Alberto Pellegrino
Sociologo
A sessant’anni dalla sua scomparsa ricordiamo Albert Camus, un autore fondamentale per tutta la civiltà occidentale, ha saputo comprendere la tragicità del Novecento con romanzi e opere filosofiche che descrivono la condizione dell’uomo e i turbamenti dell’animo umano di fronte a quell’assurdo definito un «divorzio tra l’uomo e la sua vita». “La nostra sola giustificazione – ha scritto Camus – è di parlare in nome di tutti coloro che non possono farlo”, di agire in nome della libertà e della giustizia sociale, proponendo la sfida sovversiva della rivolta intesa come imperativo morale: “Mi rivolto dunque siamo”, una trasformazione del “Cogito ergo sum” cartesiano, dove il “sono” è sostituito dal “siamo” per sottolineare la collegialità di una ribellione che trova la propria giustificazione nella solidarietà per opporsi all’assurdità della condizione umana. Camus è stato anche un importante drammaturgo e il suo teatro, oltre a rappresentare il Male e il Dolore del mondo, è percorso spesso dai fantasmi della follia liberati dal flusso delle passioni e dall’inconscio.
Il malinteso (Le malentendu)
È il primo dramma scritto da Camus nel 1944, nel quale l’autore affronta il tema dell’incomunicabilità e della paranoia che finiscono per incidere sul destino di tutti i personaggi che sono prigionieri del loro passato, che sono travolti da un presente senza speranza, perché non vi sono dei a cui rivolgersi per chiedere soccorso o giustizia. Marta persegue con perversa determinazione e senza possibilità di redenzione la realizzazione di un sogno e non si arresta nemmeno di fronte al delitto; la Madre ha un crudele rapporto con i figli e non esita a uccidere la sua stessa creatura; persino l’innocente Maria non trova la strada della salvezza di fronte al vecchio cameriere che ha assistito in silenzio allo svolgersi degli eventi, assumendo la veste simbolica di una presenza divina indifferente nei confronti dell’umanità. Come gli eroi di Kafka che sono travolti da un incomprensibile destino, Jan non riuscirà a sfuggire alla morte in questa terra piovosa e grigia, nella quale è ritornato per ristabilire antichi affetti. Alla fine tutti sono vittime delle “assurde” contraddizioni di questa storia: l’oscurità e la luce, il delitto e l’innocenza, il male e il bene, l’ingiustizia e la giustizia.
In un una piccola e imprecisata città della Boemia, la Madre e la figlia Marta gestiscono uno squallido albergo con l’aiuto di un Vecchio Domestico. Si tratta di una gestione crudele e terribile, perché uccidono e depredano uomini soli, ricchi e sconosciuti che hanno la sventura di essere loro ospiti. Omicidio dopo omicidio, le due donne hanno accumulato quel denaro che permetterà a Marta di andare a vivere in un paese in riva al mare, dove il sole cancellerà ogni peccato. Un giorno arriva nell’albergo uno straniero, che in realtà è Jan, il figlio e il fratello partito da ragazzo in cerca di fortuna e che adesso, diventato ricco, vuole fare una lieta sorpresa alla madre e alla sorella, rendendole partecipi del suo benessere. Per questo rimane in incognito, aspettando che la voce del sangue lo renda riconoscibile, ma questo non accade e Jan sarà l’ultima vittima delle due donne. E’ proprio Marta che, in modo freddo e distaccato, convince la madre a compiere l’ultimo delitto prima di cambiare vita. Nella sua stanza Jan è angosciato e pensa di andare via per tornare l’indomani e svelare la propria identità, ma Marta gli porta una tazza di tè con un forte sonnifero. L’uomo si addormenta e, poco dopo, Marta, la Madre e il Vecchio Domestico lo gettano in un vicino canale, che è stato macabra sepoltura per tutti i clienti della locanda. Il mattino seguente le due donne leggono il passaporto e si accorgono del terribile equivoco: il ricco cliente straniero è in realtà il loro figlio e fratello. La madre, disperata, si getta nelle stesse acque in cui ha fatto scomparire Jan. Marta, prima di suicidarsi, dice a Maria, la moglie di Jan venuta a cercarlo, come unica spiegazione del suo folle gesto che l’omicidio del fratello è stato solo “un malinteso” al pari della sua vita infelice. Di fronte a Maria che urla disperata in cerca di aiuto, il Vecchio Domestico finalmente parla e dice “No!”.
