Come navigare nella nostra sanità di oggi – Qualche suggerimento per una rotta migliore

Francesco Di Stanislao, Claudio Maria Maffei

Prof. Claudio Maria Maffei Prof. Francesco Di Stanislao Dipartimento di Scienze Biomediche e Sanità Pubblica, Sezione Igiene Facoltà di Medicina e Chirurgia, Università Politecnica delle Marche

 

Una bussola per navigare nel mondo della sanità, una guida basata sulle riflessioni di due illuminati conoscitori del Sistema, intorno ad alcune “espressioni” ricorrenti nel campo del prendersi cura, I principi fondamentali del Sistema Sanitario Nazionale, i Livelli minimi di Assistenza, il budget, le Integrazioni,  i Percorsi Diagnostici Terapeutici Assistenziali (PDTA), la cronicità ed il prendersi cura, l’appropriatezza e l’accreditamento. Concetti essenziali per chi è medico o si appresta ad esserlo.

Premessa

Non c’è alcun dubbio che nella valigetta del medico neolaureato gli strumenti clinici siano quelli fonda- mentali. La capacità di fare una diagnosi tempestiva nei confronti delle situazioni cliniche più comuni con un ricorso selettivo ed appropriato ai test diagnostici e la capacità di orientarsi sui migliori trattamenti possibili nelle stesse situazioni costituiscono l’armamentario di base del medico. Sono queste le sue technical skills, quelle che i cittadini si aspettano in primis da lui. Ma queste competenze non bastano da sole per una buona pratica professionale. Servono anche quelle che vengono chiamate le non technical skills, quelle che hanno a che vedere ad esempio con la comunicazione col paziente ed i suoi familiari, ma anche con la comunicazione con gli altri professionisti della sanità.  E  su questo vi vorremmo aiutare. Per farlo procederemo in questo modo. Cominceremo con un raccontino su tante espressioni che vi capiterà di ascoltare frequentando le strutture sanitarie pubbliche e poi su quelle espressioni cercheremo  di  aiutarvi a capire cosa vogliono dire e perchè sono così importanti. Non vi daremo tanto un glossario, quanto un nostro modo di interpretare (con semplicità e in modo informale) queste espressioni nella speranza che vi possa aiutare a capire prima e meglio il mondo della sanità di oggi. Attenzione: la scelta di fondare il racconto su esperienze dentro le strutture pubbliche è solo una scelta di comodità (sono quelle che conosciamo meglio!)

Il racconto da cui partiamo

Due giovani medici freschi di laurea ( Enrica e Giovanni) si scambiano alcune impressioni sui loro primi giorni di esperienza come “frequentatori” di un ospedale (Enrica) e di un distretto (Giovanni). Evidenzieremo in grassetto alcuni termini del loro racconto perché è su quello che cercheremo di aiutarvi a chiarire ed approfondire.

Enrica (E): Che stress questi primi giorni in ospedale. Ci sono cose che davvero ho difficoltà a capire!
Giovanni (G): Casi difficili?
E: No, non quelli. I colleghi sono bravi e pazienti. Solo che in ospedale c’è un mondo di cose che quando sei studente nemmeno ti immagini.
G: Tipo?
E: Tipo il budget. Tu sai cos’è? Oggi il primario (lo chiamo così anche se oggi andrebbe chiamato direttore di SOC, pensa te) era nervosissimo. Lunedì c’è la discussione di budget e lui ancora doveva vedere le schede!
G: Anche al distretto è la stessa cosa. Loro la riunione di budget l’hanno già avuta, ma hanno problemi enormi con gli obiettivi rispetto alla continuità ospedale-territorio. Anzi volevo chiedere a te se ne sapevi qualcosa!
E: Qualcosa ho capito. Dovrebbero essere questioni legate ai PDTA (almeno credo so scriva così: loro parlano di “pi di ti a”) in comune tra ospedale e territorio…
G: Questa dei PDTA l’ho sentita anche io. Al mio distretto hanno dato un obiettivo su quello delle demenze. Hanno parlato, se non ho capito male, di sperimentare forme di integrazione più avanzate.
E: Una cosa è chiara: l’ospedale ed il territorio non sono poi quei mondi distinti che credevo. Cioè …non dovrebbero almeno.
G: L’altro giorno ho parlato con il Direttore di distretto, un tipo sveglio, che mi ha parlato della cronicità come problema di salute prioritario e della fondamentale importanza della presa in carico (l’ha chiamata così). Sostiene anche che se venisse attuata ridurrebbe anche le liste di attesa…
E: Invece qui in ospedale hanno la fissa della appropriatezza. Dicono che se il medico di medicina generale prescrivesse meglio le liste di attesa si ridurrebbero molto.
G: Pensa un po’: a me dicono che sono gli specialisti ospedalieri ad avere problemi di appropriatezza quando prescrivono i farmaci e aggiungono che le reti ospedaliere non funzionano.
E: Vedrai che alla fine i problemi stanno un po’ dappertutto sia in ospedale che sul territorio. A un convegno in ospedale avrò sentito dieci volte che una maggiore integrazione tra i due livelli sarebbe un vantaggio per tutti. Ad avvantaggiarsene sarebbero i pazienti.
G: E tu hai capito cosa sono i LEA? Qua tutti ne parlano come se fosse chiaro a tutti di che si tratta.
E: Io ne so poco. Sarebbero ( credo) i Livelli Essenziali di Assistenza. Ma cosa voglia dire in pratica non l’ho capito, sono sincera!
G: Al distretto dicono che se non assumono più i LEA non verranno più garantiti e verrà dato tutto in mano al privato! Secondo il primario sono addirittura in discussione i principi fondanti del Servizio Sanitario Nazionale.
G: Mi sa che su questo ospedale e territorio sono già d’accordo. Che ti devo dire: speriamo bene!
E. Per finire senti l’ultima: il primario ha detto che basterebbe utilizzare come guida l’accreditamento e le cose quasi si aggiusterebbero. Accreditamento? Ho sentito qualcosa a lezione di Igiene …
G. Hai ragione: Di Stanislao c’aveva la fissa con l’accreditamento! Magari mi riguardo gli appunti.

