Il segreto professionale nella tutela del diritto di scelta della minorenne in caso di gravidanza voluta

Professioni sanitarie

Daniela Iacopini, Andrea Recchioni, Marta Valentini
Asur Marche, Area Vasta n.4 – Fermo, UOS Consultorio Familiare

Quesito: Minorenne di 16 anni in stato di gravidanza, che non intende ricorrere all’IVG e non vuole riferire il suo stato alla famiglia: lo specialista che tratta il caso (assistente sociale, psicologo, ostetrica) ha l’obbligo di comunicare la situazione di detta minore agli esercenti la responsabilità genitoriale o al tutore?

Risposta sintetica: La risposta al quesito è senz’altro negativa: lo specialista non deve derogare all’obbligo del segreto professionale (cfr. art. 622 c.p.).

Trattazione

In riferimento al quesito va subito precisato che il committente (la minore) è portatrice di diritti che vanno tutelati con assoluta priorità e precedenza. Nel contempo, sempre in merito al caso specifico, non sussiste il presupposto di ledere un diritto dei genitori esercenti la responsabilità genitoriale o di altro soggetto tutorio. In fatto e in diritto: se la minore può procedere all’ivg senza nulla dire ai genitori/tutore previa autorizzazione del giudice tutelare adito, tanto più è garantito dalla normativa vigente il suo diritto a tacere il proprio stato nel caso in cui esprima liberamente e consapevolmente la sua volontà di proseguire la gravidanza a termine.

Rispetto al fatto di non dire, la famiglia cosa farebbe? Proibirebbe alla figlia la prosecuzione della gravidanza per farla abortire?

Espletata in via preliminare un’attenta valutazione dei motivi sottesi al rifiuto di comunicare l’importante situazione e la relativa decisione negatoria, esclusa la potenziale sussistenza di elementi di pregiudizio per il benessere psico-fisico della minore successiva alla rivelazione ai familiari, lo specialista procederà certamente a sensibilizzare la minore in ordine al coinvolgimento/condivisione dei familiari rispetto alle esigenze che la nuova condizione richiede; soprattutto nel caso in cui la ragazza conviva e coabiti con i propri genitori. Peraltro, nel corso del colloquio, lo specialista evidenzierà che si tratterebbe in buona sostanza di un segreto aleatorio, dal momento che i suoi genitori saranno comunque soggetti protagonisti nella vicenda in quanto dotati di legittimazione processuale attiva. Sul punto la ragazza, in quanto minorenne, dovrà avere contezza che lei non potrà esercitare la funzione genitoriale con il nascituro, che invece sarà delegata ai nonni fino al compimento della sua maggiore età.

Questo anche perché i suoi genitori vivranno una situazione di incertezza e saranno oggetto di indagine da parte del Tribunale per i minorenni e dei Servizi; gli stessi infatti potrebbero apparire carenti nell’esercizio della funzione genitoriale. Esattamente: manca un adeguato spazio di dialogo e di apertura confidenziale con la figlia.

Se la ragazza è minore di dodici anni interviene la necessità di valutarne la capacità di discernimento, prevista dalla norma, unitamente al suo stato psico-emotivo.

Argomentazioni

La trattazione sopra esposta trae fondamento e legittimazione dai seguenti presupposti giuridici e deontologici.

L’ordinamento giuridico italiano riconosce il minore come soggetto di diritti e di doveri suoi propri, esercitabili anche nei confronti dei genitori. Tali diritti vengono stabiliti esplicitamente o desunti da una copiosa normativa interna ed internazionale. La stessa riconosce il fanciullo come titolare dell’esercizio di una propria soggettività giuridica, che va garantita e protetta in considerazione del suo superiore interesse, anche nell’ambito delle relazioni familiari e sociali. Il minore è infatti portatore di un interesse prevalente in ogni procedimento che lo riguardi (cfr. art. 3, Legge 176/91, Ratifica della Convenzione sui diritti del Fanciullo, fatta a New York il 20/11/1989; art. 24, § 2, Carta dei Diritti Fondamentali Unione Europea del 2000). Ciò in quanto la responsabilità genitoriale si configura come un diritto solo in quanto funzionale a garantire il benessere psico-fisico del figlio, con l’eventuale collaborazione tra la magistratura minorile ed i servizi socio-sanitari territoriali (cfr. art.316 c.c. “Entrambi i genitori hanno la responsabilità genitoriale che è esercitata di comune accordo tenendo conto delle capacità, delle inclinazioni naturali e delle ispirazioni del figlio”.

