Violenza e Società – 3. Psicologia e Sociologia si contrappongono alle teorie sociobiologiche

Scienze umane

Sociologia e Psicologia social
Alberto Pellegrino
Sociologo

La sociologia e la psicologia sociale si contrappongono alla sociobiologia e alla psicanalisi freudiana, sostenendo che l’aggressività, pur presente nella natura umana, è un prodotto della cultura, per cui va controllata con opportune norme sociali e una continua educazione alla vita comunitaria.

In contrapposizione alle teorie sociobiologiche si sono schierati alcuni studiosi di psicologia, i quali rifiutano la tesi che l’aggressività sia per gli uomini una dotazione biologica immutabile di cui ogni generazione debba farsi carico. Al contrario, l’aggressività può esprimersi in forme diverse che vanno dalla volontà e dalla capacità di nuocere agli altri fino a comportamenti di altro valore sociale e morale.

La stessa etologia ha dimostrato che tra gli animali della stessa specie, quando un avversario soccombe, scattano dei meccanismi istintivi che bloccano l’aggressione nel momento in cui questa rischia di diventare mortale. Ci s’interroga sul perché questi meccanismi non siano presenti negli esseri umani che spesso non si fermano di fronte alla comune identità umana, allo stesso modo delle scimmie antropomorfe (gorilla, oranghi e scimpanzé), che fra i mammiferi condividono con l’uomo il maggiore livello di aggressività.

La capacità d’identificarsi con gli altri nasce primariamente dall’originario rapporto con la madre che si costituisce come primo gesto d’amore con il quale si entra in comunione con un altro da sé, riconosciuto come fonte di sicurezza e di vita. Questa fiducia basilare si allarga poi all’intera famiglia, ai gruppi sociali di appartenenza, ai livelli culturali acquisiti, alla comunità cittadina e nazionale. La famiglia, di qualsiasi tipo sia, svolge un ruolo fondamentale nel processo di socializzazione identificazione, ma non sempre essa è all’altezza dei suoi compiti, perché tra le pareti domestiche si verificano affetti morbosi, protezionismi castranti, coercizioni autoritarie, ricatti sentimentali che pesano sulle personalità più deboli. Contemporaneamente sulla famiglia premono gravi problemi che riguardano il lavoro, la condizione della donna, le difficoltà economiche, la carenza di strutture sociali, l’inadeguatezza del sistema scolastico, capaci di creare barriere di classe, tensioni distruttive, gravi confini sociali. Si può superare il determinismo biologico con “identificazioni profonde nell’ambito della famiglia, la caduta delle barriere tra i gruppi, la riduzione delle distanze sociali sino a un dialogo identificante tra pari. – scrive lo psicanalista Renzo Canestrari – Queste sono le condizioni perché l’animale-uomo senta risorgere dentro di sé l’istinto che difende dalla violenza mortale, perché l’aggressività prenda quella forma di dissenso, di critica che completa e arricchisce, che ora è privilegio di una minoranza fortunata”.

Il sociologo Luciano Gallino sostiene che non esistono una violenza “buona” e una violenza “cattiva”: si deve distinguere l’aggressione fisica esercitata dagli individui, da una minoranza dispotica o da un dittatore a danno di una maggioranza da quel minimo di violenza che lo Stato deve esercitare a difesa dei cittadini che gli ha conferito quest’autorità. Estendere il significato di aggressività a ogni atto di violenza produce una confusione d’idee e porta a una sostanziale equivalenza tra atti che la percezione comune considera da sempre intrinsecamente diversi come commettere un crimine o far rispettare una legge. Qualora si procedesse su questa strada, si arriverebbe a giustificare una logica e una morale della violenza e si potrebbe giungere a esonerare il criminale da ogni forma di coscienza morale, facendone un essere peggiore di quanto sia in realtà, privandolo di quei caratteri che lo rendono umano. Per affrontare il problema “basterebbe – scrive Luciano Gallino – ritornare a chiamare la violenza per ciò che è e per ciò che appare sempre alle vittime, un atto estremo di aggressione fisica in cui si esprimono gli aspetti peggiori della specie umana, al quale nessun tipo di sostegno morale dovrebbe essere fornito”.

Contro la sociobiologia prende posizione anche il sociologo Roberto Guiducci, secondo il quale il destino dell’uomo non è predeterminato dall’eredità del codice genetico e dalla gabbia d’istinti primari immodificabili che renderebbero l’aggressività e la prevaricazione delle “costanti” biologiche, mentre sono delle “variabili” storiche e sociali modificabili. La natura umana è divisa tra condizionamenti biologici e influssi culturali che determinano le forme di educazione e i processi di socializzazione. Alla nascita ogni essere umano ha le stesse possibilità, perché tutti sono identici, anche se possono manifestarsi in modo diverso: la diversità non è la causa delle disuguaglianze sociali, perché disuguaglianze e uguaglianze non sono concetti biologici ma storico-politico-sociali. Le differenze sono elementi positivi che producono società complesse e creative, ma le disuguaglianze sociali diventano negative quando provocano sfruttamento, alienazione, assenza di libertà e di giustizia sociale. Esse sono spesso all’origine della violenza e non devono essere considerate immutabili, proprio perché le differenze prevedono che ogni essere umano abbia una specifica personalità e delle possibilità creative legate alla sua vocazione. L’uguaglianza non significa appiattimento e livellamento; sono invece le disuguaglianze a sterilizzare molte differenze potenziali senza lasciarle sviluppare. “E’ l’uguaglianza – scrive Guiducci – che potrebbe evitare il livellamento dentro ogni classe e ogni strato…e consentire l’esplicazione delle differenze vocazionali senza bisogno di dar luogo a sfruttamento e oppressione di altri uomini. Senza uguaglianza, le differenze diventano disuguaglianze. Senza differenze, l’uguaglianza diventa livellamento”.