I principi fondanti del Servizio Sanitario Nazionale (rileggeteli e difendeteli)

I concetti che guidarono la stesura della L.833/78 (la prima grande riforma sanitaria che l’anno scorso ha compiuto 40 anni) furono:
1. la salute come bene collettivo: la tutela della salute smette di essere qualcosa che cittadini e famiglie perseguono individualmente in base alle loro possibilità, ma un valore che la società nel suo complesso persegue;
2. universalità: tutti cittadini hanno il diritto di accedere alle prestazioni ed alle prestazioni del SSN;
3. solidarietà: il finanziamento del Servizio Sanitario Nazionale (SSN) deriva dalla fiscalità generale. Con le tasse i cittadini che hanno di più contribuiscono a dare accesso alla sanità a chi ha di meno;
4. unitarietà: un solo “Ente” erogatore, e cioè il Servizio Sanitario Nazionale, appunto;
5. globalità: la salute è una, ma si promuove attraverso interventi a livello preventivo, diagnostico, curativo e riabilitativo;
6. organizzazione territoriale: i servizi vengono erogati dalle Unità Sanitarie Locali la cui articolazione e regolamentazione viene definita dalle rispettive Regioni;
7. partecipazione: le Unità Sanitarie Locali non solo vengono gestite dalla politica locale (partecipazione politica) espressione delle comunità che la elegge, ma debbono anche garantire la partecipazione dei cittadini in modo che gli stessi possano avanzare proposte e formulare pareri e osservazioni. E’ anche prevista la partecipazione dei tecnici sia a livello di Unità Sanitaria Locale che di Regione;
8. programmazione: viene prevista la predisposizione periodica di Piani Sanitari Nazionali e Regionali;
9. centralità delle cure primarie: nascono i distretti sanitari di base. Del resto non a caso il 1978 è anche l’anno della dichiarazione di Alma Ata sulle cure primarie fatta dall’OMS;
10. centralità delle prevenzione: mai come in quegli anni si parla di educazione sanitaria. Nascono poi nuovi servizi ad orientamento preventivo come i consultori ed i servizi di medicina del lavoro.

Riletti oggi questi principi sembrano scontati. Ma al tempo non lo erano e a tutt’oggi non lo sono. Prima della approvazione della Legge le prestazioni accessibili ai cittadini erano diverse a seconda della loro mutua di appartenenza, gli ospedali avevano amministrazioni a parte, alcuni servizi erano dei Comuni, altri dipendevano dalle Province (ad esempio i manicomi)… In definitiva, il sistema era parcellizzato, disomogeneo sia quanto a distribuzione territoriale dei servizi che a livelli di assistenza garantiti a ciascun cittadino e non governabile con una logica unitaria. Ma i due punti forti erano e rimangono la universalità della copertura e la solidarietà alla base di questa copertura. Se in tante classifiche il sistema sanitario italiano rimane ai primi posti (purtroppo in alcune ha perso posizioni) lo si deve proprio a queste due caratteristiche.