Questa terribile “tragedia moderna” può essere vista come uno psicodramma dove i personaggi preferiscono affidarsi alla menzogna invece che alla verità: all’origine della mostruosa catena di omicidi c’è forse un Padre che è scomparso senza sapere come e perché; ci sono Marta e la Madre che rappresentano la disperazione di vivere e la morte; l’innocente Maria incarna l’amore e la vita, ma è destinata a diventare la vittima di un orribile “malinteso; ci sono i sogni di Marta che scopre di avere inutilmente sacrificato la giovinezza all’egoismo insaziabile della Madre, per cui ha cercato nell’omicidio l’unica risposta alla sua folle strategia che sfocerà nel suicidio; c’è Jan arrivato per ricostruire un rapporto familiare, partendo da una menzogna; c’è infine il trionfo del Vecchio Domestico che, dopo avere riconosciuto Jan, con indifferente perfidia e con sadismo rivela alle due donne l’identità dello sconosciuto soltanto dopo il suo assassinio. Il rifiuto del Vecchio Domestico a dare un aiuto alla disperata Maria è il suggello di una tragedia equamente divisa tra la follia e la cieca banalità del male, nella quale i personaggi sono in balia di un’entità priva di sentimenti, di uno strumento del Fato che rappresenta il perfetto incontro con il Nulla.
Caligola (Caligula)
Questa tragedia, pubblicata nel 1945, è incentrata sul personaggio dell’imperatore romano Caligola, sul suo modo di concepire ed esercitare il potere secondo una visione del superuomo nietzschiano che si contamina con l’Assurdo. L’imperatore esercita un potere assoluto senza alcun controllo morale e legislativo, inseguendo il sogno di superare la dimensione del reale per arrivare a conquistare l’impossibile. In preda a una follia razionale, Caligola sceglie di agire secondo il suo capriccio, vuole primeggiare e dominare su tutti secondo una volontà di potenza fine a se stessa, senza proporre nuovi valori, senza creare nulla al di fuori della paura e dell’odio. Egli si considera come un assurdo superuomo che esercita il potere per godere di una libertà intesa come arbitrio, predazione, legge di un godimento senza limiti. Seduto sul trono imperiale, giudica, sentenzia e condanna, affonda nel sangue e nella violenza, finisce per essere travolto dalla noia di vivere e dai suoi delitti. Si autoproclama un dio, ma resta indifferente al popolo che soffre la fame; rimane insensibile di fronte a qualsiasi sciagura, insegue un sogno di felicità, vittima di una grottesca “anarchia” che a volte si colora di poesia. Dietro la sua follia si nasconde una logica lucida e spietata, con la quale cerca di spiegare i suoi tormenti e la vacuità dell’esistenza per concludere che si può trovare l’oblio e la libertà solo nella morte, pienamente consapevole che essa arriverà con i pugnali dei congiurati.
La vicenda ha inizio tre giorni dopo la morte di Drusilla, la sorella alla quale Caligola era legato da un amore incestuoso. L’imperatore sparisce dalla reggia e, quando fa ritorno, afferma di aver fatto una scoperta: “Gli uomini muoiono e non sono felici”. Decide allora di raggiungere l’impossibile: impossessarsi della luna, abolire le differenze tra il bene e il male, sconvolgere l’intero assetto statale. Comincia a comportarsi con estrema crudeltà: maltratta e perseguita i senatori, uccide i loro parenti, violenta le loro mogli, condanna a morte le persone senza una ragione, inventa assurde gare di poeti, decide di diventare un dio indossando le vesti della dea Venere. Caligola vara una eccentrica politica economica, facendo firmare a tutti coloro che sono benestanti un testamento in cui dichiarano erede universale lo Stato: quando l’erario avrà bisogno di denaro, sarà sufficiente uccidere un adeguato numero di persone e incamerarne le ricchezze. A causa della paura, dell’orrore e del malcontento i patrizi, guidati dal filosofo Cherea, decidono di ordire una congiura per uccidere il despota. Vicino all’imperatore rimane il giovane liberto Scipione pieno di odio verso l’imperatore per l’uccisione dei suoi genitori, ma anche pervaso d’amore per il ruolo di padre di Caligola nei suoi confronti. Accanto a Caligola c’è pure la sua antica amante Cesonia, la quale è ancora accecata dall’amore e si rende complice dei suoi assurdi comportamenti per poi finire vittima dell’imperatore che, preso nel vortice di una spirale autodistruttiva, prima strangola Cesonia, quindi si prepara al suo destino di morte per mano dei congiurati.