Frustrazione, imitazione ed empatia

Una teoria che si oppone a un’inevitabile correlazione tra natura umana e aggressività è quella basata sulla frustrazione: una persona è spinta ad agire in modo aggressivo perché indotta da una pulsione che deriva da una condizione determinata da ostacoli che impediscono all’individuo di raggiungere alcuni suoi fini. L’azione aggressiva può essere un modo per scaricare pulsioni negative prodotte dalla frustrazione, ma essa può provocare delle risposte non aggressive (fuga, pianto, apatia), senza contare che vi sono comportamenti aggressivi messi in atto in assenza di frustrazioni individuali.

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Tabella 1 – Sintesi della teoria della frustrazione

Alla teoria della frustrazione si collega quella dell’imitazione che è stata studiata per primo nel saggio La psicologia delle folle da Gustave Le Bon (1895), secondo il quale determinati fenomeni collettivi sono determinati dalla suggestione, che piò essere considerata una forma d’ipnosi collettiva. A sua volta Gabriel Tarde (1904) ha introdotto il principio d’imitazione che sarebbe in grado di governare il comportamento sociale in gruppi di vaste dimensioni. Entrambi questi studiosi ritengono che un individuo capace di razionalità e di censura delle proprie pulsioni negative, quando si trova in mezzo a una folla, perda il controllo e, attraverso l’imitazione e la suggestione, adotta dei comportamenti in risposta a determinati stimoli sociali. Una situazione collettiva avrebbe la capacità di inibire le facoltà critiche individuali, aprendo la strada a reazioni antisociali e rendendo le persone facilmente manipolabili da un individuo con particolari doti carismatiche.

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Fig. 1 – AFC Formazione

A sua volta la teoria dell’apprendimento sociale ritiene che l’aggressività possa essere considerata un comportamento sociale che, al pari di altri comportamenti, sia acquisito e mantenuto a determinate condizioni. Ogni sentimento negativo può condurre all’aggressività, che è una delle risposte comprese in un repertorio individuare di possibilità e che diventa dominante in determinate condizioni, soprattutto quando un individuo associa uno stato d’animo negativo a una connotazione aggressiva vissuta in precedenti esperienze. I comportamenti possono pertanto avere degli esiti positivi o negativi quando sono stati appresi attraverso l’esperienza diretta soprattutto durante il periodo della prima socializzazione, quando i bambini che reagiscono a determinati stimoli in modo positivo e negativo.

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Fig. 2 – Maurizio Dal Santo

Questa teoria lascia aperti degli interrogativi sugli effetti imputabili ai messaggi dei mass media che sono basati sulla violenza. Le ricerche hanno finora dimostrato che esiste che può esservi una relazione tra l’esposizione a messaggi violenti e il livello di aggressività manifestato, ma non si è ancora appurato se sono le persone aggressive a preferire programmi violenti o sono questi programmi a causare comportamenti imitativi. Probabilmente i due fenomeni non si escludono, perché il recettore non è un soggetto totalmente passivo: egli interpreta i contenuti dei messaggi e li mette in relazione con le conoscenze organizzate nella sua memoria, con i comportamenti che ha attuato in precedenti esperienze con le conseguenze che essi hanno provocato. Su questa base si può ipotizzare che i messaggi a contenuto violento possano provocare un’attivazione emozionale e una conseguente risposta aggressiva in quelle persone che hanno tenuto in passato comportamenti dello stesso genere, ottenendone dei risultati positivi. Quest’associazione tra emozione e risposta comportamentale, presente nella memoria di un individuo, può risultare determinante, quando lo spettatore s’identifica con il personaggio violento, quando le conseguenze del comportamento violento appaiono trascurabili, quando il messaggio violento è caratterizzato da una forte dose di realismo.

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Fig.3 – Intelligenza emotiva

Secondo molti studi si può ipotizzare una connessione tra aggressività ed empatia, intesa come la capacità innata di ogni essere umano di comprendere i sentimenti di un’altra persona e di far nascere la volontà di aiutare chi si trova in difficoltà. Si ritiene, pertanto, che i comportamenti violenti e antisociali sarebbero determinati da una mancanza di empatia, che intacca i valori morali e il senso di responsabilità degli individui. L’attivazione empatica sarebbe associata a un processo cognitivo secondo il quale l’osservatore riesce a cogliere i vari aspetti della situazione e decide di intervenire in aiuto di una persona ha che si trovare in difficoltà. L’insorgere del sentimento empatico è facilitato quando le persone percepiscono una somiglianza o un’appartenenza allo stesso gruppo sociale. In ogni caso l’osservazione della sofferenza altrui può provocare due tipi diversi di emozione empatica: quando si prova un disagio personale, per cui il comportamento empatico non è frutto di puro altruismo, ma è motivato dalla necessità di rimuovere questo disagio, che può essere anche rimosso per mezzo della fuga per evitare una determinata situazione; quando esiste una reale preoccupazione per la sorte di un altro individuo, per cui in questo caso la persona mostra una vera capacità empatica unita al senso di appartenenza a una condivisa comunità sociale.

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Fig.4. Violenti si nasce o si diventa? (Donna Moderna)

 

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