Cosa sopravvive oggi della Legge 833/1978? Verrebbe da dire tutto. In effetti i principi ispiratori rimangono tutti validi. Quello che nel tempo è cambiato e continuerà a cambiare sono alcuni “strumenti” e alcune regole del gioco. A noi piace ricordare l’aforisma dei nani e dei giganti, secondo il quale coloro che ci hanno preceduto sono dei giganti e noi siamo solo dei nani che sediamo sulle loro spalle, ma proprio per questo noi riusciamo a vedere più lontano di loro (“Dicebat Bernardus Carnotensis nos esse quasi nanos gigantium humeris insidentes, ut possim plura eis et remotiora videre, non utique proprii visus acumine aut eminentia corporis, sed quia in altum subvehimur et extollimur magnitudine gigantea”). E poi dicono che il latino è una lingua morta.

Ma che sarebbero i Livelli Essen- ziali di Assistenza?

Potremmo definire i Livelli Essenziali di Assistenza come: l’insieme di servizi e prestazioni che i cittadini hanno il diritto di richiedere ai loro Servizi Sanitari Regionali e che questi hanno il dovere di erogare. Da adesso in poi li chiameremo LEA, come li chiamano tutti. I LEA sono stati definiti da due Decreti, di cui uno risale al 2001 e l’altro all’inizio del 2017, che è quello attualmente in vigore. La conoscenza di questi documenti è ovviamente fondamentale per capire il funzionamento del sistema sanitario, ma è ostacolata dal gergo molto tecnico con cui sono redatti.

Scorrendo l’ultimo decreto, per chi non l’avesse mai visto, si rimane davvero impressionati da quanto viene offerto ai cittadini dal Servizio Sanitario Nazionale. Magari non tutto, ma certo tanto. Basta scorrere l’elenco dei “capitoli” del decreto per rendersene conto. Le aree coperte dai LEA sono tre e vediamo rapidamente un po’ quello che c’è dentro: la prevenzione collettiva e sanità pubblica, che comprende tutte le attività di prevenzione rivolte alle collettività ed ai singoli, tra cui ad esempio:
– sorveglianza, prevenzione e con-
trollo delle malattie infettive e parassitarie, inclusi i programmi vaccinali;
– sorveglianza, prevenzione e tutela della salute e sicurezza sui luoghi di lavoro;

– sicurezza alimentare e tutela della salute dei consumatori;
– sorveglianza e prevenzione delle malattie croniche, inclusi la promozione di stili di vita sani ed i programmi organizzati di screening; sorveglianza e prevenzione nutrizionale;
l’assistenza distrettuale, vale a dire le attività e i servizi sanitari e socio-sanitari diffusi sul territorio, che ricomprende tra l’altro:
– l’assistenza sanitaria di base;
– l’emergenza sanitaria territoriale; l’assistenza sociosanitaria domiciliare e territoriale;
– l’assistenza sociosanitaria residenziale e semiresidenziale.
– l’assistenza ospedaliera, articolata ad esempio nelle seguenti attività: pronto soccorso;
– ricovero ordinario per acuti, day surgery e day hospital;
– riabilitazione e lungodegenza post-acuzie.
Il nuovo decreto fra l’altro allarga il repertorio di prestazioni e servizi del primo decreto. Ad esempio si inseriscono nella specialistica prestazioni tecnologicamente avanzate, si declinano meglio le aree di attività per i servizi non meramente prestazionali (e quindi con compiti anche educativi e informativi) come i consultori, si articolano per livelli di complessità alcune tipologie di attività come quelle di assistenza domiciliare e si allargano le patologie per le quali si prevedono esenzioni dalla spesa.
Insomma, l’impegno che il Servizio Sanitario Nazionale si prende è davvero importante e occorre il contributo di tutti perché ci riesca. Sono pochi i paesi al mondo che hanno una visione così ambiziosa della tutela della salute.

Il budget in sanità

Ormai da tanti anni le Aziende Sanitarie gestiscono un processo di budget con il quale concordano con i Direttori di Dipartimento obiettivi e risorse per l’anno di riferimento. La discussione avviene di solito all’inizio dell’anno e prevede la predisposizione prima e la sottoscrizione poi di schede che hanno sia una parte economica che una parte dai contenuti più sanitari. Poi i Direttori di Dipartimento coinvolgono i responsabili delle diverse unità operative che fanno parte del Comitato di quel Dipartimento. Al processo partecipano con un ruolo attivo i rappresentanti di tutte le professioni.

