Serpenti, streghe e bastoni magici: l’iconografia passata della cura e dell’assistenza (parte terza)

Giordano CotichelliGiorgio Cotichelli
Corso di Laurea in Infermieristica
Facoltà di Medicina e Chirurgia,
Università Politecnica delle Marche

Gli spunti suggeriti nelle due parti precedenti hanno mostrato la continuità temporale dell’iconografia sanitaria presente oggi, le molte derivazioni culturali dal mondo mediorientale e mediterraneo, e da quello proprio della penisola italiana, dalla quale non si può che ripartire per focalizzare l’attenzione sugli ultimi particolari da analizzare di questo lavoro: le figure guaritrici.

L’eruzione del Vesuvio del 79 d.C. distrugge le città di Pompei, Ercolano, Stabia e Oplontis. Un disastro ambientale ed una tragedia umana di portata incalcolabile, che riconsegna all’osservazione degli studiosi, quasi due millenni dopo, luoghi preziosi per le ricerche archeologiche in continuo divenire. La stessa Storia della Medicina riesce ad avere molte informazioni sulle pratiche del tempo grazie alla presenza di manufatti e reperti di ogni tipo, com’è il caso, ad esempio, dei materiali ritrovati in quella che verrà chiamata la “Casa del chirurgo”, per la presenza di almeno una quarantina di strumenti fra cateteri, forcipi, bisturi, pinze e sonde. A questi si unisce il ritrovamento anche di importanti affreschi che si comportano come delle vere e proprie istantanee dei costumi e delle conoscenze del tempo. Nel riprendere il filo conduttore di questo lavoro, ce ne sono alcuni che mostrano Mercurio con in mano un caduceo. Uno in particolare, conservato presso il Museo Archeologico Nazionale di Napoli, offre un Mercurio-Priapo, posto all’entrata di una bottega. L’immagine presenta un soggetto, dotato di un fallo di smisurata grandezza, che tiene in una mano un sacchetto di denari e nell’altra il bastone d’araldo. Il tutto assume una forte valenza simbolica, quasi con funzione apotropaica, molto presente nella cultura classica ed in quella relativa alla salute ma, in questo caso, non direttamente riferibili, e più legate ad una visione di buona sorta e prosperità, assunta dalla stessa divinità di Mercurio, considerato anche il dio del commercio Sempre a Pompei si ritrova un’immagine simile, meno forte, ma probabilmente con funzioni scaramantiche e di protezione dei guadagni e delle vendite che è quella di un Mercurio del larario del termopolio di Vetuzio Placido, con in mano, anche in questo caso, il sacchetto di monete ed il caduceo. L’analisi degli affreschi continua prendendone in considerazione altri due, conservati presso il Museo Archeologico Nazionale di Napoli. Il primo, tratto dalla Villa di Cicerone, raffigura una fattucchiera assieme ad altre due donne, sedute attorno ad un tavolo. Tutte e tre indossano delle maschere teatrali. Una testimonianza di vita che diventa ancor più, narrazione quotidiana nell’allegoria assunta dalla rappresentazione scenica.

Donna che offre da bere a un mendicante
Figura 1 – Donna che offre da bere ad un mendicante

Il secondo affresco, proveniente dalla Casa dei Dioscuri, è quello definito: “Donna che offre da bere ad un mendicante” [Fig. 1] (o per alcuni “Uomo presso una fattucchiera”) 1. La definizione che ne fu data durante il XIX secolo parla di una donna denominata Saga2: «Presso gli antichi romani era chiamata così una donna profondamente versata nei misteri religiosi. Da questo derivò, secondo Festo, la voce sagace. La saga presto si tramutò nell’opinione volgare in una maga o sortilega, perché molte erano le cerimonie o superstizioni che si usavano in quei misteri. La figura qui posta è presa da una pittura di Pompei ed ha tutti i caratteri che soglion darsi alle