Il riconoscimento di diritti e doveri e la posizione di alterità del minore racchiudono la garanzia di speciali protezioni e tutele, quali quelle statuite anche dalle Leggi 431/67 e 184/83, integrate con la Legge 149/01, sul riconoscimento del diritto ad avere una famiglia, anche adottiva. Il principio cardine è dato dall’art.3 Cost., che è legato all’art.2 dalla concreta applicazione degli inviolabili diritti dell’uomo, dove la dignità prescinde dall’età del soggetto, come pure importanti sono i richiami all’art.30 sul ruolo dei figli minori all’interno della famiglia, e all’art.31 co.2 relativo alla protezione della maternità, dell’infanzia e della gioventù.

In aggancio al dettato costituzionale, alla normativa italiana e ai princìpi internazionali delle Convenzioni ratificate dall’Italia, l’obiettivo è quello di porre al centro di ogni intervento, sempre e comunque, il superiore interesse del minore, interpretato come esigenza di tutelarne in ogni contesto il suo benessere fisico, psichico, sociale e la sua sana crescita evolutiva.

In tal senso è imprescindibile per lo specialista effettuare un intervento che contemperi un’attenzione multidimensionale e rapportata allo specifico contesto di vita hic et nunc della minore. Giocoforza gli deriva la necessità di dover tener in debito conto l’utente-situazione e la matrice relazionale cui afferisce. Per i genitori, infatti, la normativa prevede ruoli determinanti, in conformità all’art. 315 bis c.c., rubricato “Diritti e doveri del figlio”, che enuncia il principio secondo il quale “Il figlio ha diritto di essere mantenuto, educato, istruito e assistito moralmente dai genitori,nel rispetto delle sue capacità, dellesue inclinazioni naturali e delle sue aspirazioni”. In base a tale norma, il genitore è tenuto ad assistere moralmente la minore in tutto il suo percorso di scelta e autodeterminazione consapevole rispetto alla prosecuzione della gravidanza.

Per quanto attiene poi al segreto professionale va rimarcato l’imperativo categorico ascritto al professionista incaricato, dal momento che esso si configura come dovere, prima etico poi giuridico, di non rivelare in alcun modo notizie apprese in forza di un rapporto fiduciario che si è instaurato tra i Servizi e la minore. Le motivazioni che sorreggono tale segreto si basano su valori che prescindono dalla legge, cioè non hanno la necessità di essere confermati da questa, ma trovano riconoscimento nella priorità a loro conferita rispetto al diritto; nel caso di conflitto tra etica e diritto positivo viene riaffermato il valore dell’etica. La riservatezza, pertanto, non è solo un obbligo che deriva dal segreto professionale stricto sensu, cioè giuridicamente protetto, ma è un modo di procedere con la necessaria discrezione nell’uso di informazioni. Si appalesa dunque in tutta la pregnanza del portato che la riservatezza può essere considerata un’estensione concettuale e teorica del segreto. A tale riguardo risultano di illuminante chiarezza i Codici deontologici dell’assistente sociale (artt. 23, 24, 26, 28) e dello psicologo (artt. 4, 11, 12, 14, 16,17, 31) che disciplinano l’esercizio di tale obbligo giuridico in capo alle rispettive figure professionali; derogando al quale s’incorre nella violazione di legge penalmente sanzionabile dall’art. 622 c.p., rubricato “Rivelazione di segreto professionale”, con integrazione della condotta punita dall’art. 326 c.p. nel caso di “Rivelazione ed utilizzazione di segreti di ufficio”.

Per contro non è opponibile il segreto d’ufficio tra pubblici dipendenti (tenuti entrambi al segreto) quando lo scambio di informazioni avviene per ragioni d’ufficio inerenti alla tutela del minore, in virtù dell’obbligo di una collaborazione di rete per il perseguimento di finalità di pubblico interesse di cui all’art.97 Cost. (principio di legalità e buona amministrazione). La finalità protettiva del minore costituisce così la “giusta causa” (art.622 c.p.) che rende legittima la rivelazione del segreto professionale e quindi la collaborazione di rete di chi ne è detentore (per esempio assistente sociale, psicologo, ostetrica, ecc.) con il servizio socio-sanitario per minori territorialmente competente.

Tenuto conto del rapporto tra tutela del segreto professionale e difesa della minore, quest’ultima prevale qualora dalla mancata rivelazione del segreto possa ragionevolmente derivare un danno alla salute psico-fisica della stessa (art.54 c.p.).