Ma è una buona cosa oppure no questa logica di tipo “aziendale” in un settore come quello della sanità? Assolutamente si (almeno in linea di principio) perché è solo lavorando così che da una parte si rispettano i vincoli economici (che ci sono e non se ne può prescindere) e dall’altra (cosa ancor più importante) si migliora la qualità dei servizi. In un processo di budget ben gestito si definiscono gli obiettivi e i sistemi di monitoraggio del loro raggiungimento. A guadagnarne saranno i pazienti se tutto viene fatto “come si deve”. Una banalità che ognuno di noi si è sentito dire tante volte è: “la salute non ha un prezzo, ma ha un costo”. E’ proprio vero, ma questo non vuol dire togliere centralità alle competenze sanitarie, ma metterle in una giusta prospettiva, una prospettiva che coniuga gli obiettivi di salute con i problemi di sostenibilità economica del sistema sanitario.

La integrazione, anzi le integrazioni: perché sono così importanti?

Il concetto di integrazione rappresenta uno degli obiettivi fondamentali delle innovazioni organizzative portate avanti in questi ultimi decenni da tutte le aziende produttrici di beni e servizi.
Sul versante dei servizi per la salute l’obiettivo è quello di orientarsi verso la logica della cosiddetta integrated care, per ridurre la frammentazione dell’erogazione dell’assistenza e favorire la continuità dell’assistenza creando connettività, allineamento e collaborazione entro e tra le diverse istituzioni sanitarie e socio-sanitarie al fine di migliorare la qualità dell’assistenza e della vita dei pazienti, l’efficienza del sistema e la soddisfazione dei pazienti con problemi complessi che utilizzano/ attraversano la rete dei servizi, che spesso coinvolgono professionisti e livelli operativi differenti.
L’autorevole European Social Network Conference indica che l’assistenza integrata cerca di colmare la tradizionale divisione tra assistenza sanitaria e sociale, in modo tale che si possa:

– affrontare il cambiamento della domanda di assistenza derivanti dall’invecchiamento della popolazione;
– offrire un’assistenza che è centrata sulla persona, riconoscendo che gli esiti dell’assistenza sanitaria e sociale sono interdipendenti;
– facilitare l’integrazione sociale dei gruppi più vulnerabili della società attraverso un migliore accesso ai servizi della comunità flessibili;
– portare ad una migliore efficienza del sistema attraverso un migliore coordinamento dell’assistenza.

L’integrazione è a nostro avviso uno degli obiettivi prioritari del SSN che trova nelle reti cliniche e nei percorsi assistenziali logiche e strumenti ormai ineludibili nel governo e gestione di un sistema complesso quale quello della sanità. Reti e percorsi sono la traduzione organizzativa ed operativa del concetto di sistema e rappresentano le modalità per passare da un sistema di progetti intra/ inter-aziendali spesso virtuosi, ma sovente non coordinati tra loro, a un progetto di sistema in cui le parti in causa agiscono, dialogano, si confrontano intorno ai bisogni del paziente. E su questi due temi spen- diamo alcune righe per descriverne i quadri concettuali di riferimento.

Ma cosa sono PDTA e reti cliniche?

I percorsi assistenziali [Care Pathway; PDTA (Percorsi Diagnostici-Terapeutici-Assistenziali)] sono definiti dalla pure autorevole E-P-A org (European Pathway Association org) come interventi complessi per prendere decisioni ed organizzare in modo condiviso l’assistenza di un ben definito gruppo di pazienti in un intervallo di tempo precisato.

Le caratteristiche che definiscono i percorsi assistenziali sono:
1) la chiara esplicitazione degli obiettivi e degli elementi chiave dell’assistenza, basati su evidenze scientifiche, le migliori pratiche e le caratteristiche ed aspettative dei pazienti;
2) la facilitazione delle comunicazioni tra i membri del team multidisciplinare e multi-professionale, i pazienti e le loro famiglie;
3) l’organizzazione del processo assistenziale tramite il coordinamento dei ruoli e l’attuazione sequenziale delle attività dei team multidisciplinari di assistenza, dei pazienti e delle loro famiglie;
4) la documentazione, il monitoraggio e la valutazione degli esiti clinici e degli eventuali scostamenti dagli standard di appropriatezza fissati;
5) l’identificazione delle risorse appropriate (di appropriatezza torneremo a parlare tra poco) alla loro realizzazione sul campo.
L’obiettivo di un percorso assistenziale è quello di:
– migliorare la qualità delle cure attraverso un continuum assistenziale, finalizzato al miglioramento degli esiti aggiustati sul rischio specifico dei pazienti;
– promuovere la sicurezza dei pazienti;
– aumentare la soddisfazione dei pazienti;
– ottimizzare l’utilizzo delle risorse.
Sono tre i livelli concettuali di aggregazione e sviluppo dei percorsi assistenziali, che si caratterizzano per la progressiva specificazione e adattamento alle condizioni di ogni singolo paziente:

