Britain, Ireland and Australia, 1890-1920. Routledge.
  15. Sito consultato in data 01/09/2018: https://germannursesofthegreatwar.wordpress.com/special-cases/
  16. Committee for the Study of Nursing Education, & Goldmark, J. C. (1923).Nursing and Nursing Education in the United States: Report of the Committee for the Study of Nursing Education, and Report of a Survey by Josephine Goldmark, Secretary. MacMillan Company.
Questa voce è stata pubblicata in Senza categoria. Contrassegna il permalink.