Nel caso specifico del quesito ab origine, lo specialista è tenuto a derogare dall’obbligo del segreto professionale di cui è depositario qualora si delinei un fondato sospetto di maltrattamenti intrafamiliari evidenziati dalla minore e/o da risultanze visibili (per esempio ecchimosi o lesioni). Tali maltrattamenti sostanzierebbero anche la ragione della non volontà della minore a comunicare ai genitori il suo stato di gravidanza. Per converso la riservatezza su fatti inerenti alla figlia minore (sua privacy, art.16 Legge 176/91) può essere opposta ai genitori, cui potrà essere negato l’accesso ad atti (Legge 241/90, integrata con le Leggi 15/05 e 124/15) contenuti nella cartella sociale, psicologica e ostetrico-sanitaria, allorquando, alla luce di una seria e concreta apprezzabilità di una loro condotta pregiudizievole alla minore, detti atti divengano oggetto di una relazione informativa alla Procura della Repubblica presso il Tribunale per i Minorenni o comunque siano richiesti dall’autorità giudiziaria procedente sul caso di specie. Nei casi in cui invece non si profilino le condizioni di cui sopra, lo specialista dovrà attentamente valutare in merito alla capacità di discernimento della minore stessa, al fine di decidere sulla vexata questio di cui alla premessa: riferire ai genitori/tutori oppure no?

La capacità di discernimento va intesa come la capacità del minore di elaborare autonomamente concetti, idee, di formulare opinioni proprie, di comprendere gli eventi e di autodeterminarsi in ordine alle proprie scelte esistenziali. In via generale tale capacità si considera acquisita dopo i dodici anni, ma non è certo escluso che minori ben più piccoli, anche di sei-otto anni, possano rappresentare validamente le proprie idee rispetto ai loro vissuti e bisogni emotivi ed affettivi. L’esistenza di tale capacità di discernimento non può quindi essere efficacemente verificata in astratto, ma solamente rapportandola all’ipotesi concreta, alla specifica scelta esistenziale da compiere (portare a termine la gravidanza), alla situazione soggettiva della minore, nonché al contesto ambientale di riferimento. L’autonomia della minore in questione nelle sue scelte esistenziali (diritto incoercibile ed insopprimibile) deve essere poi necessariamente raccordata alla responsabilità genitoriale, cioè al dovere/ diritto di mantenere, istruire ed educare i figli (art.30, co. 1, Cost.).

Sul punto è anche rilevante il riferimento al terzo comma dell’art. 315 bis c.c., secondo il quale “Il figlio minore che abbia compiuto gli anni dodici, e anche di età inferiore ove capace di discernimento, ha diritto di essere ascoltato in tutte le questioni e procedure che lo riguardano”. Tale disposizione introduce, con prospettiva nuova, l’obbligo dei genitori (come si è detto, tenuti al rispetto della sua personalità) di confrontarsi con il figlio ultradodicenne con riferimento alle questioni che lo riguardano, indicando così un criterio pedagogico cui essi devono attenersi nella relazione educativa con lo stesso, diretto a valorizzarne al massimo la persona.

Va tenuto conto così che la minore in parola possiede una capacità giuridica intesa come titolarità di diritti a lei riconosciuti dall’ordinamento giuridico italiano, ma che solo al raggiungimento della maggiore età ne potrà compiutamente disporre.

A completamento, la capacità di agire è invece “l’idoneità a compiere validamente atti giuridici che consentano al soggetto di acquisire ed esercitare diritti ed assumere ed adempiere obblighi” (Torrente A., Schlesinger P., Manuale di diritto privato, Giuffrè, Milano, 2017). In tale ottica si conferisce alla minore un giusto riconoscimento ad una sua partecipazione attiva ad un evento fondamentale della vita, come quello della maternità, pur confermando la necessità di un coinvolgimento genitoriale nella gestione al meglio della sua vicenda esistenziale. Nel più volte citato caso specifico il nodo problematico andrà sciolto da parte dello specialista consultoriale alla luce di quanto compiutamente emergerà dall’ascolto attento della minore. In caso di mancanza di presupposti per il silenzio, evidenzierà alla ragazza la necessità/utilità di rendere edotti i genitori cercandone ancora il suo parere favorevole lato sensu; permanendo il suo dissenso a riguardo, lo specialista dovrà opportunamente adire il giudice tutelare per la decisione finale. Nell’ipotesi contraria, che cioè sussistano e permangano elementi forti per non riferire ai genitori, nulla questio con la minore, ma procederà egualmente ad adire il GT perché si pronunci in merito.

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