Model Pathway
Il percorso modello è il livello più aggregato e generale di PDTA. È basato sulle evidenze scientifiche internazionali che vengono selezionate da team di esperti ed organizzate in forma di percorso assistenziale non specifico per le organizzazioni locali. È un percorso ideale, disponibile ad essere adattato a livello locale;

Operational Pathway
Il percorso operativo viene sviluppato da un’organizzazione tenendo presenti sia le evidenze riportate nel Percorso Modello, sia le peculiarità organizzative locali (risorse, competenze disponibili, ecc.). È ancora un PDTA ideale (è costruito per un gruppo di pazienti ideali), ma è specifico per l’organizzazione che si occupa della sua implementazione;

Assigned Pathway
Il percorso assegnato è la contestualizzazione ai bisogni specifici di ogni singolo paziente del Percorso Operativo dell’organizzazione in cui al paziente si viene a trovare. È un percorso organizzazione specifico e personalizzato ed, in parte, è ancora un PDTA ideale in quanto di guida prospettica al percorso reale del paziente che deve essere ancora effettuato. Nella sua versione COMPLETED PATHWAY (Percorso Completato) descriverà l’effettiva esperienza del paziente.

Rispetto all’implementazione dei percorsi assistenziali nell’ambito di una rete clinica non bisogna sottostimare l’efficacia dei percorsi assistenziali come strumenti di supporto al team-working multidisciplinare e al conseguente impatto positivo sugli outcome (e quindi gli esiti clinici) dei pazienti.

Le reti cliniche sono realtà organizzative molto “recenti”: hanno mosso i loro primi passi solo 20 anni fa nel Regno Unito e con grande lentezza si sono diffuse negli altri sistemi sanitari come possibili soluzioni al problema della frammentazione dei servizi sanitari in tanti silos ultraspecialistici, frammentazione che caratterizza la medicina moderna. Attualmente non esiste una definizione univoca ed universalmente accettata di Rete Clinica, ma il mondo scientifico sta cominciando a proporre alcune descrizioni di ciò che è una rete. La prima di queste descrizioni è quella proposta dall’National Health Service inglese, secondo cui le reti cliniche sono “sistemi organizzativi complessi che consentono ai professionisti di più discipline di lavorare in modo coordinato nel contesto di più setting assistenziali, superando le consuete restrizioni dovute ai confini professionali ed organizzativi esistenti”. Si pone in questo caso l’accento su due concetti fondamentali:

– le reti sono sistemi complessi, cioè sistemi costituiti da tante componenti attive, difficilmente caratterizzabili, tra loro interconnesse in vario modo, ed i cui effetti non sono lineari ma spesso sinergici. Lo studio dei sistemi complessi al fine di individuarne le componenti chiave per far sì che l’intervento sia riproducibile con gli stessi risultati pone particolari problemi metodologici;
– la multidisciplinarietà che caratterizza la rete, il fatto cioè che la rete sia un sistema che facilita gli scambi tra professionisti di diverse discipline e di diversi setting assistenzia li, in modo che questi possano fare lavoro di squadra ed erogare al paziente le migliori cure lungo tutto il suo percorso di salute e malattia, senza soluzioni di continuità.

Questa orientamento delle reti a creare continuità nel percorso di cura del paziente tramite l’integrazione dei professionisti appartenenti a tutti i servizi sanitari, cioè attraverso un vero e proprio lavoro di squadra capace di abbattere i muri esistenti tra i vari setting assistenziali, è ripresa anche da chi definisce le reti cliniche come “un gruppo di professionisti che forniscono servizi di prevenzione, diagnosi, cura e di assistenza attraverso sottili confini di collaborazione e integrazione nell’ambito del sistema sanitario in cui svolgono il loro operato”.

Un ulteriore tassello sulle reti cliniche viene aggiunto da chi chiarisce come le reti debbano essere specifiche per gruppi di patologia (ad esempio tumori, ictus, disturbi respiratori, ecc.), e debbano quindi essere delle organizzazioni in cui la centralità del paziente sia davvero il perno di tutto il sistema: infatti, il servizio non dovrebbe più essere erogato sulla base della branca specialistica, ma sulla base della patologia, che spesso richiede l’intervento di professionisti di tante discipline diverse per la sua gestione.
Da tutte queste descrizioni si può quindi concludere che le reti cliniche sono sistemi organizzativi complessi, focalizzati su specifici gruppi di patologia, capaci di permettere, a professionisti appartenenti a diversi setting (e quindi contesti) assistenziali, di lavorare insieme lungo tutto il percorso di salute e malattia del paziente (dalla prevenzione, alla diagnosi, al trattamento, all’assistenza di fine vita), garantendo ai pazienti un passaggio fluido tra i vari setting di cura ed evitando il rischio, soprattutto per i più fragili, di perdersi lungo il percorso, generando disuguaglianze nell’erogazione delle cure.