streghe o fattucchiere: il cappello, la verga magica, il cane e la caldaia […]». Quella descritta è quindi una scena degna di attenzione, sia per la rappresentazione di un atto posto fra la solidarietà e la cura, sia per i molti elementi che la compongono. Il bastone che la donna tiene nella mano sinistra non ha nulla che lo associ immediatamente al caduceo o al bastone di Asclepio, ma viene ad ogni modo connotato – dall’autore del libro – quale verga magica, strumento irrinunciabile per il ruolo del soggetto rappresentato. Restano quali simboli rappresentativi, la caldaia, il contenitore a piedi della donna, che si abbina al vaso/bicchiere che porge al viandante, e il cappello che identifica quale fattucchiera, la donna stessa. E proprio sul cappello della fattucchiera è necessario soffermarsi. È un cappello tipico della moda greco-romana: di paglia intrecciata, a punta conica, denominato tholia3. Il nome richiama il termine tholos, cui è etimologicamente legato, dato che indica qualcosa di forma cilindrica di uso comune nel mondo contadino del tempo, ed anche oggi, indossato, in molte aree del Sud-est asiatico. Ciò nonostante l’immagine diventa suggestiva rispetto ad un cappello a cono tronco, che si lega all’iconografia classica di streghe e maghi di varia origine con addosso un capo di vestiario al cui interno potevano nascondersi piccoli oggetti, – lame, schegge, specilli – e foglie essiccate ad uso medicamentoso. Copricapo comune riprodotto in molti manufatti antichi, come ad esempio, in alcune statuine delle civiltà nuragiche. Presso il Museo Archeologico Nazionale di Cagliari sono conservate numerose testimonianze della storia dell’isola e delle civiltà mediterranee. Accanto ad anfore, lucerne, oggetti votivi e maschere ci sono alcune statuette, dette “bronzetti nuragici”4, che rappresentano fedelmente costumi e ornamenti, armi e attrezzi delle popolazioni del tempo, in miniature molto ben realizzate con le tecniche di allora. Alcuni anni fa, ispirandosi proprio ai vari particolari mostrati dai bronzetti, Angela de Montis5 ha riprodotto alcuni costumi a grandezza naturale e li ha montati su dei manichini, con i vari arredi personali, realizzando una mostra che ha permesso quasi di toccare dal vivo gli abiti di un tempo. Alcuni di questi costumi sono interessanti sul piano della storiografia della medicina. Il primo è quello della cosiddetta “Donna o sacerdotessa di Teti”5 (o donna con cappello da strega, di forma conica ed allungata). Segue quello detto della donna con sombrero, copricapo basso di paglia. Entrambe indossano una lunga tunica e portano un mantello sulle spalle e sono data- bili tra l’XI secolo e il VI secolo a.C. Infine un altro costume, ricavato in una fase successiva da un altro bronzetto, mostra sempre una figura femminile relativa alla scultura definita, “La libagione”4, dove il personaggio tiene in mano una ciotola. La statuina è alta 12.5 cm, proviene da un nuraghe in località Funtana Padenti di Bacchi o Selene (per questo chiamata anche la “Sacerdotessa di Selene”), presso Lanusei, ed è conservata al museo di Cagliari. La lunga veste fa pensare appunto ad una sacerdotessa o ad una aristocratica. La ciotola contiene certamente un liquido, perché non si notano oggetti all’interno6. Anche in questo caso la figura indossa un copricapo conico alto la cui tesa, nella rappresentazione della piccola scultura, è andata perduta.

È utile dunque soffermarsi sull’elemento di rilievo che sembra connotare maggiormente l’identificazione dei soggetti quali streghe, fattucchiere, maghe o sacerdotesse: il cappello a punta. L’indumento di per sé non ha niente di speciale se non quello, come detto, di mostrare la moda del tempo, legata ai materiali ed ai costumi del mondo contadino, in generale, anche se la forma allungata diventa utile per sottolineare l’autorevolezza della figura. Molte infatti le immagini di re, sacerdoti, faraoni, e figure importanti che dall’Egitto al Medioriente, alle culture italiche e alla Grecia, fino all’Europa centro settentrionale, vengono mostrate con cappelli allungati e conici, che avevano semplicemente la capacità di sottolineare il rango elevato del personaggio rendendolo visivamente più alto ed imponente. Già a partire dall’Età del Bronzo –

3.000 a.C. si ritrovano importanti testimonianze, come quella costituita dai quattro cappelli d’oro7, ritrovati in varie località dell’Europa Centro-Settentrionale: Svezia, Germania, Francia, Svizzera. La loro funzione, e soprattutto quella dei loro possessori, è incerta, forse relativa a pratiche religiose, magiche, curative o di comando, o ancor più legate ad una qualche sorta di culto astronomico. O tutte queste messe assieme, visti i tempi, come era ben sintetizzato dallo stesso copricapo dei faraoni8: quello bianco a forma conica allungata proprio del regno del Basso Egitto (Hedjet), integrato poi con quello rosso a forma di cono tronco rovesciato dell’Alto Egitto (Deshert), dando la corona raggruppante i due regni e nota a tutti (Pa Skemet). Nel restare in tema di copricapi, un ulteriore esempio arriva dai Musei Vaticani ove è conservata la statuetta di un aruspice, figura divinatoria che consultava le interiora degli animali, il fegato in particolare, servendosi spesso di modelli di riferimento (noto quello denominato fegato di Piacenza) [Fig. 2] per le varie simbologie da interpretare. L’aruspice indossa un berretto conico allungato, legato sotto il mento. Lo stesso che indossa la rappresentazione di Tage (o Tagete, divinità citata nella seconda parte) – in una moneta etrusca.1