Quello che rimane al termine di questa tragedia è un senso di pietà per un personaggio che appare un mostro ma in realtà è un individuo spaccato in due: una parte odia l’altra e, solo con il sopraggiungere della morte, Caligola ritrova la propria unità, si libera dal peso opprimente del dolore, pone fine alla disperata ricerca di qualcosa di straordinario e d’impossibile da raggiungere, a una conquista che possa riempire il vuoto di un mondo abitato da esseri mediocri, governato dal caso e dall’ingiustizia, dall’odio contro colpevoli e innocenti. L’uomo più potente della terra scopre che l’unica libertà è nutrirsi del terrore e della sofferenza altrui e aspetta la morte per liberarsi di una vita inutile e senza senso. Camus ha definito il suo Caligola una “tragedia dell’intelligenza”, perché essa mette in luce il disperato tentativo di rivolta dell’uomo, che cerca la libertà assoluta e la conquista dell’impossibile. Lo psicanalista Massimo Recalcati scrive che questo sanguinario Caligola si trova al centro “di un odio inestinguibile, di una povertà di vita…La vita del grande imperatore appare ai suoi stessi occhi vuota come quella di un tronco essiccato. L’odio e la brama di potere cercano vanamente di compensare un grande vuoto inestinguibile”. E’ Caligola stesso a rivelarlo: “Non avrò la luna. Comincio ad avere paura. Ah, che abiezione, che schifo, che senso di vomito sentirsi crescere dentro quella stessa viltà e quell’impotenza che abbiano disprezzato negli altri. La viltà! Ma che importa? Nemmeno la paura dura tanto. Sto per ritrovare quel grande vuoto in cui l’anima si placa. Tu sei imperatore, il che è molto. Ma io non sono niente, il che è poco…Dicono che ho il cuore duro…Ma non è possibile che sia duro, perché al posto del cuore io non ho niente, nient’altro che un grande buco vuoto nel quale si agitano le ombre delle mie passioni”.
La commedia dei filosofi (L’improptu des philosophes)
È una breve pièce scritta intorno al 1947, pubblicata postuma e arrivata in Italia solo nel 2010. L’opera presenta un notevole valore storico, perché coglie il momento in cui Camus è in disaccordo con il gruppo degli esistenzialisti parigini, con il Partito comunista accusato di accettare supinamente il regime totalitario stalinista. La commedia è una pungente satira politica, un divertissement scritto nel segno dell’improvvisazione, spinto dall’urgenza dell’autore che sta maturando il suo distacco dall’Esistenzialismo, che dichiara la sua militanza socialista e libertaria. La commedia è interessante, perché mette in luce lo scontro tra due diverse concezioni della filosofia: da una parte c’è un filosofo accademico che indottrina con frasi altisonanti e con formule astratte uno sprovveduto credulone affascinato dalle sue miracolose teorie; dall’altra vi sono due donne che, con il loro senso pratico, cercano di opporsi a una follia filosofica che non trova rispondenza nella realtà.
La pièce racconta la storia del signor Vigna, sindaco e farmacista del paese, che vive con la moglie e la figlia Sofia, fidanzata con il giovane Melusino. In questo tranquillo ménage piccolo-borghese irrompe il Signor Nulla, un “sedicente filosofo, un matto fuggito dal manicomio”, il quale si presenta come il rispettabile e famoso autore di un libro che egli considera il “nuovo vangelo” di cui è il Messia. Egli sostiene che “nulla ha causa e tutto è caso”, perché il mondo è assurdo ed è assurdo perché non ha nessuna spiegazione e non ha nessuna spiegazione proprio perché è assurdo. Vigna rimane affascinato da questa “straordinaria” teoria e capisce che la sua nuova vita consisterà nel non fare più nulla per essere un credente ortodosso del vangelo enunciato dal Signor Nulla, il quale sostiene che “siamo sempre sulla via di essere liberi, ma che in verità non lo siamo affatto”. Quando Sofia annuncia al padre che vuole sposare Melusino, questi appare perplesso e, alla luce del nuovo vangelo, sentenzia che il giovane non è uno sposo valido, perché è stato troppo rispettoso e troppo educato, perché non ha approfittato della fidanzata mettendola incinta.
Deve pertanto entrare in azione, mostrare una forte volontà e sedurre la ragazza. Melusino si fa coraggio e inventa le peggiori azioni per poter sposare Sofia, ma Vigna non è soddisfatto e rimprovera il giovane di non avere un passato equivoco, di non aver commesso furti e adulteri. È grave, per esempio, che Melusino non abbia avuto nemmeno un figlio da una precedente relazione adulterina. “Se non c’è alcun bambino – dice Vigna – voi siete irresponsabile, e se siete irresponsabile non siete affatto impegnato, e se non siete impegnato non amate mia figlia: è evidente”. La vicenda si avvia alla soluzione con l’arrivo del direttore del manicomio che cerca il signor Nulla. Lo psichiatra mette al corrente il povero Vigna della follia del suo ospite e lo informa che non è un caso isolato, perché Parigi è piena di questi malati: “Vanno talmente matti per il patriottismo che appena c’è l’occasione diventano patrioti di due o tre paesi, si sbranano in nome della pace e promettono la galera in nome della libertà… I filosofi devono essere soli: un po’ come i lebbrosi, bisogna tenerli a una certa distanza. È così che la malattia giova a loro e non fa male a nessuno. È così che riescono a pensare con l’apparenza della ragione e finiscono per essere istruttivi per tutti”.