Di cosa parliamo quando parliamo di cronicità e di presa in carico

Nell’ultima decade è cresciuta sempre più l’attenzione che il peso della cronicità esercita sulla salute pubblica e, di conseguenza, è aumentata la riflessione su quali siano gli equivalenti culturali ed organizzativi di questo fenomeno. Per avere una idea indiretta di quanto influisca la cronicità sullo stato di salute della popolazione si può fare riferimento a questi due dati: l’attesa di vita alla nascita e l’attesa di vita in buona salute alla nascita. Dagli ultimi Rapporti BES (Benessere Equo e Sostenibile) in Italia abbiamo che l’attesa di vita alla nascita è di 82,8 anni, mentre scende a 58,8 l’attesa di vita in buona salute. Che vuol dire? La risposta è semplice: la medicina per acuti (per semplificare, quella tipica degli ospedali) ha garantito una più lunga sopravvivenza, ma il carico di malattie croniche in modo corrispondente cresce e la qualità della vita ne risente.
Quali siano le malattie croniche
che esercitano (singolarmente ed in combinazione, perché spesso sono compresenti) un maggior effetto è presto detto. Sono sempre le stesse a partire dalle malattie cardiovascolari, come lo scompenso cardiaco, le broncopneumopatie croniche, il diabete e -fenomeno ormai da tempo emergentele demenze. Ma questo elenco è molto più lungo.
Il crescente peso della cronicità si traduce in una serie di conseguenze importanti sul piano della sanità pubblica e della organizzazione sanitaria, la prima delle quali è l’esigenza di rimettere al centro del sistema la assistenza sanitaria di base, quella dei distretti e del territorio. Il che si traduce (o si dovrebbe tradurre) in un forte potenziamento della assistenza domiciliare e residenziale e nello sviluppo di nuove forme di ambulatorialità, una ambulatorialità proattiva che anticipa la comparsa dei segni della evoluzione della(e) malattia(e) e prende in carico il paziente in modo che lo stesso partecipi al processo assistenziale e se ne faccia protagonista con l’aiuto della famiglia. Tutto questo configura la cosiddetta “presa in carico” e cioè quell’insieme di meccanismi e prestazioni che consentono al malato cronico ed alla sua famiglia di essere sempre accompagnato nel suo percorso di cura.
Il modello più in voga nell’approccio alla cronicità è quello definito chronic care model (un modello di cui esistono diverse varianti) tra i cui elementi caratterizzanti figurano:

1. la personalizzazione del percorso di cura che richiede di adattare il processo assistenziale alle caratteristiche di ciascun singolo paziente, non solo cliniche, ma anche e soprattutto sociali e culturali;
2. un diverso gioco dei ruoli tra le diverse professioni che porta, ad esempio, a valorizzare il ruolo degli educatori e alla creazione, o meglio all’utilizzo, dell’infermiere di famiglia e di comunità, una figura che si sta diffondendo sempre di più);
3. il coinvolgimento attiva della comunità il cui ruolo “esplode” ad esempio nel caso delle demenze, cui è dedicato un piano ministeriale ad hoc, il Piano Nazionale Demenze).