Fegato di Piacenza
Figura 2 – Fegato di Piacenza

A questo punto si rende utile un’ultima incursione etimologica in relazione alla parola fattucchiera. Questa deriva etimologicamente dal latino fatum (destino, fortuna), o da fatto, nel senso di qualcosa di agito in risposta ad una richiesta (fattura, incantesimo).9 In questo la parola assume due diversi aspetti: quello divinatorio, in relazione alla conoscenza del destino, e quello più pratico dell’azione esperita per risolvere un bisogno. Fra animali sacri e bastoni magici, cappelli e proprietà divinatorie, il quadro finale è quello di un mondo rappresentato nella realtà quotidiana da miti e credenze che restituiscono un panorama generale, per la cultura occidentale, strettamente collegato fra le diverse località, lungo assi temporali sostanzialmente lontani, ma che restituiscono un’uniformità di saperi e pratiche relativi alla cura e all’assistenza, in cui il serpente ed i simboli ad esso correlati svolgono una funzione quasi di unità e condivisione, veicolando lo sviluppo e la crescita di luoghi preposti alla cura e all’assistenza: templi, chiese, ospedali, e mostrando un mondo di personaggi, a latere delle conoscenze e delle figure sanitarie esistenti, ma interne alla comunità di appartenenza. Maghe, sacerdotesse e fattucchiere (come non pensare anche al mito di Circe) che offrono pozioni o semplicemente acqua, rimandano a contesti in cui empirismo e pratiche apprese per imitazione, presenza sul territorio e legami comunitari assolvevano a molti bisogni sanitari che i discepoli di Ippocrate, semplicemente sul piano quantitativo, non riuscivano a coprire, anche considerando l’organizzazione – se così si può dire – sanitaria del tempo e delle varie prestazioni ed interventi ad essa connesse. Il mondo antico, le sue testimonianze artistiche e i suoi manufatti, ma non solo, restituiscono quindi un tessuto indefinito di figure che sotto nomi, spesso usati in senso dispregiativo, sopperivano in una qualche misura alle esigenze sociosanitarie della comunità: streghe e aruspici, benandanti e medegùn (propri della tradizione dell’Italia Settentrionale) o, in epoca molto più recente, guaritori vari e ciarlatani di ogni sorta. Difficile non pensare al film di Mario Monicelli del 1957: “Il medico e lo stregone”, con De Sica, Mastroianni, Merlini e Sordi. Sul piano antropologico riecheggiano le tesi di Arthur Kleinman10 sui sistemi di salute in cui la dimensione professional (propria della formazione scientifica, dei sistemi sanitari organizzati, etc.) assolve all’incirca ad un 20% dei fabbisogni di salute, mentre la parte maggiore è sostenuta dalla dimensione popular (quella delle conoscenze e delle abitudini diffuse, attorno al 65 – 75%) e da quella folk, (stretta fra tradizione e trascendenza per un 5 – 15%).

Ippocrate stesso sottolineerà nel suo Sul male sacro, come maghi, ciarlatani, impostori e purificatori vari, non siano altro che diverse figure accomunate dalla stessa ignoranza sulla natura e la cura delle malattie, e lo stesso Co- dice di Hammurabi, mostra il bisogno di normare la pratica, ancor prima dei saperi, specificando non tanto chi possa esercitare l’arte medica, quanto come punire chi la pratica abusiva- mente. Al di là di qualsiasi considerazione, non si può non sottolineare l’importanza che queste figure “grigie” hanno avuto nella storia sociale e sanitaria dell’umanità. Quando non appartenenti al mondo dell’inganno e della truffa, molto spesso erano nei fatti delle guaritrici o delle erbuarie, ostetriche o nutrici, infermiere (nell’accezione ampia del termine) o semplici badanti, inserite nei contesti comunitari di cura e di assistenza, anche se in non pochi casi potevano trasformarsi in capro espiatorio cui scaricare la responsabilità di avversità varie (es. una gravidanza non andata a buon fine), e ne pagavano con la vita. Riandare con la memoria alla caccia alle streghe aiuta. Andare ulteriormente a ritroso alla figura – di cui si è parlato in altri lavori – di Ipazia è sicuramente un doveroso richiamo, ma a dover rappresentare un mondo sanitario “altro” la cui storia deve ancora essere degnamente ricostruita, forse ci può essere utile un’ultima immagine: quella di Teoride di Lemno;11 sacerdotessa accusata di stregoneria da Demostene, ed anche del reato peggiore di sobillare gli schiavi, per aver insegnato loro ad ingannare i padroni12. Fu messa a morte in Atene attorno al 328 a.C.

Bibliografia

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