Una parola chiave: appropriatezza

La parola appropriatezza è stata spesso definita nel glossario della sanità come una parola valigia, dentro cui stanno un sacco di cose. Nell’interpretazione che daremo sarà anche di più: sarà una parola armadio. L’obiettivo è di offrirlo bello ordinato così uno ci tira fuori quello che serve. Secondo Avedis Donabedian, uno dei padri nobili del movimento per la qualità in sanità, l’appropriatezza è definita in negativo come inappropriatezza: “l’uso inappropriato di una risorsa che può consistere nel fornire una assistenza non necessaria, o nel fornire una assistenza necessaria usando una risorsa non adatta al livello di assistenza al momento erogata o richiesta, o nel non usare in modo incompleto il tempo durante il corso della cura”. Altri in positivo hanno definito l’appropriatezza più o meno come “fare la cosa giusta, nel posto giusto e per il tempo giusto”. Gira e rigira l’appropriatezza e l’inappropriatezza ruotano attorno all’idea che se si seguono le regole di buona pratica clinica ed organizzativa si risparmiano e recuperano almeno parte delle risorse che oggi mancano. Concentriamoci adesso su due particolari forme di (in)appropriatezza.
La inappropriatezza clinica è legata alle scelte ed ai comportamenti assistenziali non coerenti con la buona pratica assistenziale evidence based, e cioè con quanto i dati della letteratura suggeriscono come appropriato in quella specifica circostanza. Esempio: l’uso inappropriato dei farmaci nelle numwerose forme in cui esso si può manifestare, dagli antibiotici all’uso dei farmaci negli anziani. Altro esempio: la prescrizione di accertamenti diagnostici inutili. Altro esempio ancora: la effettuazione di cateterismi inutili delle vie urinarie. Questo “capitolo” della inappropriatezza è in realtà un enorme volume che sta ai professionisti leggere e utilizzare nella parte che loro interessa. C’è un doppio movimento che è nato attorno a questa tematica: quello di slow medicine e quello (direttamente collegato) di choosing wisely. Navigate su internet e fatevi una idea!
Certo è che tante risorse che man-
cano alla sanità stanno in quelle letteralmente buttate in prestazioni, farmaci e servizi “inappropriati”. Se solo il costo per farmaci pro-capite nel territorio regionale delle Marche (per fare un esempio) venisse reso omogeneo a quello della Regione più virtuosa scapperebbero fuori decine di milioni di euro l’anno (che po- tremmo destinare ad altre priorità). La organizzati- va (a proposito, il correttore del PC considera come parola da correggere, ma se scrivo in appropriatezza lo accetta : il corret- tore ha capito tutto!) sta nel dare as- sistenza nel contenitore assistenziale sbagliato, quello che richiede più risorse senza che le stesse servano a quel livello per quello specifico caso in quello specifico periodo di malattia). In pratica vuol dire assistere in terapia intensiva chi potrebbe stare in un “normale” reparto per acu- ti, assistere in un reparto per acuti chi potrebbe stare in un reparto di post-acuzie, usare l’ospedale per chi potrebbe essere assistito a domicilio o in una struttura residenziale. Im- maginiamo il sistema sanitario come un sistema di vasi comunicanti di decrescente complessità e costo. Se teniamo a monte chi potrebbe rice- vere una assistenza in un vaso “a valle” di minore impegno usiamo male le risorse a nostra disposizio- ne. Questo discorso dei vasi comu- nicanti ci ricorda un’altra cosa: se non hai contenitori a valle quelli a monte si gonfiano e magari esplodo- no. E quindi venendo ai problemi di tutti i giorni: le medicine d’urgenza dei Pronti Soccorso che aumentano i posti letto rispetto a quelli effettivi perché non ci sono posti letto liberi nei reparti, che a loro volta non riescono a dimettere perché i distretti non hanno una possibilità di risposta adeguata a livello residenziale o domiciliare. Una particolare forma di organizzativa è, dunque, tenere di più del necessario un paziente (degenze troppo lunghe) o nel tenerlo senza “fargli niente” (in attesa di un intervento o di una procedura diagnostica).
Ricordiamoci però che esiste una “per difetto. Per motivi storici l’inappropriatezza è stata vista prevalentemente come dare qualcosa “di più” che potrebbe essere risparmiato. Ma c’è anche quella per difetto, he consiste nel non dare ciò che sappiamo andrebbe dato. Gli esempi ognuno li può dare a casa sua. Qua ci limitiamo a degli esempi: non dare un trattamento riabilitativo adeguato e tempestivo, non fare la formazione dei caregiver dei pazienti affetti da demenza, non offrire percorsi di palliazione in am- bito geriatrico, non dare abbastanza assistenza infermieristica nelle aree ad alto carico assistenziale, non offrire una adeguata risposta residenziale ai problemi di disabilità, non trattare adeguatamente i problemi di malnutrizione dei pazienti in ospedale, …
In un mondo ideale la correzione della inappropriatezza per eccesso dovrebbe recuperare risorse che in un processo continuo dovrebbero servire a correggere quella per difetto.

Ma cos’è l’accreditamento?

Immaginiamo l’accreditamento come la costruzione di un manuale che guidi le organizzazioni a gestire il proprio sistema qualità e cioè l’insieme dei processi con cui si fa in modo di dare il miglior e più efficiente servizio ai cittadini. Lo stesso manuale servirà agli organismi che dovranno verificare se le varie strutture sanitarie il manuale lo utilizzano “bene”. I manuali di accreditamento sono costruiti in base ad atti di indirizzo nazionali e formalizzati da ciascuna Regione. Una volta approvati saranno da guida sia a chi eroga i servizi che a chi dovrà “accreditare” gli erogatori. Vediamo cosa scrive al riguardo del manuale l’Agenzia per i Servizi Sanitari Regionali (con la collaborazione di uno di noi, FDS).

In accordo con quanto indicato dall’OMS, il manuale per l’accreditamento delle strutture ospedaliere mira a promuovere un processo di miglioramento continuo della qualità delle prestazioni, dell’efficienza dell’organizzazione, dell’uso delle risorse e della formazione, in modo tale che ogni cittadino, in relazione ai propri bisogni sanitari, possa ricevere gli atti diagnostici e terapeutici, che garantiscano i migliori risultati in termini di salute, in rapporto allo stato attuale delle conoscenze scientifiche, al minor costo possibile e ai minori rischi iatrogeni, per conseguire la soddisfazione dei bisogni rispetto agli interventi ricevuti e agli esiti conseguiti.

L’obiettivo del manuale è quello di creare e incentivare il miglioramento attraverso un modello che permetta alle organizzazioni di effettuare una valutazione continua dell’applicazione dei requisiti, consentendo attraverso la misurazione e l’analisi di innescare processi di miglioramento continuo. Con l’accreditamento istituzionale si intende raggiungere l’obiettivo di consentire ai cittadini di usufruire di prestazioni sanitarie che siano realmente di qualità. Perché ciò sia possibile è necessario che le strutture sanitarie si dotino di modelli organizzativi e gestionali di riconosciuta validità.

Fondare la propria organizzazione sulla base dei requisiti del manuale di accreditamento delle strutture ospedaliere vuol dire orientare la gestione ai seguenti principi:

1. Miglioramento continuo della qualità: i requisiti sono definiti in maniera tale da favorire e incoraggiare le strutture ospedaliere a migliorare la qualità e la performance delle prestazioni erogate;
2. Centralità dei pazienti: i requisiti fanno riferimento alla centralità del paziente e alla continuità delle cure;
3. Pianificazione e valutazione della performance: i requisiti valutano l’efficienza e l’efficacia della struttura sanitaria;
4. Sicurezza: i requisiti includono interventi per migliorare e garantire la sicurezza dei pazienti, dei visitatori e del personale;
5. Evidenza scientifica: i requisiti sono frutto del consenso nazionale e dell’analisi della letteratura

Il modello di accreditamento che andrà adottato si basa sul ciclo di Deming (ciclo di PDCA plan–do– check–act) in grado di promuovere una cultura della qualità tesa al miglioramento continuo dei processi e all’utilizzo ottimale delle risorse. Questo strumento parte dall’assunto che per perseguire la qualità è necessaria la costante interazione tra pianificazione, progettazione, implementazione, misurazione, monitoraggio, analisi e miglioramento. Applicare costantemente le quattro fasi del ciclo di Deming consente di migliorare continuamente la qualità e soddisfare le esigenze del cittadino/paziente.

La sequenza logica è la seguente:
P sta per Plan (Pianificazione): l’organizzazione deve aver predisposto la documentazione necessaria a descrivere le modalità di raggiungimento dell’obiettivo per la qualità definito dal requisito per l’accreditamento;
D sta per Do (Implementazione): l’organizzazione deve garantire l’implementazione di quanto defini to in fase di progettazione e pianificazione;
C sta per Check (Controllo): studio e raccolta dei risultati così che l’organizzazione riesca a monitorare in maniera continua la qualità delle strutture, dei processi e degli esiti derivanti dall’erogazione del servizio; A sta per Act (Azione): per rendere definitivo e/o migliorare struttura/ processo/esito l’organizzazione deve analizzare e valutare i risultati del monitoraggio, effettuare un’analisi delle priorità e definire e mettere in campo iniziative per migliorare la qualità delle strutture, dei processi e degli esiti.

Saluti finali

Abbiamo provato ad accompagnare i nostri giovani Colleghi in un iniziale percorso di familiarizzazione con il glossario della sanità di oggi. Il nostro obiettivo è quello di stimolarvi ad arricchire la vostra valigetta con alcune parole e con alcuni strumenti necessari alla pratica professionale di oggi. Niente di nuovo e sconvolgente in realtà. Alla base di tutto ci sono le competenze cliniche necessarie alla pratica di una medicina “sobria, rispettosa e giusta”, come dice Slow Medicine. Una pratica che ha bisogno anche di alcune competenze sul versante organizzativo e su quello della comunicazione professionale. Prendete queste pagine come uno stimolo a tenere conto anche di quello che in maniera magari un po’ confusa abbiamo cercato di trasmettervi. Non capirete probabilmente tutto e subito e di questo la colpa è solo nostra. Ma ogni tanto ripensateci, rileggete e approfondite. Buon viaggio.

Le immagini della Baia di Portonovo (Ancona) qui pubblicate appartengono all’archivio fotografico personale di Claudio Maria Maffei

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